domenica 21 giugno 2009

"Non donna di provincie, ma bordello!"










Il papi contestato a Cinisello Balsamo il 19 giugno 2008


 


Era chiaro fin dall’inizio che il quorum sui referenda sarebbe stato irraggiungibile, visto che è poco faticoso e più gratificante invitare all’astensione, piuttosto che confutare i fautori dell’abrogazione delle norme sottoposte al giudizio popolare. Per questo motivo è sacrosanta la proposta dell’amico Antonio che invita a firmare una petizione  in cui si chiede il raddoppio delle firme necessarie a promuovere un referendum e, nel contempo, l’abolizione del quorum.


Chi scrive è ovviamente andato a votare esprimendo due no (schede 1 e 2) e un sì (scheda 3).


Ma che siano referenda o elezioni è sempre il popolo protagonista, nel male da un po’ di tempo a questa parte. Per tale motivo ritengo molto interessanti le riflessioni di Umberto Galimberti, sotto forma di risposta ad un lettore, sulla doppia coscienza degli italiani che soprattutto una consultazione elettorale evidenzia nitidamente. Notare la data.


Ai versi del Poeta, invece, mi è capitato di pensare spesso nelle ultime settimane, osservando un’Italia che, lo si può ben dire, sta andando a puttane, anche se di alto bordo.





LA DOPPIA COSCIENZA DEGLI ITALIANI


Risponde Umberto Galimberti


 


“Ahi, serva Italia, di dolore ostello, /nave senza nocchiere in gran tempesta, /non donna di provincie, ma bordello!”. Dante, Purgatorio Canto VI.


 


Volevo farle alcune domande che mi frullano per la testa.

Perché
lo, iscritto ai Ds, ho tanta fiducia In Prodi e così poca in D’Alema?

Perché il Pd nasce
già sbilenco? lo ci ripongo (riponevo?) grosse speranze. Perché gli amministratori di sinistra tengono così tanto alle cariche? E sempre stato così?

Perché le ingiustizie non fanno arrabbiare più nessuno? Perché non vengono valorizzate nuove risorse e potenzialità? Perché i politici fanno quello che conviene e non fanno quello che è giusto? E infine, perché siamo così ottusi, imbarazzanti, autolesionisti? Eppure siamo migliori della destra, specie quella Italiana.


Mi perdoni l’amarezza.


 


1. Io sono un grande estimatore di Prodi, anche se so di appartenere a una sparuta schiera. Le ragioni sono molto semplici. Nel suo primo governo, Prodi, con Ciampi, ha portato l’Italia nell’euro. Senza questo ingresso oggi noi saremmo del tutto fuori dal mercato mondiale. Nel suo secondo governo, con Padoa Schioppa, ha risanato in un anno i conti pubblici come riconoscono gli organismi monetari internazionali e le agenzie di rating che, nel periodo del governo Berlusconi, avevano declassato l’Italia. E siccome le agenzie di rating condizionano investimenti e fiducia nei Paesi che classificano, il loro giudizio, piaccia o non piaccia, va tenuto in gran conto. Ma gli italiani, sempre più televisivi e sempre meno democratici, sempre più tifosi e sempre meno attenti agli assetti strutturali del loro Paese, preferiscono chi li incanta con le battute a chi lavora con dedizione e passione all’emancipazione della coscienza civile in questa nostra Italia che ha tre gravi malattie: la mafia con i suoi trecento miliardi di fatturato, l’evasione fiscale al 25 per cento e i costi elevati della politica che, come una piovra, moltiplica i suoi presidi a livello centrale, regionale, provinciale, commerciale fino all’ultimo comitato di quartiere. Essendo questi problemi strutturali non è possibile risolverli in un anno, e per questo si tenta di non dare lunga vita al governo Prodi.


2. D’Alema ha tolto l’anima alla sinistra e la passione ai suoi militanti. E siccome la politica, oltre al governo dei conflitti e alla conciliazione degli interessi contrapposti è anche gestione delle passioni che alimentano gli ideali e conferiscono identità e appartenenza, azzerare le passioni significa perdere il proprio popolo e farlo rifluire in quel disorientamento che lo rende astensionista in occasione del voto. Anche in politica estera non apprezzo D’Alema a partire dalla guerra del Kosovo. Privo com’è di una cultura storico-antropologica, forse il nostro ministro degli Esteri non sa, e se lo sa è peggio perché cinicamente finge di ignorarlo, che il Kosovo è l’equivalente del Vaticano per la religione ortodossa che, dalla Grecia a Istanbul, dalla Serbia a Mosca, coinvolge milioni di persone che si rifanno alla cultura cristiana fondata e diffusa da Cirillo e Metodio proprio a partire dal Kosovo. Consegnare agli albanesi di religione musulmana questo piccolo territorio dalle quattrocento basiliche bizantine, oggi ridotte a duecento dopo le distruzioni durante la guerra, significa allontanare ancora di più il cristianesimo ortodosso dal dialogo con l’Occidente.

3. Tornando ai problemi di casa nostra, il Partito democratico a mio parere non ha alcuna possibilità di successo. L’utopia di Prodi che l’ha pensato purtroppo non si realizzerà, perché è impossibile fondere l’intransigenza dell’anima cattolica con i valori della laicità che dovrebbero essere tutelati, difesi e affermati dalla componente diessina. Basta che qualche teodem, tipo Binetti o Fioroni, si metta di traverso per difendere, arroccati, le loro posizioni, che la componente diessina si arrende e si consegna a una soluzione democristiana, con la benedizione di Santa Romana Chiesa al cui riconoscimento, da Rutelli a Veltroni, tutti ambiscono.


4. La sinistra, composta da Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica di Mussi e Salvi, è divisa tra una cultura di governo e una cultura della testimonianza. Sono due culture inconciliabili, perché per governare occorre mediazione, mentre per testimoniare basta l’intransigenza della fede o dell’ideologia, anche giuste in ciò che rivendicano, ma inefficaci per affrontare i problemi con quella gradualità che ne consenta la soluzione.


5. La destra italiana, purtroppo, non fa la “destra”, ma si accontenta di alimentare quel fondo irrazionale che alberga in ciascuno di noi e che, quando trova un leader che con quattro slogan incanta, coagula in quell’antipolitica, non rivoluzionaria, ma semplicemente ribellistica, dove tendono a convergere tutti coloro che non pensano a soluzioni, ma si entusiasmano nel rifiuto dell’esistente e nella difesa dei loro interessi particolari, come bene spiega Freud là dove illustra la psicologia delle masse.


6. È dai tempi di Dante che ci trasciniamo questi vizi e questa inosservanza delle regole comuni e condivise. E ciò è dovuto a quella doppia coscienza a cui il cattolicesimo (e non il protestantesimo) ci ha educati, per cui dal pulpito ascoltiamo i precetti e le regole e nel confessionale ci vengono perdonate le trasgressioni e le deroghe. Finché la politica non si fa carico di queste basi e strutture antropologiche che caratterizzano noi italiani, difficilmente potrà governare con incisività, senza trascurare i problemi fino a quel punto di degrado dove nessuna soluzione apparirà più all’altezza. La sua amarezza è del tutto giustificata.


Donna di Repubblica (7 luglio 2007)

mercoledì 17 giugno 2009

Sull'orlo del vulcano

Due video, di natura differente, però simmetrici, a testimoniare episodi di una contemporaneità inquieta e malata. La collettività che si unisce, scende in piazza per pretendere il rispetto delle regole. Tehran, giugno 2009. Sono coraggiosi i giovani iraniani che sfidano il regime denunciando apertamente brogli elettorali nell’elezione del presidente. Ci sono stati morti, la censura impedisce ogni contatto, negando l’informazione. Provvede la Rete, con l’interattività del web 2.0, ad aggirare ogni ostacolo. I link che seguono: http://2009iran.wordpress.com/ http://tehranlive.org./ http://www.iranian.com/ rimandano a tre blog che documentano con filmati e foto la reale situazione in Iran. Ne consiglio la condivisione e la diffusione.






Napoli, maggio 2009. La collettività che implode, disperdendosi. La paura e il terrore sono presenti (e anche comprensibili). Ad essere assente è il senso di umana pietà. Con il coraggio. Non so se sia più coraggioso abitare a Napoli, oppure a Tehran. Non so se dispongano di più temerarietà gli iraniani che affrontano il regime, lasciando alcuni morti sulle strade, oppure che affrontano… Che denunciano… Cosa? A Napoli? Dove tutto funziona all’incontrario? Dove le leggi e le regole di un Paese non hanno valore? Dove esiste uno Stato parallelo che determina la vita e la morte delle persone? A Napoli vale meno che a Teheran la vita di un uomo che resta da solo a morire; accanto ha una giovane moglie disperata, attorno accade qualcosa di assolutamente irrealistico. Sembrano due mondi paralleli: quello dove vivono le persone che cercano di timbrare il biglietto in tutta fretta per scappare da quel luogo maledetto, che si affollano, si spintonano. E quello dove sono relegati Petru Birladeandu e Mirela, con la loro fisarmonica. Non comunicano tra loro, neppure si vedono. Ma a ben pensarci esiste pure un terzo mondo, affiancato a questi due. Ed è quello dove vivono i killer. Ma che città è mai questa dove cavalcando i loro scooter, imbracciando mitragliette come fossero ammennicoli, costoro irrompono come usciti da un pessimo film western? La sicurezza che uno Stato sovrano è tenuto a garantire sul territorio nazionale e dunque anche a Napoli, città ormai perduta, finisce alle porte dell’inferno.



domenica 14 giugno 2009

Progetti eversivi







Mi è piaciuto molto l'intervento appassionato di Massimo Donadi in Parlamento. Lo condivido qui e consiglio di ascoltarlo con attenzione. Parole forti, intense, che lasciano il segno.


Temo però che nulla accadrà di rilevante, almeno fino a che il popolo non si desterà dal lungo sonno per sollevarsi contro il progetto eversivo del papi e dei suoi accoliti. Magari andando a lezione dagli iraniani, insorti dopo i presunti brogli elettorali.


Quando sarà colma la misura in Italia?


Aggiungo due prime pagine (12 giugno), dell’”Unità e del “manifesto, incastrate nel blocco di tre articoli, tutti tratti da “la Repubblica”.


Post lungo, me ne rendo conto, ma come spesso ripeto si può leggere a dosi omeopatiche, oppure sorbirselo per intero tutto in una volta.


Di certo siamo al crepuscolo della democrazia, la notte della Repubblica sta per cominciare. Una notte nera come le ronde che si apprestano a scendere per strada.




Le nuove regole sulle intercettazioni vanno incontro a una vera ossessione del Cavaliere


Vietato trascrivere anche se un capo Rai chiede silenzio su dati elettorali non graditi al Capo


Quello che sui giornali non leggerete più


di GIUSEPPE D'AVANZO


 


"Se escono fuori registrazioni lascio questo Paese". Lo disse Berlusconi l'anno scorso, ad Ancona, e così annunciò la sua offensiva contro le intercettazioni. Più che un'offensiva, la distruzione risolutiva di uno strumento d'indagine essenziale per la sicurezza del Paese e del cittadino. "Permetteremo le intercettazioni - disse nelle Marche quel giorno, era aprile - soltanto per reati di terrorismo e criminalità organizzata e ci saranno cinque anni di carcere per chi le ordina, per chi le fa, per chi le diffonde, oltre a multe salatissime per gli editori che le pubblicano".


Come d'abitudine, il Cavaliere la spara grossa, grossissima, consapevole che quel che ha in mente è un obiettivo più ridotto, ma tuttavia adeguato alla volontà di togliere dalla cassetta degli attrezzi della magistratura e delle polizie un arnese essenziale al lavoro. E, dagli strumenti dell'informazione, un utensile che, maneggiato con cura (e non sempre lo è stato), si è dimostrato molto efficace per raccontare le ombre del potere. La possibilità di essere ascoltato nelle sue conversazioni - magari perché il suo interlocutore era sott'inchiesta, come gli è accaduto nei colloqui con Agostino Saccà o, in passato, con Marcello Dell'Utri - è per il Cavaliere un'ossessione, un'ansia, una fobia. Ci è incappato più d'una volta.


Nel Capodanno 1987, alle ore 20,52 dalla villa di Arcore (Berlusconi festeggia con Fedele Confalonieri e Bettino Craxi).


Berlusconi. Iniziamo male l'anno!


Dell'Utri. Perché male?


Berlusconi. Perché dovevano venire due [ragazze] di Drive In che ci hanno fatto il bidone! E anche Craxi è fuori dalla grazia di Dio!


Dell'Utri. Ah! Ma che te ne frega di Drive In?


Berlusconi. Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più! Se non comincia così l'anno, non si scopa più!


Dell'Utri. Va bene, insomma, che vada a scopare in un altro posto!


La conversazione racconta la familiarità tra il tycoon e un presidente del consiglio allora in carica che gli confeziona, per i suoi network televisivi, un decreto legge su misura, poi bocciato dalla Corte Costituzionale.


Già l'anno prima, il giorno di Natale del 1986, il nome di Berlusconi era saltato fuori in un'intercettazione tra un mafioso, Gaetano Cinà, e il fratello di Marcello Dell'Utri, Alberto.


Cinà. Lo sai quanto pesava la cassata del Cavaliere?


Dell'Utri. No, quanto pesava, quattro chili?


Cinà. Sì, va be'! Undici chili e ottocento!


Dell'Utri. Minchione! E che gli arrivò, un camion gli arrivò?


Cinà. Certo, ho dovuto far fare una cassa dal falegname, altrimenti si rompeva!


Perché un mafioso di primo piano come Cinà si prendesse il disturbo di regalare un monumento di glassa al Cavaliere rimane ancora un enigma, ma documenta quanto meno il tentativo di Cosa Nostra di ingraziarselo.


Al contrario, è Berlusconi che sembra promettere un beneficio ad Agostino Saccà, direttore di RaiFiction quando, il 6 luglio 2007, gli dice: "Io sai che poi ti ricambierò dall'altra parte, quando tu sarai un libero imprenditore, mi impegno a ... eh! A darti un grande sostegno". Che cosa chiedeva il premier? Il favore di un ingaggio per una soubrette utile a conquistare un senatore e mettere sotto il governo Prodi. O magari...


Ancora uno stralcio:


Saccà. Lei è l'unica persona che non mi ha mai chiesto niente, voglio dire...


Berlusconi. Io qualche volta di donne... e ti chiedo... per sollevare il morale del Capo (ridendo).

E in effetti, con molto tatto, Berlusconi chiede di sistemare o per lo meno di prendere in considerazione questa o quella attrice. Qualcuna "perché sta diventando pericolosa".


È l'ascolto di queste conversazioni, disvelatrici dei rapporti con una politica corrotta, con il servizio pubblico televisivo in teoria concorrente, addirittura con poteri criminali, che il premier vuole rendere da oggi irrealizzabile per la magistratura e vietato alla pubblicazione, anche la più rispettosa della privacy.


Per scardinare, nell'opinione pubblica, la convinzione che gli ascolti telefonici, ambientali, telematici servano e non siano soltanto una capricciosa bizzarria di toghe intriganti e sollazzo indecente per cronisti ficcanaso, Berlusconi ha costruito nel tempo una narrazione dove si sprecano numeri iperbolici ed elaborate leggende. Dice: "Si parla di 350 mila intercettazioni, è un fatto allucinante, inaccettabile in una democrazia". Fa dire al suo ministro di Giustizia che gli italiani intercettati sono addirittura "30 milioni" mentre sono 125 mila le utenze sotto ascolto (le utenze telefoniche, non gli italiani intercettati). Alla procura di Milano, per fare un esempio, su 200 mila fascicoli penali all'anno, le indagini con intercettazioni restano sotto il 3 per cento (6136).

Altra bubbola del ministro è che gli ascolti si "mangiano" il 33 per cento del bilancio della giustizia mentre invece sfiorano soltanto il 3 per cento di quel bilancio (per la precisione il 2,9 per cento, 225 milioni di costo contro i 7 miliardi e mezzo del bilancio annuale della giustizia). Senza dire che, per inerzia del governo, lo Stato paga al gestore telefonico 26 euro per ogni tabulato, 1,6 euro al giorno per intercettare un telefono fisso, 2 euro al giorno per un cellulare e 12 per un satellitare e l'esecutivo non ha tentato nemmeno di ottenere dalle compagnie telefoniche un pagamento a forfait o tariffe agevolate in cambio della concessione pubblica (accade all'estero).


Nonostante questa inerzia, le intercettazioni si pagano da sole, anche con una sola indagine. Il caso di scuola è l'inchiesta Antonveneta. Costo dell'indagine, 8 milioni di euro. Denaro incassato dallo Stato con il patteggiamento dei 64 indagati, 340 milioni. Il costo di un anno di intercettazioni e avanza qualche decina di milioni da collocare a bilancio, come è avvenuto, per la costruzione di nuovi asili.


Comunque la si giri e la si volti, questa legge serve soltanto a contenere le angosce del premier e dei suoi amici, a proteggere le loro relazioni e i loro passi, a salvaguardare il malaffare dovunque sia diffuso e radicato. Per il cittadino che chiede sicurezza e vuole essere informato di quel accade nel Paese è soltanto una sconfitta che lo rende più debole, più indifeso, più smarrito.


Se la legge dovesse essere confermata così com'è al Senato, i pubblici ministeri potranno chiedere di intercettare un indagato soltanto quando hanno già ottenuto quei "gravi indizi di colpevolezza" che giustificherebbero il suo arresto. E allora che bisogno c'è delle intercettazioni? Forse è davvero la morte della giustizia penale, come scrive l'associazione magistrati. Certo, è l'eclissi di un segmento rilevante dell'informazione. Da oggi si potranno soltanto proporre dei "riassuntini" dell'inchiesta e delle prove raccolte. Non si potrà pubblicare più alcun documento, nessun testo di intercettazione.

La cronaca, queste cronache del potere, però, non sono soltanto il racconto di imprese delittuose. Non deve esserci necessariamente un delitto, una responsabilità penale in questi affreschi. Spesso al contrario possono rendere manifesto e pubblico soltanto un disordine sociale, un dispositivo storto che merita di essere raccontato quanto e più di un delitto perché, più di un delitto, attossica l'ordinato vivere civile.


Immaginate che ci sia un dirigente della Rai che, in una sera elettorale, chiama al telefono un famoso conduttore e gli chiede di lasciar perdere con gli exit poll che danno un risultato molesto per "il Capo". Immaginate che il dirigente Rai per essere più convincente con il conduttore spiega che quello è "un ordine del Capo". Non c'è nulla di penale, è vero, ma davvero è inutile, irrilevante raccontare ai telespettatori che la scena somministrata loro, quella sera, era truccata?

Bene, ammesso che questa sia stata una conversazione intercettata recentemente in un'inchiesta giudiziaria, non la leggerete più perché l'ossessione del premier, diventata oggi legge dello Stato, la vieta. Chi ci guadagna è soltanto chi ha il potere. Chi deve giudicarlo non ne avrà più né gli strumenti né l'occasione.


la Repubblica (11 giugno 2009)


 


Intervista al procuratore aggiunto a Milano Spataro:


"La legge sulle intercettazioni è incostituzionale e irragionevole"


"Sarà impossibile salvare vite umane e tanti omicidi resteranno irrisolti"


di LIANA MILELLA


 


ROMA - "Incostituzionale" per via della durata breve (solo due mesi), per i privilegi agli 007, per il diritto di cronaca compresso. "Irragionevole" perché "azzera" un fondamentale strumento d'indagine. E pure gravemente colpevole, visto che "gli omicidi irrisolti saliranno incredibilmente di numero e sarà più difficile salvare vite umane". Il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro continua a sfogliare la nuova legge sulle intercettazioni e con Repubblica sconsolato commenta: "Ma come si fa a scrivere una legge così?".


Il suo ex collega Di Pietro dice che è cominciata "la notte della Repubblica". Condivide?

"Beh, io direi che "la notte continua.." se penso a ciò che, in nome della sicurezza, è stato fatto violando i diritti fondamentali delle persone. Ma ora si rischia di contraddire anche quelle scelte: come si può conciliare con la sicurezza l'azzeramento del più efficace strumento per individuare assassini, rapinatori, stupratori e trafficanti?".


L'opposizione si appella a Napolitano e denuncia profili di incostituzionalità. Lei ne vede?

"Potrebbero essercene. Ad esempio, limitare gli ascolti a due mesi inciderà sull'obbligatorietà dell'azione penale. Magari, allo scadere dei 60 giorni, arrivano conversazioni importanti, ma l'intercettazione deve fermarsi. Polizia e pm s'arrangino. Il regime privilegiato per gli agenti dei servizi segreti viola il principio d'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Per non parlare della libertà di stampa gravemente compressa, in modo non proporzionale rispetto alla pur giusta esigenza d'impedire violazioni della privacy".


Se la legge passa com'è quali delle sue inchieste e di quelle che conosce non si potranno più fare?

"Le rispondo solo se Repubblica mi concede due pagine piene. Sarebbe facile citare casi clamorosi come quello del sequestro illegale di Abu Omar. O casi di corruzione. Ma vorrei essere chiaro: sono innumerevoli gli omicidi che vengono risolti dopo mesi e mesi di intercettazioni. Sappiano i cittadini che gli assassini senza volto saliranno incredibilmente di numero e sarà più difficile salvare vite umane come avviene ora quando, intercettando ed indagando, si scoprono progetti di uccidere qualcuno".


Gli "evidenti indizi di colpevolezza" saranno una tagliola?


"Sì. È irrazionale. "Evidenti indizi di colpevolezza" a carico dell'indagato è quanto la legge richiede perché il pm possa chiederne la cattura. Giuridicamente, "grave" equivale ad "evidente". Ma se dispone già di "evidenti indizi" che bisogno avrebbe il pm di intercettare l'indagato? Ne chiederebbe la cattura e basta. Dopo le critiche dei giuristi, la parola "gravi" è stata cambiata in "evidenti": ma l'incongruenza rimane. E poi come sarà possibile avere indizi di colpevolezza a carico di taluno nei processi contro ignoti?".


E quali indagini moriranno con soli due mesi di ascolti?


"Praticamente impossibile contarle. Ci sono indagini in corso, tuttora segrete, che hanno fatto registrare risultati clamorosi dopo mesi di intercettazioni. Ora si arriva perfino a prevedere un tetto di spesa. Finiti i soldi, niente intercettazioni, con grande soddisfazione dei criminali. Lo spieghino, però, alle vittime dei reati".


Mafia: ha ragione la Bongiorno, convinta che per queste inchieste non cambi nulla, o chi già vede le inchieste in panne?


"Stimo molto il presidente della commissione Giustizia e ricordo che condivise i rilievi del procuratore Grasso. Spesso si arriva a scoprire l'esistenza di associazioni mafiose o terroristiche indagando sui reati che mafiosi e terroristi commettono (estorsioni, usura, omicidi per i primi; emigrazione clandestina, falso di banconote e documenti per i secondi). Ma per questi reati le intercettazioni si potranno fare solo per due mesi e le ambientali solo nei luoghi ove sia in corso l'attività criminosa. Cioè posso intercettare se stanno sgozzando qualcuno, non se stanno parlando di farlo domani. Dunque, l'eccezione è solo fumo negli occhi".


Divieto d'usare le trascrizioni in altri processi: è un colpo alla legalità?


"Chi può negarlo seriamente? L'attuale codice di rito già prevede dei limiti severi sul punto, ma andare oltre significa impedire che siano utilizzabili elementi di prova rilevanti per punire gli autori di molti gravi reati".


la Repubblica (11 giugno 2009)


 


 


Il Colonnello



Il nostro Colonnello si chiama Berlusconi. A scrutinio segreto la camera approva il disegno di legge sulle intercettazioni: colpisce le inchieste della magistratura e la libertà di stampa. Proteste in aula. 21 deputati dell'opposizione votano con la maggioranza. Il segretario dell'Anm: «I delinquenti rimarranno impuniti». Tre consiglieri del Csm si dimettono in polemica con il ministro Alfano


il manifesto


(12 giugno 2009)




 


Intercettazioni, ecco come la riforma toglie spazio ai pm e limita la stampa

Da Lady Asl agli immobiliaristi: l'obbligo di indizi "evidenti" impedirebbe molti controlli


Tangenti, "furbetti" e Calciopoli le verità che non avremmo saputo


 


ROMA - Gli orrori della clinica Santa Rita di Milano? Sarebbero rimasti ben segreti. Le partite truccate di Calciopoli? Avrebbero continuato a essere giocate. L'odioso stupro della Caffarella? Gli autori sarebbero ancora liberi. Il sequestro dell'imam Abu Omar? I pm di Milano non l'avrebbero mai scoperto. E gli agenti del Sismi che collaborarono con la Cia non avrebbero mai lasciata impressa sul nastro la fatidica frase "quell'operazione è stata illegale".


Lady Asl e la truffa della sanità nel Lazio? La cupola degli amministratori regionali avrebbe continuato ad operare indisturbata. I furbetti del quartierino? Per le scalate Antonveneta e Bnl forse non ci sarebbero stati gli "evidenti indizi di colpevolezza" per mettere i telefoni sotto controllo. A rischio le inchieste potentine di Henry John Woodcock, Vallettopoli, Savoiopoli, affaire Total, tangenti Inail, dove i nastri hanno continuato a girare per otto-nove mesi prima di produrre prove, e quelle calabresi (Poseidone, Toghe lucane, Why not) dell'ormai deputato europeo Luigi De Magistris.


Una moria impressionante, in cui cadono processi famosi e meno famosi, in cui le indagini sulla mafia sono messe a rischio perché non si potrà più mettere sotto controllo telefoni per truffa ed estorsione. Si salva Parmalat dove, come assicurano i pm di Milano e di Parma, le intercettazioni non furono determinanti né per arrestare Calisto Tanzi in quel dicembre 2003, né per accertare ragioni e colpevoli del crack. Ha detto e continua a dire l'Anm con una frase ad effetto, "è la morte della giustizia penale in Italia".


Nelle stesse ore in cui alla Camera, con il concorso dell'opposizione nonostante l'appello del giorno prima a Napolitano di Pd, Idv, Udc, si approva la legge sugli ascolti, nelle procure italiane, tra lo sconcerto e l'irritazione delle toghe, si fanno i conti delle intercettazioni che non si potranno più fare in futuro e di quelle che, in un passato recente, non sarebbero mai state possibili. E, anche se fossero state fatte, non si sarebbero mai potute pubblicare, né nella versione integrale, né tantomeno per riassunto.


Le indagini cadono su due punti chiave della legge: "evidenti indizi di colpevolezza" per ottenere un nastro, solo 60 giorni per registrare. Così schiatta l'indagine sulla clinica Santa Rita che parte con una truffa ai danni dello Stato per via dei rimborsi gonfiati e finisce per rivelare che si operava anche quando non era necessario. Non solo sarebbero mancati gli "evidenti indizi" (se ci fossero stati i pm Pradella e Siciliano avrebbero proceduto con gli arresti), ma non si sarebbe andati avanti per undici mesi, dal 4 luglio 2007 al 24 giugno 2008. Giusto a metà, era settembre, ecco le prime allusioni a un reparto dove accadevano "fatti gravi". Niente ascolti, niente testi sui giornali, niente versione integrale letta al processo, niente clinica costretta a cambiare nome per la vergogna.

Cambia corso il caso Abu Omar, nato come un sequestro di persona semplice contro ignoti. Solo due mesi di tape. Ma la telefonata chiave, quando l'imam libero per una settimana racconta alla moglie la dinamica del sequestro, giunge solo allo scadere dei 12 mesi d'ascolto. In più la signora, in quanto vittima, non avrebbe mai dato l'ok a sentire il suo telefono, come stabilisce la nuova legge.


Per un traffico organizzato di rifiuti a Milano, dove arrivava abusivamente anche la monnezza della Campania, hanno fatto 1.500 intercettazioni per sei mesi. Solo dopo i primi due s'è scoperto cosa arrivava dal Sud. In futuro impossibile. Come gli accertamenti che fanno scoprire i mafiosi. A Palermo hanno intercettato l'imprenditore Benedetto Valenza per quattro mesi: dalla truffa e dalla frode nelle pubbliche forniture sono arrivati a scoprire che riciclava i soldi del clan Vitale e forniva cemento depotenziato pure agli aeroporti di Birgi e Punta Raisi. Idem per l'inchiesta contro gli amministratori di Canicattì e Comitini che inizia per abuso d'ufficio e corruzione e approda a un maxi processo contro le cosche di Agrigento. Telefoni sotto controllo per sei mesi, ormai niente da fare.


"La gente sarà meno sicura" dicono i magistrati. E citano lo stupro della Caffarella d'inizio anno. Due arresti sbagliati (i rumeni Ractz e Loyos), il vanto di aver fatto tutto "senza intercettazioni", poi il ricorso all'ascolto sul telefono rubato alla vittima. Domani impossibile perché in un delitto contro ignoti si può intercettare solo il numero "nella disponibilità della persona offesa". Assurdo? Contraddittorio? Sì, ma ormai è legge.


la Repubblica (12 giugno 2009)


 




 


 


 


 


 


 

giovedì 11 giugno 2009

Il compagno Enrico Berlinguer













Era il 1984. Anche in quell’anno si votava, per la seconda volta, per il rinnovo del Parlamento europeo. E lui si trovava a Padova, il 7 giugno, a tenere uno degli ultimi comizi. Un discorso appassionato e drammatico nella sua conclusione.


Ho esitato prima di condividere il video, che pure è presente su YouTube, perché mi ha sempre angosciato il ricordo delle emozioni provate. Ma non sarebbe stato completo un post su Enrico Berlinguer, a venticinque anni dalla sua morte, senza queste immagini, privo del suo coinvolgente eloquio. In ogni caso è il modo migliore per celebrarne la memoria mai smarrita, almeno per quanto mi riguarda.


Ho scelto di aprire con la bella testimonianza di monsignor Bettazzi, che lo ricorda come un amico. A seguire il testo dell’intervista televisiva a “Mixer” rilasciata a Giovanni Minoli. Si tratta di una conversazione serena in cui si disvela anche il lato meno pubblico di Berlinguer, a tratti intimista, oserei dire. Molto tenera in alcuni passaggi. Sempre rivelatrice di una nobiltà d’animo che è una qualità sconosciuta alla “casta” di cui siamo oggi prigionieri.


Ma quell’intervista mi ha colpito anche per la data: esattamente un anno prima della sua morte. Non rappresenta certo il testamento politico di Berlinguer e tuttavia, letta a posteriori, considerando appunto la data, sono stato percorso da un brivido inquietante.


Onore al segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer.


 


IL RICORDO DI UN AMICO


«Una  mano aperta ai cattolici»


MONSIGNOR LUIGI BETTAZZI


Lon. Berlinguer è stato determinante nella mia vita, a motivo di quello scambio di lettere verso la fine degli anni Settanta. Capitò perfino che, sperdutomi sulle mie montagne durante un’escursione, un margaro, rintanato nella sua baita ed in collegamento con il mondo solo attraverso la radio, incredulo che io fossi il vescovo, si tranquillizzò solo quando seppe che mi chiamavo Bettazzi, commentando: «Ah! quello di Berlinguer!».


Aveva offerto la mano aperta ai cattolici prima delle elezioni del giugno 1976, assicurando che avrebbe rispettato le loro convinzioni e aprendosi alla collaborazione sui valori fondamentali del progresso e della solidarietà. Alle elezioni ottenne risultati notevoli (credo che fu la punta massima per il suo partito), anche nel territorio della mia diocesi. Ne presi atto e, per invitare anche i nuovi responsabili comunisti ad adeguarsi a quegli impegni, pensai alla Lettera aperta al Segretario nazionale del Pci, così come pochi mesi prima avevo scritto al nuovo segretario della Dc on. Zaccagnini. L’avevo fatto, dopo essermi consultato con qualche vescovo amico, per la stima che avevo sull’onestà e l’evidente intenzione di Berlinguer di porsi al servizio della Nazione, soprattutto della parte più debole e penalizzata che guardava con speranza al suo

partito.

Mi rispose con un biglietto, promettendo una risposta consistente passata l’estate. L’inserirsi nella vicenda Franzoni - con analoghe lettere aperte - forse bloccò quella risposta, che venne invece alla luce nell’ottobre 1977 quando, in previsione di un appoggio esterno del Pci al Governo di solidarietà, Berlinguer voleva tranquillizzare il mondo cattolico. Gentilmente mi fece giungere in anticipo di qualche giorno la lettera - quella che diventò famosa - attraverso l’on. Novelli, allora sindaco di Torino.


Mi fece poi sapere che avrebbe volentieri continuato il dialogo; ma le immediate precisazioni fatte nel mondo ecclesiale, che cioè io non avevo mandati della Chiesa per queste iniziative, mi suggerì di non creare equivoci. In realtà dopo qualche mese il Pci cancellò l’articolo 5 dello Statuto che obbligava i suoi membri ad essere marxisti, pur rilevando il compito che il marxismo aveva avuto nella storia del partito.


Da amici seppi che Berlinguer in quei giorni aveva sul tavolo il mio libro “Farsi uomo”, uscito da poco. Rimasi colpito dalla sua fine e pregai ancora per lui. Lo ricordo con simpatia. Credo che sia stato un “operatore di pace” non solo per il suo Partito, ma per l’Italia intera.


AVVENIMENTI 20 GIUGNO 1998






L’INTERVISTA A MIXER


«CRAXI? UN GIOCATORE DI POKER»


Intervista televisiva rilasciata a Giovanni Minoli conduttore di “Mixer” (11 giugno 1983)

Onorevole Berlinguer, in una battuta nota, l’onorevole Pajetta ha detto che lei, di nobile famiglia sarda, si è iscritto fin da ragazzo alla direzione del Pci. La considera una critica o un complimento?

«Un complimento, non del tutto vero, perché all’inizio della mia milizia comunista ho fatto il segretario di sezione».

Sempre parlando di potere, in televisione lei recentemente ha ammesso, sia pure con molta reticenza, che rifare il segretario del partito comunista, dopo dieci anni, le fa ancora piacere. Ecco, ma perché tanta reticenza nell’ammetterlo?

«Mi ha dato soddisfazione l’ampiezza del consenso con la quale sono stato designato».

Ma per lei cosa è il potere?

«Il potere è uno strumento insufficiente ma necessario per realizzare gli ideali in cui credo io e in cui credono i miei compagni».

Ma a lei cosa piace invece di più del potere?

«Mi piace la possibilità di far avanzare la realizzazione di questi ideali».

E di meno? La cosa che le dà più fastidio?

«Di meno, parlando non soltanto a titolo personale ma parlando come segretario del partito comunista, mi dispiace che il nostro potere sia ancora insufficiente, insufficiente per la realizzazione dei nostri obiettivi».

Senta onorevole Berlinguer, ma che differenza c’è tra l’austerità che predicava lei e il rigore invocato oggi dalla Confindustria e dalla Democrazia cristiana?

«Il punto fondamentale è chi paga, prevalentemente, le spese della fuoriuscita dalla crisi e del risollevamento economico e sociale del Paese. Da questo punto di vista noi rifiutiamo che a pagare siano i soliti, siano gli operai, siano le masse popolari; e riteniamo che, se sacrifici devono esserci, e tutti in misura proporzionale vi debbono contribuire, debbono servire a raggiungere determinati traguardi e non a far tornare indietro il Paese».

Ecco, però, a proposito di questo rigore, si dice che lei avrebbe in testa, per dopo le elezioni, quel governo diverso, composto da tecnici e personalità scelte fuori e dentro i partiti, una sorta dì governo del presidente, diciamo, al quale il Pci darebbe il suo sostegno. È vero o no?

«Abbiamo indicato dei criteri di formazione del governo diversi da quelli seguiti sinora, in base ai quali il presidente del Consiglio dovrebbe scegliere liberamente, e non attraverso le imposizioni e designazioni delle segreterie dei partiti, i ministri, fra uomini di partito e al di fuori del partito.Questo ritengo che sia un criterio valido per qualsiasi governo, compreso un governo di alternativa democratica».

Quindi, non c’è un’alternativa tra governo diverso e governo dell’alternativa?

«No, non mi pare. Perché il problema che abbiamo posto, ripeto, di criteri non più fondati sulla lottizzazione, sulla spartizione dei ministeri, deve riguardare qualsiasi governo, anche un governo che non sia di alternativa democratica».

In complesso, lei come giudica oggi la stampa italiana?

«Nella media, non inferiore, per certi aspetti superiore, per esempio per quanto riguarda la ricchezza dei notiziari politici, a quella di altri Paesi. Il difetto più importante...».

Troppo...

« ...no, non direi, perché mi pare che il popolo italiano conserva un interesse politico maggiore di quello che vi è nella maggior parte degli altri Paesi dello stesso occidente. Troppo, forse, nel senso che qualche volta prevale il commento sull’informazione».

Ecco, ma qual è il giornalista italiano che lei preferisce?

«Luigi Pintor, dal punto di vista delle qualità giornalistiche».


L’unico?

«No, lei mi ha detto quello che preferisco...».


E perché?

«Perché mi pare che abbia veramente la stoffa del giornalista di alta qualità».

Senta, onorevole Berlinguer, qual è l’ultimo romanzo che ha letto e che le è piaciuto?

«La “Cronaca diuna morte annunciata” di Garcia Marquez».


Perché le è piaciuto?

«Mi sembra una combinazione felicissima di poesia e di crudo realismo».

E l’ultimo film che ha visto e che le è piaciuto?

«L’ultimo è E.T.».

E perché le è piaciuto?

«È un film pieno di poesia, di fantasia e soprattutto è un film che mi pare faccia appello ai sentimenti migliori dell’infanzia».

Alla televisione, lei che programmi segue?

«I telegiornali, lo sport, qualche film».

Senta, ma lei pensa che l’arrivo delle televisioni private abbia migliorato o peggiorato, complessivamente, la qualità dei programmi proposti al pubblico?

«Dal punto di vista spettacolare, migliorato. Dal punto di vista culturale, non direi, o comunque non ancora».

Parliamo dell’evoluzione del suo modo di essere comunista. Nel ‘44 lei fu arrestato a Sassari per la rivolta del pane, e rischiò la pena di morte - leggo - “per insurrezione armata contro i poteri dello Stato, per devastazione e saccheggi, per detenzione di armi, associazione e propaganda sovversiva”. Era colpevole o innocente?

«Fui prosciolto in istruttoria per non avere commesso il fatto».

Ecco, ma allora era più giusto... voglio dire era più ingiusto quello Stato che, comunque, dopo tre mesi, l’ha processato e l’ha assolto, per non aver commesso il fatto, o lo Stato italiano di oggi che, più o meno per le stesse imputazioni tiene per esempio quelli del 7 aprile e tanti altri, come Negri e altri, da tanti anni in prigione senza giudicarli?

«Penso anch’io che sia un’assurdità questa detenzione così lunga».

Senta, Franco Piperno, I’ex leader di Potere operaio, qui a Mixer ha detto che l’elemento scatenante del terrorismo fu la politica del compromesso storico, nella versione diciamo tradizionale, perché impediva all’opposizione di avere il suo spazio. Lei cosa ne pensa?

«Penso che l’analisi sia sbagliata, ma confermi che uno dei bersagli del terrorismo era il Pci».

E il compromesso storico nel suo insieme...

«No, il Pci con tutta la sua politica e tutta la sua strategia realmente innovativa dell’assetto sociale e politico italiano».

È morto Moro, però, per il compromesso storico.

«È morto Moro, perché Moro era l’interlocutore più valido e più intelligente del Pci».

Senta, nel ‘76, a Giampaolo Pansa, il giornalista che la intervistava, lei disse di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato. Lo pensa ancora?

«Sì, ma nel senso che precisai allora. Che, se l’Italia facesse parte del Patto di Varsavia, e non della Nato, evidentemente non potremmo realizzare il socialismo così come lo pensiamo noi. Ciò non vuoi dire che qui, sotto l’ombrello della Nato, nell’ambito dei Patto Atlantico, ci si voglia far realizzare il socialismo».

Onorevole Berlinguer, ma qual è il suo peggior difetto?


«Forse una certa spigolosità del carattere».

E la qualità a cui è più affezionato?

«Quella di essere rimasto fedele agli ideali della mia gioventù».

E la cosa che le dà più fastidio sentir dire di lei?

«Che sarei triste, perché non è vero».

Lei ha una famiglia di origini nobiliari e tradizioni massoniche. Ecco, in che rapporto è con queste tradizioni?

«Dell’origine nobiliare, non mi importa niente».

E delle tradizioni massoniche?

«Mio padre si iscrisse alla massoneria, mi pare, nel 1925-26, nel momento in cui la massoneria fu vietata dal fascismo».

Quindi, in funzione antifascista. E lei è massone?

«No, per carità».

Ma, se lo fosse, si meraviglierebbe a dirlo?

«Non lo sono. Quindi non riesco a mettermi nello stato d’animo di chi lo è».

Senta, ma il «grande maestro» della massoneria, Corona, a Nizza ha detto che non c’è incompatibilità Ira essere massone e essere comunisti. Vero?


«Secondo me c’è incompatibilità, perché essere iscritti alla massoneria significa addirittura giurare fedeltà ad un’associazione i cui interessi, i cui obiettivi possono entrare in conflitto, in contrasto con quelli del partito comunista, cioè di un’altra associazione alla quale si aderisce liberamente».

Onorevole Berlinguer, per lei cos’è più importante nella vita: la politica o la vita privata?

«La politica, però non la politica in senso generico, perché io non ho fatto la scelta della politica. Io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione degli ideali comunisti».

Ecco, ma la famiglia quanto conta nella sua vita, allora?

«Conta molto».

Lei ha quattro figli. A quanto del suo essere padre, e anche marito, ha rinunciato, per fare politica?

«A una parte, certamente. E me ne rammarico continuamente».


Non ha mai pensato che non ne valeva la pena proprio per davvero?

«Non valeva la pena di rinunciare? No, questo non l’ho mai pensato e spero di non pensarlo mai».

Se un suo figlio le dicesse: «Non sono comunista», lei come reagirebbe?

«Rispetterei il suo giudizio e la sua opinione».

Ma i suoi figli sono comunisti?

«Lo chieda a loro».

Lei non lo sa?

«No, io in genere non rispondo a domande che riguardano i miei familiari. Chi vuol saperne qualche cosa, chieda a loro».

Ma lei si sente tollerante, in casa, oppure autoritario? Cioè, ha un rapporto di che tipo?

«Cerco di essere comprensivo».

Onorevole Berlinguer, qual è l’uomo politico italiano, vivente, che lei stima di più?

«Pertini».

Perché?

«Mi pare che, a parte la sua... le sue doti personali, egli abbia costituito e costituisce tuttora un punto di riferimento e di fiducia fondamentale per le istituzioni democratiche».

Il
suo avversario politico più duro, ma più leale, incontrato nel corso della sua vita politica, lunga oramai. Chi è? Italiano, naturalmente.

«Un avversario leale è stato Zaccagnini».


Senta, lei come definirebbe Craxi? Una definizione breve.

«Un buon giocatore di poker».

E DeMita?

«De Mita: persona astuta, anche intelligente, ma un po’ imbonitore».

Fanfani?

«Fanfani: uomo di spirito, tanto che è riuscito a risorgere sempre dopo non poche sconfitte».

Senta, ma lei ha degli amici veri, che non siano comunisti?

«Sì, diversi».