"Qualche volta Dio uccide gli amanti per non essere superato in amore" Alda Merini.
martedì 30 agosto 2005
Prima e dopo
venerdì 26 agosto 2005
Porceddu'
Idiosincrasie da ricchi. Che male c’è? Tanto più che «era sempre gentile ed educato, anche
quando intuivi il suo fastidio. Ad esempio, lo irritava il fatto che nel viale d’ingresso si depositassero le foglie cadute dagli alberi, le faceva levare subito. Gli piacciono gli oggetti in marmo, sa dove sono dislocati tutti quelli che ci sono nella villa e li sposta di persona se qualcuno non è al suo posto». Si abbuffa di ciambellone a colazione, ma a tavola è parco, più attento alla presentazione dei cibi che ai sapori: «Detesta aglio e cipolla, non ama le pietanze troppo saporite anche perché è sempre a dieta, ma adora il cioccolato e il gelato al pistacchio. Pranza sempre all’aperto, in tavoli ovali, sentivamo Apicella suonare mentre lui mangiava. Le cene erano trionfi di buffet e composizioni floreali, bada molto all’immagine».
E il vino? Lo beve nel calice personale: «Vetro di Murano e base in oro zecchino. Glielo portava Giuseppe, il cameriere di fiducia, su un vassoio, lui diceva che da quello il vino si gusta meglio»”.
mercoledì 24 agosto 2005
A tutta velocità
Foto tratta dal sito: www.fiat500mylove.it
Negli ultimi giorni, le immagini più ricorrenti nei telegiornali sono state quelle tradizionali (e francamente monocordi) del primo grande controesodo (espressione sobria), allietato – magari era proprio questa la notizia – dal maltempo. Così tutte le aperture sono state dedicate a tale fenomeno, con gli inviati (penso sempre si tratti di quelli che hanno colpe da espiare) a presidiare le sale della società Autostrade, per osservare i monitor che mostravano lunghe file di auto. Il clou nel prossimo fine settimana quando, assieme al secondo e ultimo (così è stato stabilito) controesodo, si aggiungerà la riapertura delle grandi fabbriche del Nord.
Non so se usi ancora adoperare questo termine impegnativo (certo meno riaprire le fabbriche), ma il binomio funziona, o funzionava, in ogni caso. La mestizia che sempre accompagna i filmati, accentuata dai commenti ad hoc, era resa ancora più visibile dal comunque insolito panorama, con la pioggia e il vento (e temperature in calo) che flagellavano le auto.
Primi anticipi di autunno, esordiva con neppure troppa cautela qualcuno perché, si sa, occorre sempre porsi un passo avanti a tutti. Anche al calendario. Da qui in poi a ruota libera e così ho potuto ascoltare una brillante giornalista, sempre tale anche se del tg regionale, che si faceva portavoce dei lamenti, descrivendo il ritorno a casa. Raccontava di famiglie, appena rientrate e con le valigie da svuotare, che dovevano essere subito pronte a riempire gli zaini dei figli per l’imminente inizio dell’anno scolastico. Perciò, in una domenica grigia e piovosa che aveva tenuto lontano dalle spiagge (ma non si era rientrati dalle vacanze?) era partita la corsa agli acquisti di ogni genere di materiale scolastico. Ma perché? Perché, mi chiedo, tutto sempre di corsa, come uno stupido modello di consumo impone?
Dopo aver corso per la partenza estiva, dopo aver corso, si può esser certi, per compiere il viaggio di ritorno, non si può neppure rifiatare, perché ancora una corsa, l’ennesima e quindi - tempo due mesi circa - ne scatterà un’altra, di corsa, ovviamente quella per i regali di Natale e, in mezzo, si susseguiranno l’inevitabile e virtuale dottore televisivo, quello sempre sorridente e in camice bianco con stetoscopio al collo, oppure nel taschino anteriore, che dispenserà amorevoli consigli su come fronteggiare l’influenza e quella sesquipedale* (mi perdoni la citazione l’immenso Giòanbrerafucarlo) sciocchezza, a cui i bambini vengono addomesticati fin dalla più tenera età, di Halloween, mentre ancora mi chiedo cosa si aspetti a celebrare anche da noi, anche in Italia dico, la festa del Ringraziamento, come Usa docet.
E sempre tutto in affanno, all’assalto (altra immagine molto ricorrente, specie con i grandi numeri) di qualunque cosa. Perché nulla deve sfuggire alla delirante voracità onnivora dell’epoca presente. Di corsa, già, ma dove?
*enorme, colossale, secondo il calciolinguaggio di Gianni Brera, un grande giornalista e scrittore sportivo, morto alcuni anni fa.
martedì 9 agosto 2005
Poeti per caso
Seduti in autobus, dietro di me, tre ragazzi discutono in modo insolitamente (poi spiegherò il perché di questo avverbio) colto di musica. Confrontano melodie, canzoni, “attacchi” di chitarra, si esaltano per le scoperte estemporanee di affinità che riscontrano tra le parole. Quello dei tre che sembra essere il leader, anche per la posizione centrale che occupa, raccoglie ed elabora i vari spunti, traduce all’istante pure i versi dall’inglese all’italiano. Mi sorprende non solo la familiarità con la lingua, ma anche le citazioni che vengono fatte.
Parla del testo di una canzone che è poi una poesia di John Donne. Recita a memoria. E’ un vero e proprio divertimento culturale, sebbene ancora non riesca a capire di quale gruppo si tratti e che tipo di musica li attragga così tanto.
La conversazione non pare proprio esaurirsi. Sono sorpreso anche per la durata e per l’assenza di banalità. Immagino che suonino da soli o in una band. Certo frequentano concerti.
Poi il mistero comincia a svelarsi, il genere musicale è quello che mi rifiuto di riconoscere (metallica) come tale, ma devo ammettere che attraverso le loro parole scopro aspetti inediti e impensabili. Un punto di vista che rischia di diventare perfino accattivante. E mentre rincorro i versi citati, mi accorgo che adesso il loro dialogo sta declinando verso vallate più prosaiche che confermano quell’”insolitamente” con cui avevo etichettato la loro conversazione.
Si decantano, infatti le virtù non solo musicali, di un chitarrista che pare renda al meglio se ubriaco “Ma no, che non era ubriaco” - precisa uno dei tre – “solo un po’ brillo” e qui la disquisizione diventa sottile, perché scende verso i vari... gradi che definiscono una sbronza. Perciò aver bevuto mezzo litro di vino a digiuno, scolato altri bicchieri sparsi qua e là (le prodezze del musicista) autorizza a parlare di ubriacatura. Adesso è tra loro che avviene il confronto, ossia sulla quantità di vino oppure di birra che riescono a reggere.
Ma ormai mi disinteresso di queste farneticazioni, concentrandomi invece sulla ricerca che andrò a compiere.
Per inquadrare il poeta mi aiuta Wikipedia (www.wikipedia.org).
John Donne, pron. Dùn (Londra, 1572 - 1631), fu un religioso inglese, decano della cattedrale londinese di St. Paul, ed uno fra i più grandi poeti metafisici. Scrisse sermoni e poemi di carattere religioso, traduzioni latine, epigrammi, elegie, canzoni e sonetti. Celeberrimi sono i suoi versi di "Nessun uomo è un'isola" contenuti in Meditation XVII e citati da Hemingway in Per chi suona la campana.Attento ai mutamenti della sua epoca - diviso tra la scienza di Copernico e Keplero e la filosofia di Bacone e Calvino - fu il primo a citare in un componimento (Ignatius his Conclave del 1611) Galileo Galilei.Cresciuto in una famiglia che professava il cattolicesimo, Donne studiò dal 1584 a Oxford e, successivamente, a Cambridge; viaggiò per l'Europa e nel 1595 accompagnò il conte di Essex nelle spedizioni inglesi a Cadice e alle isole Azzorre. Ritornato in patria divenne segretario del barone Ellesmere Egerton, di cui sposò clandestinamente nel 1601 la nipote Anne More; iniziò a questo punto la sua attività letteraria. Suoi primi lavori furono canzoni satiriche e sonetti, che costituiscono il corpus giovanile della sua opera e sono apprezzabili soprattutto per il loro realistico e sensuale stile.Le nozze clandestine con Anne More non giovarono alla sua reputazione, cosa questa che influenzerà notevolmente la sua successiva produzione letteraria. Contestualmente, si avvicinò all'anglicanesimo affrontando da un punto di vista differente dubbi e tematiche politico-sociali, ma anche scientifiche e filosofiche, del suo tempo.Tra mille difficoltà finanziarie, sull'orlo della disperazione (e forse anche del suicidio), sebbene fosse ormai diventato un predicatore affermato (molti suoi lavori saranno raccolti nel 1624 nelle sue Devotions) e per due volte (1601 e 1614) membro del parlamento, prese i voti e fu ordinato decano della chiesa anglicana dal re Giacomo I d'Inghilterra.Dal 1617, anno in cui morì la moglie, la sua poesia si farà sempre più cupa, privilegiando temi funerei e pessimistiche considerazioni esistenziali.
Nessun uomo è un'isola,
completo in se stesso;
ogni uomo è un pezzo del continente,
una parte del tutto.
Se anche solo una nuvola
venisse lavata via dal mare,
l'Europa ne sarebbe diminuita,
come se le mancasse un promontorio,
come se venisse a mancare
una dimora di amici tuoi,
o la tua stessa casa.
La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,
perché io sono parte dell'umanità.
E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana:
suona per te
Ma, pur apprezzando, non sono i versi che cerco. Trovo anche una struggente poesia.
Canzone
Mio dolcissimo amore, non fuggo
per stanchezza di te,
né perchè spero che il mondo possa offrirmi
un amore più degno;
ma poiché è destino
che io debba infine morire, è molto meglio
che mi prenda per scherzo l'abitudine
di morire così di qualche morte finta.
Ieri sera anche il sole era fuggito,
eppure oggi è qui.
Lui non ha desideri e non ha sensi,
nemmeno un corso breve come il mio:
dunque non ti preoccupare per me,
credi che tutti i miei viaggi
saranno assai più rapidi, perchè io
ho più ali e più sproni di lui.
Ma come è fragile il potere dell'uomo,
che se anche ha buona fortuna
non vi si può aggiungere un'ora di più,
nè richiamare un'ora che ha perduta!
Ma venga pure la cattiva sorte:
le aggiungeremo la nostra forza,
le insegneremo l'arte e la portata,
così che su noi tragga vantaggio.
Quando sospiri non sospiri vento,
ma esali la mia anima;
quando piangi, scortesemente cortese,
corrompi il sangue della mia vita.
Non è possibile che tu mi ami
come dici di amarmi se disperdi
con la tua la mia vita,
tu che di me sei la parte migliore.
Il tuo cuore da oracolo
non mi preannunci alcun male: il destino
potrebbe prendere anche la tua parte,
realizzando così le tue paure;
pensa piuttosto che noi
ci siamo solo voltati le spalle nel sonno;
coloro che a vicenda si tengono vivi
non sono mai separati.
Ma non era di amore che parlava la canzone e i versi non li rammento nell’esatto ordine. Continuo a cercare su Google, procedo per tentativi e infine, sì, ecco la poesia che stava declamando il “metallaro”, cupa, triste, come raccontato nella biografia.
Morte tu morirai
Morte, non essere orgogliosa, sebbene alcuni ti abbiano chiamato
Potente e terribile, perché tu non lo sei;
Poiché coloro che tu pensi di sconfiggere,
Non muoiono, povera morte, né tu mi puoi uccidere
Dal riposo e dal sonno che altro non sono che tue immagini,
Molto piacere si trae; e dunque da te un piacere molto maggiore si deve trarre.
E più in fretta i nostri uomini migliori se ne vanno con te,
Riposo per le ossa e liberazione dell'anima.
Ti sei schiava del destino, del caso, dei re e di uomini disperati
E convivi con il veleno, la guerra e la malattia.
E il papavero, o gli incantesimi ci fanno dormire altrettanto
E meglio del tuo fendente; perché dunque ti gonfi?
Dopo un breve sonno, ci svegliamo per l'eternità,
E la morte non esisterà più; Morte tu morirai
Mi accorgo che in questo modo sono riuscito ad infilare addirittura tre poesie che è un fatto insolito da queste parti, ma nello stesso tempo ho aggiunto qualche altro elemento di conoscenza, utile stimolo per approfondire.
Anche se sono rigorosamente astemio, che non c’entrerà con John Donne, ma con i tre tipo “colti per caso”, sì.
venerdì 5 agosto 2005
Vite spezzate
giovedì 4 agosto 2005
Fermata d'autobus
La mattina di Sabato 2 agosto 1980 qualcuno lasciò una valigetta stipata di esplosivo nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna. Di quella strage che ha causato 85 morti e 200 feriti sono rimasti soprattutto due simboli. L’orologio fermo alle 10.25, momento dell’esplosione, e l’autobus numero 37, quello che si occupò del trasporto dei cadaveri alle camere mortuarie. Per sedici ore alla guida di quell’improvvisato carro funebre vi fu Agide Melloni, classe 1949, autista Atc.
«Per anni non ho parlato di quell’episodio – racconta Melloni – avevo visto cose terribili e non amo il protagonismo. Solo di recente ho accettato di raccontare quella giornata, l’ho fatto perché mi sono accorto che stava scomparendo la memoria di quello che era accaduto quel terribile 2 agosto. D’altra parte chi oggi ha vent’anni non era ancora nato il giorno della strage. Ora è necessario che, chi è stato testimone di quei fatti, li trasmetta alle nuove generazioni».
La mattina del 2 agosto 1980 Agide Melloni si trovava a qualche centinaio di metri dal luogo della strage ed era in procinto di entrare in servizio.
«Stavo incamminandomi con un collega verso la stazione, perché lì avrei iniziato il mio turno, quando sentimmo un botto violentissimo. Pochi minuti dopo fermammo un autobus per chiedere cosa era successo e ci venne detto che era saltata per aria la stazione. Accelerammo il passo e, una volta giunti in stazione, ci si parò davanti il terribile scenario che potete immaginare. Come tutti quelli che si trovavano nel piazzale cercammo subito di aiutare i feriti e di prestare i primi soccorsi. Un collega, Guglielmo Bonfiglioli, decise di fare un primo viaggio con un autobus, per l’appunto il 37, caricando alcuni feriti per portarli all’ospedale Maggiore».
Mentre il 37 andava e tornava dall’ospedale, la drammaticità della situazione emerse in tutta la sua proporzione: i feriti erano centinaia e le vittime alcune decine. Era una caldissima giornata d’agosto e bisognava trasportare le salme il prima possibile verso le camere mortuarie.
«Una volta tornato Bonfiglioli, decidemmo quindi di utilizzare l’autobus per trasportare i cadaveri per lasciare tutte le ambulanze disponibili per i feriti. Togliemmo i mancorrenti (le sbarre a cui ci si aggrappa per salire) dalle porte per permettere ai corpi di passare ed io mi misi alla guida. Erano circa le undici di mattina, fino al pomeriggio trasportai le salme alla camera mortuaria di via Irnerio poi, quando non ci fu più posto, ci dirigemmo verso gli obitori degli ospedali. Restai alla guida fino alle tre di notte, con me a bordo salirono a turno, vigili o poliziotti, mentre l’autobus viaggiava scortato davanti e dietro da polizia e carabinieri».
Mentre Melloni proseguiva il suo viaggio tutt’intorno un’intera città dava una mano per i soccorsi, i volontari aiutavano i militari a scavare tra le macerie, negli ospedali si formavano code per donare sangue, si formavano servizi d’ordine per dirigere il traffico, si organizzava la distribuzione dell’acqua in qualche modo tutti cercarono di essere d’aiuto.
«Fu una cosa straordinaria – ricorda Melloni con la voce rotta dall’emozione – si sono innescati meccanismi di solidarietà impensabili. Tutti sembravano sapere come comportarsi, i bolognesi in quell’occasione diedero una lezione di vita importantissima».
Proprio di quella straordinaria generosità è simbolo il 37, quell’autobus rosso e giallo con le lenzuola fissate ai finestrini.
«Continuai a lavorare fino alle tre di notte – conclude Melloni - nonostante la stanchezza e nonostante avessi saputo che nella strage era morto Mario Sica, il responsabile del servizio personale dell’Atc, un «avversario», per me che ero un sindacalista. Una persona con cui avevo costruito un ottimo rapporto nonostante la divergenza di opinioni e che fui onorato di guidare in quel suo ultimo viaggio sul 37»
da "Sabato sera" del 3 agosto 2002
La foto è tratta dall'archivio dello stesso sito
http://www.cedost.it/news/2ago/scheda.htm