giovedì 28 maggio 2009

Noi e loro







Proseguo il discorso sull’immigrazione con il corposo e stimolante contributo di Barbara Spinelli, alla quale aggiungo Roberto Saviano che viene più volte citato dall’editorialista de “La Stampa”. Un’accoppiata di tutto rispetto e che merita la giusta attenzione.





Per alcuni giorni non sarò presente su questo blog,  anche per questo motivo lascio buone letture.


 


 


Immigrati urla e silenzi


Barbara Spinelli


           


Nel dichiarare guerra agli immigrati clandestini e alla tratta di esseri umani, il governo è sicuro di una cosa: dalla sua parte ha un gran numero di italiani, almeno due su tre. Ne è sicura la Lega, assai presente nel territorio. Ne è sicuro Berlusconi, che scruta in quotidiani sondaggi l’umore degli elettori. Non ci sono solo i sondaggi, d’altronde: indagini e libri (per esempio quello di Marzio Barbagli, Immigrazione e sicurezza in Italia, Mulino 2008) confermano che la paura - in particolare la paura della crescente criminalità tra gli immigrati - è oggi un sentimento diffuso, che il politico non può ignorare. A questo sentimento possente tuttavia i governanti non solo si adeguano: lo dilatano, l’infiammano con informazioni monche, infine lo usano. È quello che Ilvo Diamanti chiama la metamorfosi della realtà in iperrealtà.


Negli ultimi vent'anni l’iperrealismo ha caratterizzato tre guerre, fondate tutte sulla paura: la guerra al terrorismo mondiale, alla droga e alla tratta di esseri umani. Le ultime due son condotte contro mafie internazionali e italiane (la tratta di migranti procura ormai più guadagni del commercio d’armi) i cui rapporti col terrorismo non sono da escludere. Sono lotte necessarie, ma non sempre il modo è adeguato: contro il terrorismo e i cartelli della droga, la guerra non ha avuto i risultati promessi.


George Lakoff, professore di linguistica, disse nel 2004 che la parola guerra - contro il terrore - era «usata non per ridurre la paura ma per crearla». La guerra alla tratta di uomini rischia insuccessi simili. Le tre guerre in corso sono spesso usate dal potere politico, che nutrendosene le rinfocola.


Roberto Saviano lo spiega da anni, con inchieste circostanziate: ci sono forme di lotta alla clandestinità votate alla sconfitta, perché trascurano la malavita italiana che di tale traffico vive. Ed è il silenzio di politici e dei giornali sulle nostre mafie a trasformare l’immigrato in falso bersaglio, oltre che in capro espiatorio. Lo scrittore lo ha ripetuto in occasione dei respingimenti in mare di fuggitivi. Le paure hanno motivo d’esistere, ma per combatterle occorrerebbe andare alle radici del male, denunciare i rapporti tra mafie straniere e italiane: le prime non esisterebbero senza le seconde, e comunque la malavita viaggia poco sui barconi. Saviano dice un’altra verità: se ci mettessimo a osservare le condotte dei migranti, la paura si complicherebbe, verrebbe controbilanciata da analisi e sentimenti diversi. Una paura che si complica è già meno infiammabile, strumentalizzabile.


Saviano elenca precise azioni di immigrati nel Sud Italia. Negli ultimi anni, alcune insurrezioni contro camorra e ’ndrangheta sono venute non dagli italiani, ormai rassegnati, ma da loro. È successo a Castelvolturno il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei immigrati africani da parte della camorra. È successo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, dopo l’uccisione di lavoratori ivoriani uccisi perché ribelli alla ’ndrangheta, il 12 dicembre 2008. Ma esistono altri casi, memorabili. Il 28 agosto 2006, all’Argentario, una ragazza dell’Honduras, Iris Palacios Cruz, annega nel salvare una bambina italiana che custodiva. L’11 agosto 2007 un muratore bosniaco, Dragan Cigan, annega nel mare di Cortellazzo dopo aver salvato due bambini (i genitori dei bambini lasciano la spiaggia senza aspettare che il suo corpo sia ritrovato). Il 10 marzo 2008 una clandestina moldava, Victoria Gojan, salva la vita a un’anziana cui badava. Lunedì scorso, due anziani coniugi sono massacrati a martellate alla stazione di Palermo, nessun passante reagisce tranne due nigeriani, Kennedy Anetor e John Paul, che acciuffano il colpevole: erano giunti poche settimane fa con un barcone a Lampedusa. Può accadere che l’immigrato inoculi nella nostra cultura un’umanità e un senso di rivolta che negli italiani sono al momento attutiti (Saviano, la Repubblica 13 maggio 2009).


Questo significa che in ogni immigrato ci sono più anime: la peggiore e la migliore. Proprio come negli italiani: siamo ospitali e xenofobi, aperti al diverso e al tempo stesso ancestralmente chiusi.


Sono anni che gli italiani ammirano simultaneamente persone diverse come Berlusconi e Ciampi. Oggi ammirano Napolitano; anche quando critica il «diffondersi di una retorica pubblica che non esita, anche in Italia, ad incorporare accenti di intolleranza o xenofobia». Son rari i popoli che hanno di se stessi un’opinione così beffarda come gli italiani, ma son rari anche i popoli che raccontano, su di sé, favole così imbellite e ignare della propria storia. L’uso che viene fatto della loro paura consolida queste favole. Nel nostro Dna c’è la cultura dell’inclusione, dicono i giornali; non c’è xenofobia né razzismo. Gli italiani non si credono capaci dei vizi che possiedono: il nemico è sempre fuori. Non vivono propriamente nella menzogna ma in una specie di bolla: in un’illusione che consola, tranquillizza, e non per forza nasce da mala fede. Nasce per celare insicurezze, debolezze. Nasce soprattutto perché il cittadino è molto male informato, e la mala informazione è una delle principali sciagure italiane. È vero, la criminalità tra gli immigrati cresce, ma cresce in un clima di legalità debole, di mafie dominanti, di degrado urbano. Un clima che esisteva prima che l’immigrazione s’estendesse, spiega Barbagli. Se la malavita italiana svanisse, quella dei clandestini diminuirebbe.


La menzogna viene piuttosto dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea. Tutti hanno contribuito alla bolla d’illusioni, al sentire della gente di cui parla Bossi. Tutti son responsabili di una realtà davanti alla quale ora ci si inchina: che vien considerata irrefutabile, immutabile, come se essa non fosse fatta delle idee soggettive che vi abbiamo messo dentro, oltre che di oggettività. I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela. La realtà dei fatti è che ogni mafia, le nostre e le straniere, si ciba di morte, di illegalità, di clandestinità. La realtà è un’Italia multietnica da anni. Il pericolo non è solo l’iperrealtà: è la manipolazione e la mala informazione.


Per questo è un po’ incongruo accusare di snobismo o elitismo chi denuncia le attuali politiche anti-immigrazione. Quando si vive in una realtà manipolata, chi si oppone non dice semplicemente no: si esercita ed esercita a vedere i fatti da più lati, non solo da uno. Rifiuta di considerare, hegelianamente, che «ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale». Che ciò che è popolare è giusto, e ciò che è impopolare ingiusto o cervellotico. Bucare la bolla vuol dire fare emergere il reale, cercare le verità cui gli italiani aspirano anche quando s’impaurano rintanandosi. Accettare le loro illusioni aiuta poco: esalta la loro parte rinunciataria, lusinga le loro risposte provvisorie, non li spinge a interrogarsi e interrogare.


Lo sguardo straniero sull’Italia è prezioso, in tempi di bolle: ogni articolo che viene da fuori erode la mala informazione. Non che gli altri europei siano migliori: nelle periferie francesi e inglesi l’esclusione è semmai più feroce. Ma ci sono parole che lo straniero dice con meno rassegnazione, meno cinismo. Ci sono domande e moniti che tengono svegli. Per esempio quando Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, ci chiede come mai accettiamo tante cose, dette da Berlusconi, manifestamente false. O quando Perry Anderson chiede come mai l’auto-ironia italiana non abbia prodotto una discussione sul passato vasta come in Germania (London Review of Books, 12-3-09). O quando l’Onu ci rammenta le leggi internazionali che stiamo violando.


La Stampa (17 maggio 2009)


 


 








Vignetta di Mauro Biani tratta dal blog: http://maurobiani.splinder.com/



 


IL CORAGGIO DIMENTICATO





CHI racconta che l' arrivo dei migranti sui barconi porta valanghe di criminali, chi racconta che incrementa violenza e degrado, sta dimenticando forse due episodi recentissimi ed estremamente significativi, che sono entrati nella storia della nostra Repubblica. Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull' onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. Manifestazioni spontanee. E sono stati africani a farle. A Castelvolturno, il 19 settembre 2008, dopo la strage a opera della camorra in cui vengono uccisi sei immigrati africani. Le vittime sono tutte giovanissime, il più anziano tra loro ha poco più di trent' anni, sale la rabbia e scoppia una rivolta davanti al luogo del massacro. La rivolta fa arrivare telecamere da ogni parte del mondo e le immagini che vengono trasmesse sono quelle di un intero popolo che ferma tutto per chiedere attenzione e giustizia. Nei sei mesi precedenti, la camorra aveva ucciso un numero impressionante di innocenti italiani. Ma nulla. Nessuna protesta. Nessuna rimostranza. Nessun italiano scende in strada. I pochi indignati, e tutti confinati sul piano locale, si sentono sempre più soli e senza forze. Ma questa solitudine finalmente si rompe quando, la mattina del 19, centinaia e centinaia di donne e uomini africani occupano le strade e gridano in faccia agli italiani la loro indignazione. Succedono incidenti. Il giorno dopo, gli africani, si faranno carico loro stessi di riparare ai danni provocati. L' obiettivo era attirare attenzione e dire: "Non osate mai più". Contro poche persone si può ogni tipo di violenza, ma contro un intera popolazione schierata, no. E poi a Rosarno. In provincia di Reggio Calabria, uno dei tanti paesini del Sud Italia a economia prevalentemente agricola che sembrano marchiati da un sottosviluppo cronico e le cui cosche, in questo caso le ‘ndrine, fatturano cifre paragonabili al Pil del paese. La cosca Pesce-Bellocco di Rosarno aveva deciso di riciclare il danaro della coca nell' edilizia in Belgio, a Bruxelles, dove per la presenza delle attività del Parlamento Europeo le case stavano vertiginosamente aumentando di prezzo. L'egemonia sul territorio è totale, ma il 12 dicembre 2008, due lavoratori ivoriani vengono feriti, uno dei due è in gravissime condizioni. La sera stessa, centinaia di stranieri - anche loro, come i ragazzi feriti, impiegati e sfruttati nei campi- si radunano per protestare. I politici intervengono, fanno promesse, ma da allora poco è cambiato. Inaspettatamente, però, il 14 di dicembre, ovvero a due soli giorni dall' aggressione, il colpevole viene arrestato e il movente risulta essere violenza a scopo estorsivo nei riguardi della comunità degli africani. La popolazione in piazza a Rosarno, contro la presenza della ' ndrangheta che domina come per diritto naturale, non era mai accaduto negli anni precedenti. Eppure, proprio in quel paese, una parte della società, storicamente, aveva sempre avuto il coraggio di resistere. Ne fu esempio Peppe Valarioti, che in piazza disse: «Non ci piegheremo», riferendosi al caso in cui avesse vinto le elezioni comunali. E quando accadde fu ucciso. Dopo di allora il silenzio è calato nelle strade calabresi. Nessuno si ribella. Solo gli africani lo fanno. E facendolo difendono la cittadinanza per tutti i calabresi, per tutti gli italiani. Per il pubblico internazionale risulta davvero difficile spiegarsi questo generale senso di criminalizzazione verso i migranti. Fatto poi da un paese, l' Italia, che ha esportato mafia in ogni angolo della terra. Che hanno fatto sviluppare il commercio della coca in Sudamerica con i loro investimenti, che hanno messo a punto, con le cinque famiglie mafiose italiane newyorkesi, una sorta di educazione mafiosa all' estero. Oggi, come le indagini dell' Fbi e della Dea dimostrano, chiunque voglia fare attività economico-criminali a New York che siano kosovari o giamaicani, georgiani o indiani devono necessariamente mediare con le famiglie italiane, che hanno perso prestigio ma non rispetto. Le mafie straniere in Italia ci sono e sono fortissime ma sono alleate di quelle italiane. Non esiste loro potere senza il consenso e la speculazione dei gruppi italiani. Basta leggere le inchieste per capire come arrivano i boss stranieri in Italia. Arrivano in aereo da Lagos o da Leopoli. Dalla Nigeria, dall' Ucraina dalla Bielorussia. Le inchieste più importanti come quella denominata Linus e fatta dai pm Giovanni Conzo e Paolo Itri della Procura di Napoli sulla mafia nigeriana dimostrano che i narcos nigeriani non arrivano sui barconi ma per aereo. Persino i disperati che per pagarsi un viaggio e avere liquidità appena atterrano trasportano in pancia ovuli di coca. Anche loro non arrivano sui barconi. Mai. Quando si generalizza, si fa il favore delle mafie. Loro vivono di questa generalizzazione. Vogliono essere gli unici partner. Se tutti gli immigrati diventano criminali, le bande criminali riusciranno a sentirsi come i loro rappresentanti e non ci sarà documento o arrivo che non sia gestito da loro. La mafia ucraina monopolizza il mercato delle badanti e degli operai edili, i nigeriani della prostituzione e della distribuzione della coca, i bulgari dell' eroina, i furti di auto di romeni e moldavi. Ma questi sono una parte minuscola delle loro comunità e sono allevate dalla criminalità italiana. Avere un atteggiamento di chiusura e criminalizzazione aiuta le organizzazioni mafiose perché si costringe ogni migrante a relazionarsi alle mafie se da loro soltanto dipendono i documenti, le abitazioni, persino gli annunci sui giornali e l' assistenza legale. E non si tratta di interpretare il ruolo delle "anime belle", come direbbe qualcuno, ma di analizzare come le mafie italiane sfruttino ogni debolezza delle comunità migranti. Meno queste vengono protette dallo Stato, più divengono a loro disposizione. Il paese in cui è bello riconoscersi - insegna Altiero Spinelli padre del pensiero europeo - è quello fatto di comportamenti non di monumenti. Io so che quella parte d' Italia che si è in questi anni comportata capendo e accogliendo, è quella parte che vede nei migranti nuove speranze e nuove forze per cambiare ciò che qui non siamo riusciti a mutare. L' Italia in cui è bello riconoscersi e che porta in sé la memoria delle persecuzioni dei propri migranti e non permetterà che questo riaccada sulla propria terra.


2009 by Roberto Saviano Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency -


ROBERTO SAVIANO


la Repubblica (13 maggio 2009)


 

mercoledì 27 maggio 2009

Migranti per bene (e per male)










Il poema di Erri De Luca è di straordinaria intensità, un racconto vibrante di note armoniose, tante perle infilate in una collana di rara e preziosa testimonianza umana. Commovente e coinvolgente. Ci sono frasi che restano scolpite addosso e non te ne liberi più.


Un frammento di ottima televisione andato in onda il 20 maggio scorso, una settimana fa, nella serata speciale della trasmissione “Che tempo che fa”. 


Mi pare un’efficace introduzione al tema “immigrazione” che voglio trattare attraverso due lettere, pubblicate in tempi diversi. E poiché mi ritrovo con una cartella personale piena di pezzi molto interessanti, questo argomento verrà trattato in più riprese. Anche perché non si può parlare di migranti, senza occuparsi pure della fiorente rinascita del razzismo che ha infettato, come una pestilenza, il tessuto sociale e civile dell’Italia in cui sta producendo devastazioni profonde.


La prima lettera venne pubblicata sul “Corriere della Sera” nella famosa rubrica: “La stanza di Montanelli”. È interessante la risposta del giornalista toscano, quasi una profezia. Fin troppo facile, potremmo esclamare adesso, ma che nel 1999 avrebbe dovuto già allarmare, se non altro dal punto di vista elettorale.


La seconda lettera, otto anni più tardi, trova ospitalità su “L’espresso” ed esprime un comune sentire ormai piuttosto diffuso.


Anche attraverso queste due testimonianze possiamo renderci conto di quanto siamo cambiati. Non credo in meglio.


 


 


La stanza di MONTANELLI


Ecco cosa penso del problema immigrazione


 


Caro Montanelli,


Mi piacerebbe che la Gran Bretagna fosse al posto dell’Italia per vedere come reagirebbero gli inglesi di fronte ai continui sbarchi di clandestini che assaltano le nostre coste. Una Thatcher come si comporterebbe? Hanno cominciato nel ‘91 gli albanesi, poi sono venuti i curdi, poi i kosovari seguiti dai montenegrini; adesso i Rom. Era inevitabile che, una volta concesso a qualcuno di entrare nel nostro Paese, si sarebbero trovati subito degli imitatori.


Forse si è sparsa la voce che noi italiani siamo degli imbelli (imbecilli), dei mollaccioni, che ci facciamo sottomettere da tutti, vittime del nostro buonismo. Mi domando: quanti sono i clandestini che sono arrivati? Penso che a tutt’oggi, settembre ‘99, siano dieci milioni. A Milano basta prendere un tram qualsiasi per capire che un terzo dei passeggeri è di origine non italiana.


Adesso i nostri politici, visto che non riescono a risolvere il problema, ci stanno raccontando la barzelletta che gli immigrati sono (e saranno) la nostra ricchezza. Ma quando mai? Non oso pensare cosa sarà l’Italia fra 20 o 30 anni. Sarà come la Jugoslavia di adesso? Meno male che io non ci sarò a vedere questo scempio futuro (sono nato nel 1930), però tremo per i miei fili e nipotini.

Giuseppe T., Milano


 


Caro Amico,


La sua lettera contiene una considerazione giusta, e una serie di osservazioni sbagliate. Cominciamo da qui. Gli immigrati non sono certo 10 milioni: scegliendo un tram di Milano come campione, lei commette un madornale errore statistico. Gli immigrati regolari sono un milione e duecentomila (la cifra proviene dal ministero dell’Interno; e spero che laggiù sappiano almeno contare i permessi di soggiorno che hanno concesso). Il numero dei clandestini è più difficile da stabilire. Probabilmente si tratta di qualche centinaia di migliaia di persone, alcune delle quali di passaggio verso altri Paesi europei, molte altre stanziali.


Secondo errore: la nazionalità. Lei ha dimenticato i nordafricani, soprattutto i tunisini, che per anni sono sbarcati a Lampedusa e in Sicilia. Non so se l’ha notato, ma negli ultimi tempi questo flusso si è arrestato. Qualcosa, quindi, deve essere successo: probabilmente le autorità locali, a differenza di quelle albanesi, sono state convinte a darsi da fare. Sarebbe interessante saperne di più, perchè in questa vicenda probabilmente è nascosta una lezione.


Le segnalo anche un’omissione, anzi due. Lei ha riunito tutti i «clandestini» in un unico gruppo, e questo è fuorviante: ci sono molti delinquenti, purtroppo; ma ci sono anche poveri diavoli che vogliono soltanto lavorare, accettando mestieri che noi italiani non vogliamo più fare, e aspettano solo di mettersi in regola.


Lei non ha detto un’altra cosa importante: i gruppi etnici si comportano in modo diverso. I guai li stanno combinando soprattutto albanesi, nigeriani e una parte dei magrebini. I cinesi si comportano spesso in modo spietato, ma tra di loro. Cingalesi, filippini e somali lavorano e non creano problemi. Di queste cose, a mio giudizio, un governo deve tenere conto. Gli inglesi, che lei ha citato, lo fanno.


Sul punto fondamentale — il fatto che siamo dei pressapochisti pasticcioni — sono invece d’accordo. Da almeno dieci anni la politica dell’immigrazione è un colabrodo. È vero che le coste della Puglia sono più accessibili delle scogliere di Dover; ma la Gran Bretagna si è comportata in modo ben più sensato e rigoroso (sebbene il passato coloniale la costringesse a notevoli aperture). Il nostro non è «buonismo»: è superficialità.


Secondo lei, è molto buono e generoso permettere che migliaia di ragazzine-schiave si vendano lungo le strade italiane? Perché non si acchiappano i loro sfruttatori, non li si mette su un aereo militare e non li si rispedisce al mittente? Non ci sono le norme? Creiamole. Ne abbiamo cinquantamila: una più, una meno... Invece noi ci riempiamo la bocca di principi altisonanti, firmiamo documenti internazionali, e poi tolleriamo questa situazione: prostitute dovunque, quartieri ceduti alla delinquenza, stazioni della metropolitana, a Roma o a Milano, in cui una donna sola non osa più scendere. È «progressista» tollerare queste cose? Non sono sicuro. A me sembra solo pazzesco.


Sa cosa penso? Che su questa storia la sinistra perderà le elezioni, senza che la destra debba muovere un dito, né infliggerci uno spot.


Corriere della Sera (27 settembre 1999)


 


 


Per posta, per e-mail


Risponde Stefania Rossini


stefaniarossini@espressoedit.it

Io democratica razzista


Cara Rossini, devo ammetterlo: sono razzista. Io, democratica, cattolica, con un passato comunista e femminista, con un bambino palestinese adottato a distanza, sono diventata intollerante verso gli immigrati. Non so cosa sia accaduto dentro di me per arrivare a definirmi così, so però quello che è accaduto intorno. Vivo in una grande città e non esco più per le strade con la tranquillità a cui avrei diritto. Ci sono uomini di mille colori che mi guardano come non mi ha mai guardato un uomo italiano: da preda. Ci sono mendicanti che ostentano ogni tipo di mutilazione e si lamentano quasi fossimo nella Londra di Dickens. Ci sono prostitute poco più che bambine praticamente nude in pieno giorno. Ci sono zingare ai semafori che, se rifiuti di farti lavare il vetro, ti sputano addosso. Ed io oggi ho paura. Così, se sono in macchina serro i vetri e la sicura degli sportelli; se sono in autobus mi tengo stretta la borsa e cerco di stare vicino a un finestrino perché - è ora che qualcuno lo dica - molti di questi immigrati non sono abituati a lavarsi, In casa non va meglio. Un anno fa qualcuno è entrato da noi in piena notte calandosi dalle grondaie e narcotizzandoci con uno spray: per lui pochi euro di bottino, per noi una violenza che ha lasciato il segno. Come vede non parlo dei casi eclatanti, come quello della ragazza uccisa in metro. Parlo della difficoltà di convivere con l’illegalità e del dolore di essere diventata razzista. Aspetto una parola che mi consoli della mia metamorfosi.


Elisabetta Di Nardo, e-mail


 


Forse la consolerà sapere che la sua metamorfosi è condivisa da molte persone di sinistra fino a qualche tempo fa schierate politicamente contro ogni frontiera e attratte dalla mescolanza delle culture (come documentato anche da una ormai famosa lettera al quotidiano “la Repubblica”). La convivenza con un’immigrazione che l’assenza di regole rende spesso violenta ha tolto colore politico alla richiesta di legalità. La destra può continuare ad alzare le solite grida xenofobe, ma è alla sinistra che tocca il compito più difficile - rivedere le proprie categorie, accettare la sicurezza come un nuovo diritto civile, imporre senza imbarazzi doveri precisi a chi vuole vivere in Italia, affinando al tempo stesso le forme di accoglienza e integrazione per quanti rispettano le regole. L’accattona che ci sputa addosso ai semafori e la badante che accompagna a morire i nostri vecchi hanno il diritto di non essere confuse.


L’espresso (maggio 2007)


 

lunedì 25 maggio 2009

L'oscurità







Capita che uno afferri la mazzetta di quotidiani del giorno prima (sabato) e apprenda da “il manifesto” che Mediaset è in sciopero. Cerca un riscontro altrove, in Rete ci si sta frequentemente, ma i siti dei giornali cartacei sono all’oscuro, in tutti i sensi. Ed è questo silenzio, lacerato solo dal “quotidiano comunista”, a inquietare.


A ciò si aggiungono le motivazioni dello sciopero che fotografano una situazione di profondo malessere nel mondo dei media, dunque non solo Mediaset, dove le sperequazioni accentuano il disagio che ogni dipendente vive. Si tratta di situazioni trasversali che attraversano tutta l’informazione. Ma quella televisiva di più, perché è il terreno dove s’investono le risorse più consistenti, perché è quello di maggiore e più semplice fruibilità, perché è in grado di determinare la formazione di un’opinione pubblica, della maggioranza silenziosa, che tanti disastri, con il suo voto compatto alla combriccola del papi del consiglio, sta causando al Paese in cui sono nato, mortificato da tale mostruosità.


Pensare che c’è ancora chi ritiene esagerato parlare di regime, senza rendersi conto – come purtroppo me ne avvedo io – di esserci dentro.  


 


 


Striscia lo sciopero


Il 90% dei tecnici Mediaset incrocia le braccia contro le esternalizzazioni selvagge e a difesa del contratto. La protesta di Cgil, Cisl e Uil manda in tilt i palinsesti, ma le reti del premier la oscurano. Tacciono anche le agenzie di stampa e i tg della tv pubblica


 


APERTURA   |   di Antonio Sciotto


Sì, Mediaset sciopera


Nonostante Silvio Berlusconi la vanti come un'azienda senza proteste, ieri gli studi romani si sono fermati e il Tg5 è stato montato dai capi. L'esplodere di format e precari fa temere licenziamenti

Si sciopera anche nell'azienda del Grande Capo. La stampa non ne parla, è un tabù per le televisioni (soprattutto quelle del Biscione), ma ieri la Videotime di Roma (400 dipendenti Mediaset) si è fermata: Forum di Rita Dalla Chiesa non è potuto andare in diretta, ma è stato registrato il giorno prima; le varie edizioni del Tg5 sono state messe in onda grazie ai quadri, che per una volta hanno sostituito il personale semplice; anche per Matrix, si è fatto ricorso a una puntata «di magazzino». La protesta è stata organizzata dai tre sindacati Cgil, Cisl e Uil (dunque non dalla sola Cgil, per cui uno sciopero anti-Berlusconi sarebbe più «scontato»), che parlano di un'adesione al 90%. I 400 di Videotime Roma sono un decimo dei circa 4000 Mediaset (a loro volta divisi in 4 società: Rti, Elettronica Industriale, Endemol e, appunto, Videotime). Coprono gli aspetti tecnici di tutte le trasmissioni, di intrattenimento come i telegiornali, in tre centri: Palatino, Cinecittà ed Elios, sulla Tiburtina.


I dipendenti di Videotime non reggono più: le condizioni di lavoro sono sempre più aspre a causa di una «pressione multipla», esercitata da almeno tre categorie che convivono negli studi accanto a loro. Innanzitutto ci sono i tanti professionisti-consulenti che ruotano attorno alle star televisive: a quanto afferma il sindacato, la parrucchiera personale di conduttrici come Rita Dalla Chiesa o Barbara D'Urso, può arrivare a guadagnare dai 700 fino a 1300 euro al giorno. Mentre il salario mensile di un dipendente Videotime - tecnici, operatori di ripresa, produzione - va dai 1200 base, fino ai 1500 se aggiungi le maggiorazioni e gli straordinari.


Ma non basta: alla base della piramide Mediaset, dunque nell'altro emisfero rispetto al privilegio delle star, c'è il vero popolo degli «sfruttati», quelli che ieri non hanno potuto neanche scioperare perché non hanno voce, e il cui utilizzo sempre più intenso sta contribuendo a mettere da parte il personale dipendente. I cosiddetti service esterni, fatti di troupe di operatori e specializzati di ripresa, fino agli stessi parrucchieri (ma quelli che truccano gli ospiti più «sfigati»): per 10 ore di lavoro possono costare all'azienda dai 50 ai 100 euro al giorno, in partita Iva o con appalti che applicano i più svariati contratti, dunque all'insegna del grande risparmio (niente ferie, niente diaria, niente tredicesime, premi di produttività o integrativi).


Infine, c'è la terza categoria di «concorrenti» alla Videotime, ma la gran parte di loro fa parte della stessa Mediaset. Si tratta dei dipendenti della Endemol (anch'essa gruppo Mediaset), che offre prodotti già pronti ai canali di Berlusconi, come Il Grande fratello. Ma ci sono anche la Corima (ex società di Corrado Mantoni), la Fascino (di Maria De Filippi), la Triangle (di Paola Perego): tutte con personale proprio, che in produzione viene affiancato o ormai sostituisce in studio quello Mediaset. Insomma, da mesi i sindacati chiedono risposte alla dirigenza perché gli accordi stipulati non vengono rispettati, come a volte gli orari, e gli interni sono sempre meno utilizzati: «Ormai da tempo non si assume e il personale interno non viene praticamente formato o è sottoutilizzato - spiega Evelino Bemportato, Rsu Slc Cgil - Temiamo che via via si voglia ridurre il personale per far sempre più ricorso a esterni e precari».


Dalla Cisl arriva più esplicita la parola «licenziamento», un tabù per Silvio Berlusconi, che si è sempre vantato del fatto che «a Mediaset non si sciopera mai né si licenzia»: «Per ora - spiega Roberto Crescentini, Rsu della Fistel Cisl - ci sono quelli che chiamiamo "licenziamenti bianchi": sottoutilizzare il personale, farlo stancare della situazione perché molli, non sostituire chi va in pensione. Ma certo, se si continua a esternalizzare a questi ritmi, temiamo un ridimensionamento più drastico».


La goccia che ha fatto traboccare il vaso, e indotto Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom a indire lo sciopero è stato l'episodio dello «stampone» per la puntata di Matrix dell'1 maggio. Lo «stampone» è il piano turni che viene esposto ogni venerdì, e vale per tutta la settimana successiva. L'azienda ha prima chiesto ai lavoratori di fare lo straordinario per il primo maggio, pubblicando di conseguenza lo «stampone» con i turni per la Festa del lavoro: ma dopo, il martedì successivo, ha deciso che la puntata non si sarebbe più fatta e, senza dire nulla, ha esposto un nuovo «stampone» con la puntata dell'1 maggio cancellata. «Può sembrare un episodio da poco - spiega il delegato Cisl - ma sono mesi che facciamo incontri per protestare del sempre minor rispetto nei nostri confronti, i lavoratori e le Rsu sono ogni giorno più marginalizzati mentre vengono utilizzati appalti e precari senza regole. Inoltre, così si creano pericolosi precedenti per il rinnovo del contratto».

Altri esempi? Sempre la Cisl, ci racconta che al centro Palatino sono rimasti ormai solo 5 operatori e 2 assistenti di ripresa per il telegiornale: «Ma li mandano in giro massimo 2 ore per le cronache parlamentari, per non dover rischiare di pagare maggiorazioni o straordinari. Per il resto si usano gli esterni: precari che aspettano anche per ore, fuori in macchina, che esca il giornalista e dica dove andare. In Abruzzo, per il terremoto, hanno mandato più di 40 troupe, cioè oltre 90 persone, tutte esterne». La Cgil aggiunge che al «capetto» delle troupe, quando si tratta di società con più persone, possono andare «sui 400-500 euro al giorno: ma per gli operatori semplici, si va dai 50 ai massimo 100 euro a seconda della bravura e dell'importanza dell'evento da coprire, per più di 10 ore di lavoro ogni giorno».


Un altro dipendente, di cui non citiamo il nome per tutelarlo, spiega di lavorare da 23 anni per Mediaset: nel 2001 - ci dice - è stato trasferito da Palermo a Roma, e nel 2003 ha avuto un'operazione al cuore con pace maker. Nonostante la sua invalidità, l'azienda non accetta di riportarlo a Palermo, e ogni week end è costretto a viaggiare per rivedere le figlie. «Intanto - spiega - hanno accordato due trasferimenti da Roma e Milano, ma a me non mi considerano proprio: anzi, stanno facendo di tutto per spingermi a dimettermi, per anni mi hanno tenuto su una sedia senza farmi fare nulla». Anche questa è Mediaset.


il manifesto (23 maggio 2009)


 


 


Così la notizia viene censurata


di Micaela Bongi


Mediaset si sciopera, ma la notizia fa molta fatica a uscire all'esterno. Anche perché i Tg del Biscione non aiutano. Eppure «il paese cresce se con esso crescono la cultura, l'innovazione, l'informazione e quindi la libertà». Parola di Silvio Berlusconi, che invia questo messaggio al convegno «Crescere tra le righe» organizzato dall'Osservatorio permanente giovani editori. All'incontro partecipa il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, che per confermare quanto il «mero proprietario» dell'azienda tenga alla libertà mette il Cavaliere, arriva a contraddirlo.

A Confalonieri viene chiesto conto delle lamentele del premier sulla qualità dell'informazione, anche di Mediaset,nei suoi confronti. Risposta: «Non sono d'accordo con quello che dice Berlusconi. Faccio dialettica con lui. Ma poi, essendo un liberale, ti lascia fare quello che vuole». Quanto ai giornalisti, «non importa quanto siano faziosi, l'importante è che sappiano fare il loro mestiere».

E Enrico Mentana, al quale l'azienda ha dato il benservito e che ha definito Mediaset un «comitato elettorale?». Altra risposta di Confalonieri: «Mi chiese di uscire in aprile e se ne è andato a febbraio. Dunque è stato per 9 mesi nel comitato elettorale e prima ancora per 18 anni». Con queste autorevoli premesse, è davvero molto difficile capire come mai i giornalisti di Mediaset non abbiano potuto dar conto dello sciopero che proprio ieri si è svolto nell'azienda, quello proclamato dai lavoratori di Videotime. E' vero che la notizia non compare nemmeno sulle principali agenzie di stampa, nemmeno una riga. Compulsando la rete si viene a sapere che l'informazione è invece ampiamente circolata su Facebook, dove appunto, nel passaparola, c'è chi lamenta la «censura televisiva» rispetto allo sciopero e quindi si attiva per raggiungere il maggior numero possibile di amici. Insomma, «il paese cresce se con esso cresce l'informazione e quindi la libertà». Ma come mai una grande azienda della comunicazione non riesce nemmeno a informare il pubblico su quel che accade al suo interno? Almeno al Tg5 un tentativo è stato fatto. Il comitato di redazione l'altroieri ha infatti stilato un comunicato per esprimere solidarietà ai colleghi in sciopero. Il testo integrale è questo: «Il comitato di redazione del Tg5 esprime solidarietà ai colleghi di Videotime che sono impegnati venerdì 22 maggio in una intera giornata di sciopero a difesa del contratto di lavoro e contro le esternalizzazioni delle attività produttive delle sedi Palatino ed Elios.

Il Cdr del Tg5 è a fianco dei dipendenti di Videotime e si augura che vengano al più presto ripristinate serene relazioni sindacali tra la Rsu e la direzione del personale di Videotime nell'interesse dell'azienda, dei dipendenti, dei giornalisti e di tutti i collaboratori».

Un comunicato a solo uso interno? L'intenzione non era quella. Perché era stato chiesto che ne fosse data lettura nel corso del telegiornale. Ma così non è stato. Da un sindacato dei lavoratori in sciopero spiegano che a impedirlo sarebbe stato il direttore della testata Clemente J. Mimun. Dal comitato di redazione Paolo Trombin conferma che è stata data la solidarietà, ma «non confermo tutto il resto». Una smentita però non c'è, mentre dalla redazione confermano quantomeno che il clima è molto teso.


Se Berlusconi, oltre a attaccare faccia a faccia i giornalisti che fanno domande sgradite, protesta continuamente perché i media forniscono un'immagine distorta della crisi, questa volta, almeno con la sua azienda, non si potrà lamentare.


il manifesto (23 maggio 2009)


 


 

domenica 24 maggio 2009

Il sangue dei giusti















Il giorno in cui nacque Capaci era un sabato, proprio come questo che se n’è da poco andato. Un giorno drammatico che avrebbe avuto il potere di rendere mesto ogni successivo 23 maggio.


Ho tra le mani “la Repubblica” del giorno dopo, domenica 24 maggio 1992. Fa parte di quei quotidiani che è doveroso conservare: rappresentano l’epoca che abbiamo vissuto, simboleggiano la nostra memoria. Per non dimenticare.


Il giornale aveva mezza pagina occupata dal titolo, coni caratteri riservati solo ai grandi eventi. Cubitali, si sarebbe detto una volta.


Nell’altra metà una bella foto del magistrato assassinato, tra l’editoriale di Eugenio Scalfari “Non c’è più tempo” (si stava eleggendo il nuovo capo dello Stato che poi, nel giro di 48 ore, sarebbe stato Scalfaro) e il sommario dei vari articoli. Quel “da pagina 2 a pagina 11” che racchiudeva le firme più illustri del giornale chiamate ad esprimersi. Il pezzo principale, che riempiva una pagina e mezzo, era stato affidato ad Attilio Bolzoni, corrispondente da Palermo. Veniva pure riportata l’ultima intervista rilasciata al quotidiano in cui Falcone ammoniva: “La mafia non dimentica, non è una piovra, è una pantera feroce. Con la memoria di un elefante”. E, accanto, la profezia di Buscetta: “Sarai famoso, è la tua fine”. “la Repubblica”, a quel tempo, non usciva il lunedì. Nella tragica circostanza avrebbe mandato in edicola un’edizione speciale, come annunciato da un riquadro in prima pagina.


Ricorda Wkipedia: “Nel tragico attentato sono rimasti miracolosamente illesi altri quattro componenti del gruppo al seguito del magistrato: l'autista giudiziario Giuseppe Costanza (seduto nei sedili posteriori dell'auto blindata guidata da Falcone) e gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo”. Chissà che fine hanno fatto questi ultimi tre agenti che, comunque, hanno potuto raccontare, forse, l’inferno vissuto in diretta.


 

sabato 23 maggio 2009

Portatore sano di falsità





Pubblicato sia nella versione cartacea de “la Repubblica”, che sull’home page del sito, questo commento di Giuseppe D’Avanzo, non a caso l’autore del decalogo di domande per il papi del consiglio, è eccellente. Uno di quegli articoli da ritagliare e conservare. Da applausi.







IL COMMENTO


Frottole e calunnie


di GIUSEPPE D'AVANZO


 


Silvio Berlusconi, pur in questo momento difficile della sua avventura politica, dovrebbe trovare un maggior controllo per riconciliarsi con una realtà che, nei suoi monologanti flussi verbali, diventa ogni ora di più leggenda, fiaba, sceneggiatura da scrivere e riscrivere secondo l'urgenza del momento. Il premier deve fare questa fatica, se ne è in grado, nel rispetto soprattutto di chi lo ascolta (e anche di se stesso).


Da giorni, il premier urla a gola piena e in qualsiasi occasione propizia contro Nicoletta Gandus, presidente del collegio che ha condannato David Mills testimone corrotto dal premier. Berlusconi con ostinazione ne vuole screditare la credibilità, la reputazione, l'imparzialità e umiliandola, senza un contraddittorio, pensa di salvare la faccia dinanzi al mondo; di cancellare con la sola forza della sua voce onnipotente e delle sue frottole indiscutibili (e mai discusse dai media) l'illegalità che il processo Mills ha ricostruito e la serena indipendenza che ha ispirato il giudizio. Il premier, da anni e da tre giorni tutti i giorni, dipinge quel giudice come "un nemico politico", come "un avversario in tutti i campi", come "un'estremista". I suoi avvocati sono giunti a rimproverare a Nicoletta Gandus "attacchi e insulti contro il premier". Quali?


L'aver firmato un appello di "condanna della politica di repressione violenta e di blocco economico messa in atto dal governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese" senza dire che la Gandus è ebrea e quell'appello era firmato da ebrei e "in nome del popolo ebreo". Il capo del governo sostiene che quel giudice "ha dimostrato avversione nei suoi confronti". La prova? La Gandus ha firmato un appello contro la legge sulla fecondazione assistita o, con centinaia di giuristi e accademici, un appello alla politica - a tutta la politica - per riequilibrare leggi che avrebbero distrutto "il sistema giudiziario e compromesso il principio della ragionevole durata dei processi", come poi è stato. Da quell'appello vengono maliziosamente estratte, a proposito della legge berlusconiana che modifica i tempi della prescrizione (la "Cirielli"), due sole parole, "obbrobrio devastante". Le due parole sono gettate sul viso della Gandus come se fossero state dette o scritte da lei e non dal presidente della Corte di Cassazione, Nicola Marvulli.


Nel corso del tempo, Berlusconi si è spinto fino alla calunnia. Al devoto Augusto Minzolini, neodirettore del Tg1, riferisce di avere un asso nella manica per dimostrare la faziosità di quel giudice. "Ho un testimone che ha ascoltato una conversazione tra il presidente del Tribunale Nicoletta Gandus, e un altro magistrato. La Gandus ha detto questa frase al suo interlocutore. "A questo str... di Berlusconi gli facciamo un c... così. Gli diamo sei anni e poi lo voglio vedere fare il presidente del Consiglio"" (la Stampa, 18.06.08). Dov'è finito questo testimone? Perché non ha mai raccontato in pubblico e a un altro giudice la volontà pregiudiziale della Gandus? Di questo testimone non si è avuta più notizia né nelle carte della ricusazione presentata dai legali del capo del governo né, dopo un anno, ora che Berlusconi è ripartito lancia in resta contro la magistratura.

Quel testimone non è mai esistito, quella conversazione non c'è mai stata. Berlusconi ha inventato l'una e l'altra di sana pianta calunniando il giudice milanese, mentendo a tutti coloro che lo hanno ascoltato e magari lo hanno preso sul serio.


La Gandus accoglie da anni in silenzio gli insulti del capo del governo, ascolta imperturbabile le frottole che sparge sul suo conto. Fa bene a tacere. Berlusconi chiede soltanto la rissa per superare le curve che lo stanno screditando (o rivelando). Il premier ci va a nozze nel discorso pubblico che si fa nebbia e rissa. Ne ricava la radicalizzazione del suo consenso, e questo è l'unica cosa che gli serve e vuole. E tuttavia, anche per Berlusconi, ci deve essere un limite alla manipolazione della realtà e proporgli quel limite, la necessaria coerenza delle sue parole alle cose, ai fatti, alla storia delle persone, deve essere fatica quotidiana di chi lo ascolta. Può continuare, il premier, a ripetere senza che alcuno lo interrompa di non aver mai conosciuto David Mills nonostante l'avvocato inglese abbia detto e scritto di averlo incontrato, per lo meno, in due occasioni? Quando Berlusconi verrà a spiegarci che la seconda guerra mondiale è scoppiata perché un dissennato Belgio ha invaso il distratto Terzo Reich? O che il Sole gira intorno alla Terra immobile? Può credere il premier di essere sempre nella poltrona bianca di Porta a Porta?


 la Repubblica (22 maggio 2009)