martedì 5 settembre 2006

Il gigante buono



 


 


 


 


 


 


Sarti, Burgnich, Facchetti... Quel mantra che ripetevo da ragazzino, quando le formazioni delle squadre di calcio si potevano imparare a memoria e il club che vinceva il campionato (e solo quello) partecipava ovviamente alla coppa dei Campioni. Ed era tutto un altro calcio. E lo giocavano, quel calcio, signori formidabili per classe e stima.


Chi scrive non è interista, ma ha imparato ad amare il calcio, quel calcio, rimpianto più che mai, proprio recitando quel mantra e appassionandosi alle immagini in bianco e nero di una squadra che, a quel tempo, era davvero la squadra di tutti.


Un calcio intramontabile nella memoria, incancellabile per persone di limpidezza morale che lo popolavano. Una di queste era appunto il capitano dell’Inter e della  Nazionale Giacinto Facchetti. Per chi, come me, ha amato quel calcio, senza distinzioni di bandiera, il vero calcio, oggi è pure morta una piccola parte di se stessi, come l’infanzia che ti attraversa e vola via, impalpabile ed eterea.


Che la terra ti sia lieve, grande Capitano.


 


IL CIELO SI È CAPOVOLTO


Lunedì, 4 Settembre 2006 15:11:19


È successo tutto in un maledettissimo giorno uguale a tanti altri. Un giorno senza segnali, senza avvertimenti, un giorno col cielo al suo posto, e non c’era modo di capire che un attimo dopo, si sarebbe capovolto. Quanto ci mettono a dirti che il tempo ti si è ristretto e non hai più garanzie? Pochissimo.


Per Giacinto Facchetti, quel giorno era stato fino a quel momento normale. Poi è seguito il silenzio. Lo chiedeva lui, anzi lo chiedeva quella famiglia così incredibilmente bella e unita che aveva intorno, con lui faceva un tutt’uno, erano qualcosa di raro, i Facchetti, tutti avremmo voluto una piccola parte in una famiglia così. Adesso, anche a loro, resta questo.


Le immagini di un ragazzo diventato uomo correndo dietro a un pallone, e rimane una grande lezione di vita, perché era un uomo pacato capace di grandi slanci, corretto fino all’inverosimile, per cui nemico acerrimo di tutte le slealtà, fortissimo, integro, figlio della provincia ma abituato a sedersi a qualsiasi tavola.


Era un uomo da re e da operai. Era un amico leggendario. Era un eroe da romanzo, Arpino lo sapeva bene. Un romanzo di vita, di classe, di essenzialità.


La prima cosa che faceva dopo le partite, era chiamare casa, i suoi figli, e Massimo Moratti. Troppe volte, quando qualcuno scompare, di lui si cercano le solo le cose buone.


 Il fatto è che di Giacinto Facchetti puoi dire solo quelle, che di cose cattive non ne trovi. Le malattie sono bastarde. Colpiscono a caso, non interessa se uno è stato buono, cattivo, perfido. Se lascia molto amore o poco. Giacinto lascia senz’altro molto amore, e quindi un infinito dolore, dietro di sé. Ma forse è sempre così. Una cosa è la conseguenza dell’altra.


Vengono in mente tante cose. Quando raccontava di suo nonno che aveva l’Unità in tasca, e quando invece parlava del suo oratorio, dove giocava da piccolo. L’attenzione affettuosa, mai abbandonata, con cui si riferiva a Helenio Herrera. I diari del Mago li aveva tenuti lui.


L’amicizia profonda, nata che erano due ragazzi, che lo ha legato a Massimo Moratti. Fino all’ultimo, uno c’è stato per l’altro, e l’altro c’era. Credendo in un miracolo, perché tutti ci abiamo creduto. Se c’era un uomo che se lo meritava, quello era Giacinto Facchetti. Ed era talmente forte, talmente integro, che a volte il miracolo sembrava arrivare.


La rabbia che lo prendeva quando capiva che ci stavano fregando, e lo facevano da tanto, troppo tempo. La fretta con cui si alzava da tavola, negli alberghi, se c’era una partita in televisione. La chiarezza con cui inquadrava caratterialmente un giocatore. Il suo odio per il fumo, su questo era intransigente. La gentilezza con cui parlava. La lettera che scrisse alla sorella di George Best, lo scorso anno, in ricordo di un campione diversissimo da lui, ma che aveva sempre stimato.


E la dignità con cui passò oltre la scomparsa della propria sorella, cancro, anche lei, e invece la felicità del suo primo giorno da nonno. La fermezza che aveva. I suoi occhi, così chiari. L’amicizia che dava e che ci si trovava a dargli. Lunghe ore a parlare, a valutare, a raccontarsi. Storie di calcio e di vita, giorni buoni e cattivi, una tale infinità di giorni insieme da pensare che non sarebbero finiti mai. E poi, mai così. Fino a quel giorno in cui ci ha chiesto silenzio e tutti abbiamo obbedito, stando ad aspettare un miracolo.


Quando le cose finiscono, ti chiedi dove vada a finire tutto questo, se in cielo, in un’altra dimensione o in niente. Certo, ti resta nel cuore. Ma in questo momento, per tanti di noi è un cuore spezzato. È andato a pezzi in un giorno maledettamente uguale a tanti altri. Senza segnali, senza avvertimenti, col cielo che se ne stava come sempre al suo posto.


Si è capovolto all’improvviso.


Susanna Wermelinger - Direttore Editoriale 


www.inter.it


Foto 1: una formazione della Grande Inter. Foto 2: Rivera e Facchetti


3 commenti:

  1. Se ne va una parte di noi.

    Sermau

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  2. Resta grande il mio dispiacere, ovviamente. Con Lui se n'è andata una parte di sogni e ricordi.



    Però, Fratello, questa te la devo raccontare:

    due anni fa morì Umberto Agnelli, presidente della Juventus, fresca di scudetto.

    Adesso Facchetti, presidente dell'Inter neoscudettata.

    Posso permettermi di sperare nello scudetto del Milan, per mantenere la tradizione?

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  3. Sermau, è una parte consistente.

    Fratello, poichè sperare non è augurare ti permetto pure :-))

    Per fortuna ho da qualche parte sia su vhs che dvd lo storico spareggio del giugno 1964 e una finale, forse del 1965, di coppa dei Campioni. I miti, compreso Carosio, restano intatti.

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