giovedì 28 giugno 2007

Al tramonto


Incrocio un vicino di casa, sulla via del ritorno. “Ciao Renato, come va?”. “Le mie gambe, Frank, le mie gambe non vanno più come prima" (mi pare di risentire mio padre), "sono stanco e il caldo di questi giorni mi ha ancora di più ammosciato”. “Lo so, Renato, lo so bene cosa significhi tutto questo”. “E poi Rina (la moglie n.d.r.) sta all’ospedale. Da dieci giorni Antonello (il figlio che non vive con i genitori n.d.r.) mi accompagna da lei e poi mi riporta a casa. Sono le medicine che fanno male, avvelenano invece di guarire. Però domani verrà dimessa”. “Auguri, Renato” “Grazie Frank, ciao”. E lo guardo allontanarsi barcollando su quelle gambe che lo stanno tradendo.


Non più tardi di tre mesi fa era stata la moglie a farmi un discorso più o meno analogo con il marito a sua volta in ospedale. Corsi e ricorsi. L’altalena della vita che ti vuole una volta seduto sul seggiolino e un’altra dietro a spingere, ma almeno si tratta di una situazione giocosa e gioiosa. È dunque questa la mutua assistenza che si richiede a due coniugi? È questo il reciproco affetto? È questa l’attuazione della formula, non certo vuota, che vuole moglie e marito assieme “nella buona e nella cattiva sorte”?


Non so da quanti anni siano sposati Renato e Rina. Sono tanti di certo. Entrambi hanno superato gli ottant’anni, il figlio ne ha più di cinquanta. Li conosco da una vita. Hanno partecipato ai miei lutti e anche alle mie gioie. Sono stati presenti, a modo loro e per quel che potevano, nei giorni tragici di metà aprile. E adesso la stanchezza di una vita di stenti e sacrifici sta prendendo il sopravvento con l’imposizione di questa alternanza: uno a casa e l’altro in ospedale e quando il secondo rientra il primo lo sostituirà in clinica. Mi ritrovo a pensare a chi dei due precederà l’altro, non per cinismo, quanto per un senso imperscrutabile di impotenza di fronte all’ineluttabilità della curva della vita, ormai in piena fase discendente. Naturalmente auguro a Renato e Rina di stare insieme il più a lungo possibile, ma nei 70 giorni che sono trascorsi dalla morte di mio padre risultano frequenti considerazioni del genere. E quel restar sospesi come foglie sull’albero finisce coll’essere la metafora più ricorrente.


Sono tornato al cimitero dopo quasi un mese. Ci stavo andando con una frequenza che mi risultava estranea e avevo interrotto, anche perché sono ormai troppo numerose le immagini di defunti conosciuti, molti  pure piuttosto bene, in vita. Lo verifico con stupore, perché cessai sette anni fa di leggere gli annunci funebri e così la mente tracima di ricordi legati al passato, veleggiando verso il rimpianto per un’epoca che non c’è più. Perché poi le persone morte sono rammentate in un contesto ben preciso e quel signore austero, con baffoni severi, lo vedevo sempre a messa la domenica quand’ero bambino. Ignoravo chi fosse, ma m’intimoriva. E il vortice dei ricordi diventa incontenibile. Impossibile resistere e sopportare.


Adesso la natura lussureggiante alleggerisce il peso delle reminiscenze, il cinguettare degli uccelli squarcia quella quiete che ci può essere in un cimitero nel tardo pomeriggio di una giornata estiva. L’ondulazione dei campi coltivati, la mutevolezza dei colori che li contraddistingue, l’assenza di rumori umani (neppure lo scalpiccio di piedi altrui riecheggia lungo l’ombroso sentiero) sembrano quasi regalare palpiti di benessere. Risuonano solo i passi del silenzio.


 

venerdì 22 giugno 2007

Marchio di fabbrica



Ritrovo un pezzo sull’11 settembre che ha il pregio della chiarezza e di fuoriuscita dai luoghi comuni in cui la pigrizia mentale, indotta dalla maggior parte dei media, si è arenata trionfalmente. Buoni per tutte le stagioni, gli slogan coniati dal Potere (in questo caso alla stessa stregua di un brand commerciale) esibiscono l’arroganza che si mescola alla stupidità. Le menti lobotomizzate dal Grande Fratello televisivo offrono praterie sterminate e territori vergini dove alloggiare i cervelli da rottamare. Come ha scritto il brillante finazio una traccia nella prova di italiano dell’esame (cosiddetto) di maturità che proponeva l’analisi di un testo, nella fattispecie l’XI canto del Paradiso, è stata accantonata da buona parte degli stupiti studenti che, forse, si aspettavano Federico Moccia e il suo immortale “Tre metri sopra il cielo”. Dante? Se partecipasse a “Buona domenica” o a “Studio aperto”…


L’11 settembre ci ha fuso il cervello


Marco D’Eramo


il manifesto (13 settembre 2006)


Da giorni il pianeta si chiede pensoso in che modo l’11 settembre 2001 ha cambiato per sempre il mondo e la nostra vita. Molte le conseguenze sviscerate, dal ridursi della nostra privacy all’insicurezza. Ma un cambiamento non viene mai nominato. Ed è che l’11 settembre ci ha reso tutti più stupidi: gli aerei schiantatisi sul World Trade Center non solo hanno disciolto l’acciaio delle Twin Towers, ma ci hanno anche fuso il cervello. Il danno collaterale più devastante è quello che ha sgretolato la nostra capacità di ragionare. Non si spiegherebbe altrimenti come mai in cinque anni nessun politico, filosofo, opinionista, linguista abbia sul serio tentato di analizzare la nozione che da quel fatidico mattino settembrino tiranneggia il campo semantico del nostro dibattito politico, e cioè il concetto di «guerra al terrorismo». Analizzare vuole dire valutare se quest’espressione va presa alla lettera, o in senso metaforico, oppure connotativo, o se invece è solo uno pseudoconcetto.


Alla lettera non può essere certo presa: il terrorismo costituisce una specifica sottotecnica dell’arte della guerra, come la guerriglia, o il paracadutismo. In quest’accezione, dichiarare «guerra al terrorismo» ha altrettanto senso quanto dichiarare «guerra al paracadutismo». O, per restare in tema, quanto una «guerra alla guerriglia». Ma se non alla lettera, come?


Forse come metafora? Nello stesso modo in cui il presidente Lyndon Johnson dichiarò nel 1964 la «guerra alla povertà»? No di certo, visto che la guerra al terrorismo nulla ha di metaforico e il sangue che versa è più che reale. Allora forse in un altro senso retorico, che sostituisce l’astratto sostantivo singolare alla concreta molteplicità degli agenti: qui, «guerra al terrorismo» sostituirebbe «guerra ai terroristi», come «guerra alla droga» sta per «guerra ai narcotrafficanti» (nel migliore dei casi) o «ai drogati» (nel peggiore). Se così fosse, il paragone sarebbe scoraggiante: in 30 anni la «guerra alla droga» non ha portato da nessuna parte.


Ma anche «guerra ai terroristi» è scivolosa perché accomuna soggetti diversi, con diversi obiettivi, diverse ideologie, solo per il fatto che praticano una comune forma di lotta: così dichiarare «guerra ai guerriglieri», metterebbe insieme i vietcong e i contras antisandinisti, Che Guevara e Savimbi. C’è di più: «terrorista» è già dì per sé una definizione eteronoma: nessuno si darà da solo del terrorista, ma saranno sempre i nemici a definirlo tale. Per i nazisti erano Terroristen i rnaquisards francesi; per la potenza coloniale inglese, terrorista era l’ebreo Menahem Beghin; per i francesi, terroristi erano i militanti del Fronte di liberazione nazionale algerino; per i sovietici, terrorista era l’afghano Ahmad Shah Massud; per gli israeliani, terroristi sono gli Hezbollah. Ma ora per i francesi i Terroristen del 1940-’45 sono eroici partigiani; per l’Algeria postcoloniale i moujahid sono martiri dell’indipendenza; per gli israeliani Beghin è un padre della patria (mentre la comunità internazionale lo ha onorato di un premio Nobel per la pace); Massud è celebrato ora in innumeri saghe e film hollywoodiani come «il leone del Panshir». Se ne deduce che «terrorista» è il termine con cui si indica il nemico durante il conflitto, e il nemico sconfitto dopo il conflitto (negli Usa, nessuno osa chiamare «terroristi» i vietcong solo perché la guerra l’hanno vinta). Il valore euristico del termine è perciò nullo. Terrorista è qualunque nemico ci aggradi definire tale.


Nella «guerra al terrorismo» vi è poi un’ulteriore aporia: il terrorismo è la forma di combattimento adottata da chi non è in grado di combattere una vera guerra. Si dichiara cioè guerra a chi si sottrae alla guerra. Si obietterà che la specificità del «terrorismo» sta appunto nel terrorizzare inermi civili: ma così non è, e lo si vede dai molti stati che, per piegare il nemico, da sempre incutono il massimo terrore possibile tra i civili nemici, dai bombardamenti cli Dresda in cui perirono centinaia di migliaia di tedeschi ai più recenti bombardamenti in Libano in cui sono morti centinaia di bambini e donne: eppure l’espressione «terrorismo di stato» non incontra il favore di politologi e mass-media. No, ci si riferisce sempre e solo al «terrorismo ‘NG’», non a quello statale (in inglese «NG» non vuol dire «Non Governativo», bensì «Non Statale»). Già l’aporia di dichiarare guerra a una forma di lotta adottata da chi non è in grado di combattere una guerra, ci fa capire il vicolo cieco, non solo logico, ma politico, materiale in cui la «guerra al terrorismo» ci avvita. Quanto più le grandi potenze dispiegano la loro superiorità tecnologica, tanto più chi le avversa è ridotto a dedicarsi a quelli che Chalmers Johnson chiama «gli attacchi asimmetrici». In un libro che sta per uscire, Mike Davis definisce le auto-bomba «l’aviazione dei poveri». Il risultato è che «la guerra il terrorismo» genera terroristi, li moltiplica, li nutre. E viene, da chiedersi se quest’esito non fosse stato preso in  considerazione da chi ha coniato il termine.


Rimane un’ultima ipotesi, che si tratti di un mero slogan efficace, plasmabile a tutte le bisogna, ma che, come negli spot in cui si usa una donna discinta per vendere una vettura potente, dica altro. Indichi cioè semplicemente «guerra all’Islam». Si disvelerebbe allora il paralogismo logico di Samuel Huntington secondo cui «la guerra al terrorismo» è in realtà uno «scontro di civiltà», per il semplice fatto che la prima sarebbe solo il nome del secondo. Ma il tragico sta proprio nel nostro subire succubi queste espressioni, accettare che governino le nostre vite, determinino guerre, invasioni, eccidi, in nome di un slogan al meglio, di una soperchieria al peggio.


PS. La ragione continua però ostinata a fare capolino di tanto in tanto. Così la critica al concetto di «guerra al terrorismo» non viene solo da un giornale estremista e considerato anti-israeliano come il manifesto: fa piacere che un celebre miliardario e filantropo come l’ungherese di origine ebraica George Soros su Le Monde datato venerdì scorso attacchi questo concetto come fuorviante e controproducente.


 


sabato 16 giugno 2007

Fiumi di porpora


Era furibondo, giovedì sera a “Primo Piano”, il camerata La Russa, inchiodato dalle immagini dell’infame pestaggio a Genova, in occasione del G8, che scorrevano mentre veniva proposto l’audio della confessione in aula dell’allora comandante del VII nucleo sperimentale della Mobile di Roma, Michelangelo Fournier, 43 anni, oggi sempre dirigente del reparto mobile romano, che a sei anni di distanza ritrovava la memoria. Era furioso anche perché quell’azione terroristica aveva avuto il suo omologo Fini in cabina di regia e il sangue di Genova era stato il biglietto da visita del neogoverno Berlusconi. Ed era talmente fuori di sé, il camerata La Russa, che si chiedeva il motivo dell’allestimento di una trasmissione basata su quale novità poi? Già distratto di suo (aveva accettato l’invito – ammiccava - perché pensava si parlasse di altri incidenti) gli era perciò sfuggito che la notizia fosse stata proposta in prima pagina da una parte dei quotidiani di quel giorno. “la Repubblica” aveva collocato in taglio basso la confessione, il “Corriere della Sera” aveva dato una collocazione centrale (mi pare con foto) e maggior risalto era venuto da “l’Unità” (a centro pagina con foto esplicativa), mentre ovviamente “il manifesto” aveva aperto l’edizione (“Scusate il ritardo” il titolo). Poi c’era anche chi non l’aveva considerata una notizia da prima pagina, come Avvenire (forse per carità cristiana) e i giornalacci di destra e chi non l’aveva proprio data come il Tg1 delle 13:30. Forse anche per questo il camerata La Russa non gradiva tutto quel chiasso e per difendersi non trovava di meglio che cambiare continuamente argomento e attaccare il Tg3. Non tutta la stampa russa, La Russa. Che peccato vero?


GENOVA - "Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza", così Michelangelo Fournier ha confessato oggi in aula a Genova, rispondendo alle domande del pm Francesco Cardona Albini. "Arrivato al primo piano dell'istituto - ha detto - ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana". "Sono rimasto terrorizzato e basito - ha spiegato - quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: 'basta basta' e cacciai via i poliziotti che picchiavano", ha raccontato ancora Fournier. Sollecitato dalle domande del Pm Cardona Albini, ha aggiunto: "Intorno alla ragazza per terra c'erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze". Fournier ha poi raccontato di aver assistito la ragazza ferita fino all'arrivo dei militi con l'aiuto di un'altra manifestante che aveva con sè una cassetta di pronto soccorso. "Ho invitato però la giovane - ha raccontato - a non muovere la ragazza ferita perché per me la ragazza stava morendo".


Queste qui sopra sono un collage, tratto dai quotidiani, della confessione di Michelangelo Fournier, mentre quella che segue è la testimonianza di un padre che aveva avuto il figlio coinvolto nella mattanza. Sì dà il caso che si trattasse anche di un noto giornalista sportivo. La testimonianza, scritta il 24 luglio 2001, apparve su il nuovo.it il giorno seguente.


"Mio figlio, una maschera di sangue" Un padre, famoso giornalista, racconta l'incubo del figlio, raccolto all'uscita del carcere di Pavia, dopo essere stato arrestato e pestato a sangue dai Carabinieri per aver cercato di filmare i cortei di Genova.


di Gian Paolo Ormezzano


Un minuto dopo essere uscito dal carcere di Pavia, liberato da un magistrato genovese che non ha creduto all'atto di accusa stilato in fotocopia per tanti, resistenza e lesione a pubblico ufficiale durante la contestazione al G8, e che non ha neppure convalidato l'arresto, mio figlio ha disobbedito a me ed a sua madre. Gli avevo chiesto di farmi vedere tutte le ferite coperte dagli abiti, mi ha detto di no, dovevo "accontentarmi" dello scempio visibilissimo sul viso, otto punti al sopracciglio, un occhio circondato dal viola dell'ecchimosi e invaso dal sangue, il labbro rotto, e della visione della schiena, piagata dalle manganellate e dai colpi calati col calcio del fucile. Oh, si vedevano anche i segni delle manette che gli erano state strette troppo fortemente ai polsi, ma dire manette è un errore, il termine tecnico è un altro che lui sa e io no, sono specie di ceppi che segnano la carne. I pantaloni scendevano perchè la cintura non c'era più, era stata sfilata di brutto all'ingresso in cella, rompendo tutti i passanti, e si vedeva qualcosa delle mutande piene di sangue. Però lui non ci ha lasciato vedere tutto, non voleva farci del male con quello "spettacolo". Erano le 19 di lunedì. Settantacinque ore prima mio figlio, che ha 26 anni ed è creatura gentile, tenera, prudente sino ad essere paurosetta, massima esplosione di esuberanza fisica il tifo urlato e cantato per il suo e mio Toro, aveva compiuto il grave errore di partire con amici da una località di mare in provincia di Savona per andare a Genova e filmare - lui che studia anche giornalismo televisivo a Torino e mette insieme documentari assortiti - qualcosa del Genoa Social Forum, della contestazione contro il G8. Filmare e basta, cercando immagini di protesta corale e coreografica, filmare accanto a un gruppo di vecchie signore che vendevano magliette-ricordo. Una carica dura delle forze dell'ordine, è la zona dove è stato appena ucciso quel ragazzo, le signore alzano le mani, i suoi amici scappano, lui non può perchè cercando di allontanarsi si inciampa, cade, resta in ginocchio, a mani alzate. Gli piombano addosso, quelli delle forze dell'ordine, e gli spaccano la telecamera e la faccia, gli tatuano la schiena, gli martoriano tutto il corpo. Tanti vedono, nessuno può intervenire. Se lo disputano come ricettacolo di colpi poliziotti e carabinieri: ad un certo punto lui si trova con una mano nella manetta di un agente, l'altra nella manetta di un carabiniere. Implora una scelta, mica possono squartarlo.


Se lo aggiudicano i carabinieri, che lo portano via, gli dicono che un loro commilitone è stato ucciso, in una caserma, questo sarà lo spunto per altri pestaggi, stavolta specialmente con calci. C'è anche il passaggio in un ospedale per una medicazione, fra medici sbalorditi, indignati. Poi - ormai è notte - via su un torpedone verso il carcere di Pavia, la cella di isolamento: la richiesta di poter orinare prima del viaggio viene respinta con un pugno sul viso ferito e invito al fachirismo o al farsela addosso, comunque unica violenza fisica da parte della polizia penitenziaria. Poi la prigione, senza ora d'aria, con poco cibo e l'acqua calda del rubinetto. Passa tutto il sabato, passa tutta la domenica. Tocca agli infermieri del carcere inorridire per le ferite da medicare. Al lunedì mattina la decisione del magistrato, sollecitato da un bravo avvocato che sa smontare le accuse inventate sul verbale in fotocopia, come quella di detenere uno scudo in plastica, vistoso e imbarazzante, ancorché strumento di difesa, non di offesa, ma inesistente, inventato. Fra la decisione del magistrato e la scarcerazione passano sei ore per le cosiddette pratiche burocratiche. Sei ore di vita libera tolte ad un ragazzo pienamente scagionato. Sei ore di attesa per noi nel forno davanti al carcere. E' uscito senza la telecamera ed uno zainetto, spariti. Gli hanno ridato il telefonino, lo aveva in tasca, è stato distrutto dalle manganellate. Ho saputo venerdì nella notte, da una telefonata dei carabinieri, che era in arresto e "stava benissimo". Non mi hanno detto altro. Mi sono


precipitato a Genova, comunque. Era l'alba di sabato, telefonando ai carabinieri ho saputo che ero stato stupido a mettermi in viaggio, chissà dove era mia figlio, Mi hanno detto comunque di un avvocato di ufficio, nome e cognome: ma al telefono c'era soltanto una voce meccanica. Ho trovato aiuti da giornalisti amici, ho trovato un bravo avvocato, la procura di Genova era aperta e collaborativa, ho saputo del trasferimento a Pavia. Ho goduto della posizione di giornalista per rintracciare qualche informazione, molta solidarietà. Ed anche per essere allenato a come avrei visto mio figlio: colleghi esperti mi hanno detto, sì, di prepararmi a vederlo conciato male. Ma nonostante tutto da venerdì notte alla fine della giornata di lunedì ho vissuto una situazione da "Missing", il film americano sulla tragedia del Cile ma anche sull'angoscia che ti prende quando sai poco o nulla di una persona cara portata via, nella mio angosciata particolare esperienza di immaginarti il figlio con le sue ferite, per anestetizzarti all'impatto (non servirà a nulla, sarà comunque una cosa tremenda).


Un bravo magistrato ha interrogato, eseguito riscontri, ascoltato testimonianze, e non ha creduto alle accuse a mio figlio elencate in un verbale che pareva proprio prestampato, eguale per tanti, ha creduto al racconto dolente ed angosciato di un ragazzo nonostante tutto più stupito che indignato, più sereno che dolente. Nella giornata passata fuori dal carcere di Pavia ho parlato con tantissimi parenti e amici di altri di quei provvisori desaparecidos. Ho visto uscire dal carcere altri ragazzi coperti di ferite. Ho potuto anche pensare che a mio figlio è andata bene, non è stato colpito alla pancia, ha avuto un avvocato solerte, ha trovato i suoi genitori fuori dal carcere ad aspettarlo, nei limiti del possibile confortarlo. Una parlamentare che ha visitato il carcere ha parlato a noi in attesa di ragazzi feriti, distrutti, piangenti, brutalizzati direttamente dai colpi presi, indirettamente dalla situazione kafkiana dell'isolamento. Lui mi ha detto che le visite di parlamentari e consiglieri regionali sono state un balsamo comunque, per quel poter parlare serenamente di qualcosa con qualcuno, senza prendere colpi e ricevere insulti (una bella - cioè orribile - antologia, quella delle aggressioni verbali in pratica continue, l'ha messa per iscritto quando in carcere ha avuto una penna e qualche foglio, c'è davvero tutto per umiliare uno che patisce anche le parole).


Ho provato a chiedermi, da democratico assoluto, disperato, se proprio non è possibile ad un cittadino filmare della sua Italia, oltre che i monumenti e i tramonti e le feste di famiglia, anche una manifestazione di protesta senza dover essere brutalizzato, ridotto ad un manichino sanguinolento, sfregiato sul viso per sempre, da forze dell'ordine violente con i deboli e impotenti di fronte ai veri violenti, visibilissimi, colpibilissimi, le tute nere, nella fattispecie di Genova. Cercherò di saperlo per vie legali, confido nella legge. Mio figlio mi ha detto - spero perchè ferito ed umiliato, non perchè definitivamente portato ad una scelta - che rinuncia agli ideali. Ma non ci credo. E comunque ha rifornito di ideali me.


Foto: www.indicius.it

giovedì 14 giugno 2007

Rossi di vergogna


L’attento e fedele lettore meulen mi segnala l’eccellente pezzo di Marco Travaglio, uscito sul sito www.marcotravaglio.it per il motivo che lo stesso giornalista indica nell’articolo. Ringrazio doppiamente meulen, non soltanto per la cortese comunicazione, ma anche perchè si tratta di un ottimo scritto in cui trasuda tutta l’indignazione civile di Travaglio. Considerata la sua rilevanza lo posto in entrambi i miei blog certo di far cosa gradita a molti. Sperando che il faro di Marco Travaglio resti ancora acceso. Se, infatti, gli editori del glorioso giornale dell’altrettanto glorioso Partito Comunista Italiano (un tempo) stanno accanendosi contro il precedente e l’attuale direttore dell’Unità, penso che a maggior ragione possano avere campo libero nei confronti di un collaboratore. Ma qui vorrei tanto sbagliare ed eccedere in pessimismo, per quanto giustificato.


Clementina facci sognare


Oggi l’Unità non sarà in edicola per uno sciopero sacrosanto (gli editori stanno cercando di far fuori il direttore Antonio Padellaro e di rimetter mano al contratto di collaborazione di Furio Colombo). Dunque non uscirà nemmeno la rubrica “Uliwood Party”. Chiedo ospitalità al sito per dire quel che penso delle intercettazioni del caso Unipol.

Se in Italia non esistesse Berlusconi con la fairy band dei Previti e dei Dell’Utri, ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere le dimissioni di Massimo D’Alema da vicepremier, di Piero Fassino da segretario dei Ds e di Nicola Latorre da vicecapogruppo dell’Ulivo al Senato. Quello che emerge dalle loro telefonate con Giovanni Consorte (e, nel caso di Latorre, anche con il preclaro “compagno” Stefano Ricucci) ha un solo nome: conflitto d’interessi, e dei più gravi. Naturalmente tutto il dibattito è falsato dalla presenza in Parlamento di Berlusconi e della fairy band, al cui confronto il gravissimo conflitto d’interessi Ds-Unipol-coop rosse impallidisce. Ma in un paese normale (espressione cara a D’Alema), nel quale dunque Berlusconi & C. fossero già stati sbattuti fuori dalla vita pubblica, i telefonisti rossi se ne dovrebbero andare su due piedi.


Fassino doveva incontrare il banchiere Luigi Abete (chissà perché, poi) e non sapeva cosa dirgli: perciò chiedeva a Consorte di scrivergli i testi. Poi si lamentava perché Chicco Gnutti era andato a una cena elettorale di Berlusconi: credeva che anche lui fosse un “compagno”, solo perché aveva partecipato all’orrenda scalata Telecom insieme a Consorte e Colaninno, e osservava che Gnutti stava puntando sul cavallo sbagliato, il Cavaliere, che prevedibilmente di lì a un anno avrebbe perso le elezioni.

Intanto Latorre amoreggiava con Ricucci, un tipo che Enrico Berlinguer non avrebbe sfiorato nemmeno con una canna da pesca. Ci scherzava, lo trattava da pari a pari, faceva il tifo per lui.


D’Alema, che com’è noto è molto intelligente, avvertiva Consorte delle possibili intercettazioni telefoniche (“attenzione alle comunicazioni”) parlandogli al telefono: una mossa davvero geniale, machiavellica, volpina. Poi lo esortava ad “andare avanti” nella scalata alla banca romana, abbandonandosi a un tifo da stadio (“facci sognare!”). E si occupava personalmente della quota detenuta in Bnl da Vito Bonsignore, pregiudicato per corruzione nonché europarlamentare dell’Udc.

Stiamo parlando dei tre massimi dirigenti de Ds che, due estati fa, negavano spudoratamente di essersi occupati dell’Opa di Unipol alla Bnl, affermando di essersi limitati a rivendicare il buon diritto dell’assicurazione delle coop rosse a partecipare alla contesa bancaria. Latorre negava addirittura di aver passato il suo telefono a D’Alema perché parlasse con Consorte. I cavalli sui quali questi insigni statisti puntavano sono poi finiti tutti sotto inchiesta per gravissimi reati finanziari. Ricucci addirittura in galera e in bancarotta. Consorte e Gnutti hanno condanne non definitive per insider trading.


Se questa non è una gigantesca “questione morale”, come solo Parisi, Di Pietro e pochi altri politici dissero fin dall’estate 2005, non si sa proprio che cosa lo sia. Ma, nelle reazioni del Botteghino alla divulgazione di brani di intercettazioni, non c’è un’ombra di autocritica, di ripensamento, di riflessione. Anzi si sentono e si leggono frasi copiate pari pari dalla propaganda berlusconiana e craxiana: “veleni”, “attacco”, “operazione scandalistica”, fughe di notizie”, “circuito mediatico-giudiziario”. Condite con attacchi vergognosi alla giudice Clementina Forleo, che ha fatto semplicemente il suo dovere, applicando una legge demenziale - la Boato - varata da destra e sinistra amorevolmente a braccetto nell’estate 2003. Se ieri, per tutta la giornata, sono usciti brandelli di intercettazioni, è soltanto perché, con una decisione giuridicamente inedita quanto discutibile, il vertice del Tribunale di Milano ha stabilito che gli avvocati difensori degli 83 indagati del caso Antonveneta potessero soltanto prendere appunti dalle centinaia di pagine di trascrizioni, ma non prelevarne copia. Se, come dovrebbe avvenire in un paese civile, e come infatti avviene in America e in Inghilterra, gli atti giudiziari non più segreti venissero messi integralmente a disposizione delle parti e anche della stampa, si saprebbe tutto subito, e si eviterebbe di costringere i giornalisti a pendere dalle labbra di questo o quell’avvocato, a fidarsi dei loro appunti non certo completi né disinteressati. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso. Ma qui non c’è alcun “attacco”, nessuna “operazione”, nessun “circuito mediatico-giudiziario”. Si chiama, molto più semplicemente, “informazione”. I cittadini da oggi sanno qualcosa in più delle scalate bancarie illegali all’Antonveneta, alla Bnl e alla Rcs avviate dai furbetti del quartierino sotto l’alta protezione dello sgovernatore Fazio, dell’allora premier Berlusconi, dei vertici dei Ds, della Lega Nord e di Forza Italia (ci sono anche i berlusconiani Cicu, Grillo e Comincioli, al telefono con Fiorani). Ed è doveroso che sappiano, visto che su quelle telefonate il Parlamento sarà chiamato molto presto a votare pro o contro l’autorizzazione a usarle nei processi ai furbetti.


Invece il senatore-avvocato Guido Calvi, già difensore di Ricucci e di D’Alema, nonché attuale difensore dell’ottimo Geronzi, dunque in pieno conflitto d’interessi anche lui, dice cose assurde contro i giudici di Milano e contro i giornalisti. Invoca interventi della Procura per “bloccare” le notizie che doverosamente la libera stampa fornisce ai cittadini. E chiede l’immediata approvazione al Senato della legge-bavaglio-Mastella, già varata dalla Camera con maggioranza bulgara: tutti i partiti affratellati, nessuno escluso. I voti del centrodestra all’ennesima porcata non mancheranno: Berlusconi ha già solidarizzato con D’Alema e D’Alema ha già solidarizzato con Berlusconi per la splendida contestazione (uova a parte) subìta da Bellachioma a Sestri Ponente. E la Cdl ha già annunciato con non userà politicamente quelle telefonate, onde evitare che a qualcuno, a sinistra, salti in mente di usare i gravissimi reati della fairy band berlusconiana per rinfacciare finalmente la questione morale alla destra.

Persino Veltroni perde la testa e vaneggia di “crisi del sistema democratico”: ma non per il contagio del conflitto d’interessi che infetta il maggior partito della sinistra, bensì perché è finalmente affiorato alla luce del sole. Come se il problema non fosse ciò che i suoi compagni dicevano al telefono con personaggi ben poco raccomandabili, nel pieno di un’Opa e di una contro-Opa, in spregio alle più elementari regole del libero mercato; ma il fatto che finalmente tutto ciò stia venendo fuori. Hai la faccia sporca? Invece di andarti a lavare, dai la colpa allo specchio che la riflette. E tenti di romperlo, lo specchio, per non vedere mai più la faccia sporca. Che schifo.


Marco Travaglio


12 giugno 2007

lunedì 11 giugno 2007

La campanella stonata


In illo tempore… L’ultimo giorno di scuola veniva vissuto festosamente, con l'impaziente attesa del suono della campanella, con la frenesia che derivava dalle vacanze alle porte e la consapevolezza di un positivo anno scolastico. Una miscela di gioia e rammarico per i compagni che si lasciavano, assieme al sollievo per le interrogazioni che concedevano una lunga tregua (in illo tempore durava tre mesi e mezzo). Era, insomma, una giornata normale, intendo priva di eccessi e stonature. Rastrello dalla montagna incenerita dei ricordi (diari cartacei effettivamente bruciati: una ferita insanabile ed un gesto irresponsabile da neo-maggiorenne) un flash che illuminò la conclusione di un anno scolastico (era il 1969), e che, per singolare coincidenza, rappresentò pure l’incipit del primo quaderno di confidenze. Al termine delle lezioni mi avventai verso il professore di religione per strappare da lui le confessioni agognate sull’esito degli scrutini. Ma il sacerdote, fedele al mantenimento di ogni segreto anche extra moenia, nulla volle rivelarmi. Più che altro si trattava di una mera civetteria. Di essere stato promosso lo sapevo già, ma a pesare erano i voti che componevano poi la famosa media da confermare. Di lì a qualche giorno tutto sarebbe stato disvelato e l’appuntamento fissato all’anno successivo, quello degli esami.


La stupidissima realtà di questi giorni propone invece la decerebrata consuetudine, ormai vigente da alcuni anni, dei lanci di ogni oggetto verso tutto e tutti, di abbigliamenti con pinne e occhiali, non in omaggio ad una delle più celebri canzoni estive, ma per affrontare adeguatamente attrezzati le inevitabili secchiate d’acqua. Poi immancabile c’è YouTube e allora l’idiozia diventa tiranna e sembra contaminare la popolazione scolastica. Un paio di tipi, che hanno piazzato un gadget fra le orecchie, scorazzano con le moto nelle aule di un istituto ragusano fieri della loro inventiva per finire sul web, altri gettano libri dalle finestre (questo spiega il desolante primato negativo nella lettura di tutto ciò che non sia quotidiano sportivo o periodico da sciampiste), oppure attrezzature scolastiche e quant’altro possa capitargli far le mani: barbarica celebrazione di un rituale che certo non esorcizza la deflagrante imbecillità.


Ma una nota di speranza, anche un pessimista reale come me, può lasciarla. In ufficio, nel mio reparto, hanno concluso le loro ultime tre settimane scolastiche, con uno stage aziendale, due ragazzi (Alessandro e Paolo) e due ragazze (Claudia e Simona) che nascevano nell’anno della rivolta di Piazza Tien An Men e della caduta del Muro. Giovanissimi, dunque, ma di una compostezza e di un’educazione da lasciare piacevolmente sorpresi. Due di loro, tra l’altro, inizieranno il prossimo anno di scuola all’estero dove per un mese lavoreranno in aziende che si occupano di comunicazione e pubblicità. Un viaggio-premio per il rendimento tra i banchi. Claudia e Simona, spazzata via l’iniziale e comprensibile timidezza e abrogato il “lei” che avevano logicamente cominciato ad utilizzare, sono apparse tenerissime nel raccontarsi poco alla volta: dai rapporti in famiglia ai gusti musicali, ai romanticissimi rossori se si accennava ai loro amichetti del cuore. Al ruolo dei professori, sovente inadeguato, tanto da far passare la voglia di studiare. Una tentazione, più che altro, essendo le migliori nella loro classe. Alessandro e Paolo sono stati attenti alle spiegazioni, dinamici, volenterosi. Dal primo, in particolare, ho appreso casualmente che aveva l’automobile e che l’aveva usata qualche mattina per venire in ufficio, quando in genere i suoi coetanei non vedono l’ora di renderlo pubblico, magari ostentando la classe A della Mercedes. Germi di speranza, ondate di freschezza.

sabato 9 giugno 2007

Irricevibile!


E’ uno degli intellettuali più seguiti degli Usa e del mondo, innovatore radicale sia della linguistica che dell’impegno sociale. Noam Chomsky si legge con piacere e appagamento dell’animo per la lucidità e incisività delle sue posizioni. In omaggio alla visita coloniale dell’amerikano riporto questo intervento pubblicato da “il manifesto” il 30 maggio 2007. Bush è una persona ignobile, coloro che fiancheggiano la sua delirante dottrina sono ignobili e il no, fermo e irremovibile di fronte alla militarizzazione del territorio italiano, il Dal Molin a Vicenza per esempio, è espresso con convinzione, assieme all’auspicio che sia vicino il giorno in cui l’America democratica riuscirà ad imporsi su questa di oggi guerrafondaia e cialtrona. Peggio non potrà essere.


Lo Scudo in Europa è una mossa di guerra


Noam Chomsky


il manifesto (30 maggio 2007)


L’installazione di un sistema di difesa missilistica in Europa orientale è praticamente una dichiarazione cli guerra. Provate a immaginare come reagirebbe l’America se la Russia, la Cina, l’Iran o qualunque potenza straniera osasse anche solo pensare di collocare un sistema di difesa missilistica sui confini degli Stati uniti o nelle loro vicinanze, o addirittura portasse avanti questo piano. In tali inimmaginabili circostanze, una violenta reazione americana sarebbe non solo quasi certa, ma anche comprensibile, per ragioni semplici e chiare. E’ universalmente noto che la difesa missilistica è un’arma di primo colpo. Autorevoli analisti militari americani la descrivono così: «Non solo uno scudo, ma un’abilitazione all’azione». Essa «faciliterà un’applicazione più efficace della potenza militare degli Stati uniti all’estero». «Isolando il paese dalle rappresaglie, la difesa missilistica garantirà la capacità e la disponibilità degli Stati uniti a “modellare” l’ambiente in altre parti del mondo». La difesa missilistica non serve a proteggere l’America. E’ uno strumento per il dominio globale». «La difesa missilistica serve a conservare la capacità americana cli esercitare il potere all’estero. Non riguarda la difesa; è un’arma di offesa ed è per questo che ne abbiamo bisogno». Tutte queste citazioni vengono da autorevoli fonti liberali appartenenti alla tendenza dominante, che vorrebbero sviluppare il sistema e collocarlo agli estremi limiti del dominio globale degli Stati uniti. La logica è semplice e facile da capire: un sistema di difesa missilistica funzionante informa i potenziali obiettivi che «vi attaccheremo se ci va e voi non sarete in grado di rispondere, quindi non potrete impedircelo». Stanno vendendo il sistema agli europei come una difesa contro i missili iraniani. Se anche l’Iran avesse armi nucleari e missili a lunga gittata, le probabilità che le usi per attaccare l’Europa sono inferiori a quelle che l’Europa venga colpita da un asteroide. Se dunque si trattasse davvero di difesa, la Repubblica Ceca dovrebbe installare un sistema per difendersi dagli asteroidi. Se l’Iran desse anche il minimo segno di voler fare una simile mossa, il paese verrebbe vaporizzato. Il sistema è davvero puntato contro l’Iran, ma come arma di primo colpo. Fa parte delle crescenti minacce americane di attaccare l’Iran, minacce che costituiscono di per sé una grave violazione della Carta delle Nazioni unite, sebbene questo tema non emerga. Quando Mikhail Gorbaciov permise alla Germania unita di far parte di un’alleanza militare ostile, accettò una grave minaccia alla sicurezza della Russia, per ragioni troppo note per rivederle ora. In cambio il governo degli Stati uniti si impegnò a non allargare la Nato a est. Questo impegno è stato violato qualche anno più tardi, suscitando pochi commenti in Occidente, ma aumentando il pericolo di uno scontro militare. La cosiddetta difesa missilistica aumenta il rischio che scoppi una guerra. La «difesa» consiste nell’aumentare le minacce di aggressione in Medio Oriente, con conseguenze incalcolabili, e il pericolo di una guerra nucleare definitiva. Oltre mezzo secolo fa, Bertrand Russel e Alfred Einstein lanciarono un appello ai popoli del mondo perché affrontassero il fatto che ci troviamo di fronte a una scelta «netta, terribile e inevitabile: Dobbiamo porre fine alla razza umana, o l’umanità è disposta a rinunciare alla guerra?». Accettare il cosiddetto «sistema di difesa missilistica» colloca la scelta a favore della fine della razza umana in un futuro non troppo distante.

venerdì 8 giugno 2007

Yankee, go home!


Sta per arrivare. E’ dietro la porta e venerdì 8 giugno verrà accolto con tutti gli onori. L’uomo-canaglia per antonomasia fa visita ad una delle sue colonie e si laverà la coscienza visitando la Comunità di Sant’Egidio. L’amerikano George W. Bush sconvolgerà la vita dei romani giungendo in una città blindata (scuole chiuse addirittura). Di lui non si avvertiva la necessità. Ho così pensato di salutarlo a modo mio con questo articolo di Danilo Zolo che, seppur scritto tre anni e mezzo fa, non ha perduto la freschezza dell’attualità. I morti Usa hanno superato quota 3500, il cow boy si è incapricciato dello scudo spaziale, tanto per rendere più distensivo il clima. Quest’uomo sarà in mezzo a noi. Una pernacchia virtuale non gliela leva nessuno, accompagnata dal cordiale invito del titolo.  


USA-IRAQ

Processare il nemico


DANILO ZOLO


il manifesto (24 dicembre 2003)  


Il significato profondo dei Tribunali militari di Norimberga e di Tokyo, istituiti dalle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale contro i criminali di guerra tedeschi e giapponesi, non fu quello di «fare giustizia». Fare giustizia significa tentare di interrompere la sequenza politica della divisione, dell’odio e dello spargimento del sangue per decostruire il conflitto e tentare di esorcizzarlo attraverso l’uso di mezzi giudiziari. La giustizia, in questo senso, si oppone alla faziosità della politica perché è la ricerca di uno spazio dì imparzialità, è il ricorso a principi giuridici capaci di dirimere e neutralizzare il conflitto. Se la metafora della politica è la spada, quella della giustizia è la bilancia. Per questo c’è chi ritiene che l’istituzione di tribunali speciali a conclusione di una guerra - internazionale o civile- può essere il primo passo verso la pace, non diversamente dalla amnistia, classico strumento di pacificazione della memoria collettiva e di inibizione della vendetta generalizzata.


I processi internazionali di Norimberga e di Tokyo - è stato il massimo giurista del secolo scorso a sostenerlo, Hans Kelsen - hanno stravolto l’idea di giustizia, annullandone ogni distinzione rispetto alla politica e alla guerra. Sono stati una resa dei conti, il regolamento delle pendenze, la vendetta dei vincitori sui vinti. E’ stata una parodia giudiziaria con una letale valenza simbolica. Essere sconfitti e uccisi in guerra è cosa normale e persino onorevole. Ma essere giustiziati dopo essere stati sottoposti alla giurisdizione del nemico è una sconfitta irreparabile, è la degradazione estrema della propria dignità e identità. Hedley Bull, Bert Röling e Hannah Arendt hanno condiviso questo rifiuto della «giustizia politica» e della sua manichea contrapposizione della moralità dei vincitori alla malvagità degli sconfitti.


Oggi gli Stati uniti, potenza occupante dei territori dello stato iracheno, stanno allestendo un processo contro Saddam Hussein, che nel frattempo tengono prigioniero, esibiscono come una vittima sacrificale e sottopongono a pesantissimi interrogatori, in flagrante violazione di una serie di Convenzioni internazionali, a cominciare da quelle di Ginevra del 1949. Di più, per bocca del loro presidente Bush, fervido sostenitore della pena di morte, raccomandano l’applicazione della «pena estrema» contro il dittatore. Ritorna dunque lo spettro di Norimberga - al quale non pochi osservatori occidentali si richiamano come a un modello da imitare - e ritorna la logica della stigmatizzazione, della vendetta e del sopruso. In questo caso il sopruso è di proporzioni conclamate.


Gli Stati uniti, con la complicità della Gran Bretagna e di altri paesi occidentali, inclusa l’Italia, occupano militarmente l’Iraq in palese violazione della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale generale. Alla luce del diritto gli occupanti meriterebbero sanzioni severissime e tuttavia accade esattamente il contrario. Sono gli aggressori a erigersi a giudici degli aggrediti in nome di valori universali - la libertà. la democrazia, il rispetto della vita - che essi hanno sistematicamente calpestato. E si richiamano al diritto nonostante il loro rifiuto di sottomettersi alla giurisdizione della Corte penale internazionale che è stata istituita proprio a difesa di questi valori


Per opera de! «proconsole» Paul Bremer e con la complicità dell’Iraqi Governing CounciL da essi istituito, gli Stati uniti hanno frettolosamente addestrato un certo numero di giudici iracheni che dovrebbero dar vita ad un Tribunale speciale, composto di cinque membri, incaricato di giudicare Saddam Hussein e altri esponenti del suo regime. Si tratta di una procedura illegale per una lunga serie di ragioni perché gli Stati uniti detengono illegalmente Saddam Hussein, perché il Governing Council è privo di ogni legittimità politica, sia internazionale che interna, perché l’istituzione di un tribunale speciale per volontà delle forze occupanti è illegale, perché il tribunale non offrirebbe le minime garanzie di autonomia nei confronti della potenza occupante e di imparzialità verso l’accusato, e infine perché, rebus sic stantibus, mancano le norme di diritto positivo iracheno sulla base delle quali giudicare i crimini dell’ex-dittatore. L’anomia giuridica e il vuoto di potere legittimo provocati dalla guerra sono tali che il processo finirebbe in una teatralizzazione propagandistica con il solo scopo di coprire i misfatti dei vincitori, di disumanizzare l’immagine del nemico e di legittimare nei suoi confronti, in quanto nemico dell’umanità, comportamenti ostili sino all’estrema disumanità.


Un’esigenza minima di legalità internazionale esigerebbe l’immediata consegna di Saddam Hussein a una autorità internazionale neutrale, sotto l’egida delle Nazioni unite, e la sua custodia in condizioni di dignitosa detenzione preventiva. Al momento opportuno potrebbe essere decisa la sua consegna alle autorità irachene che la richiedano, a condizione che queste autorità siano del tutto emancipate dalla occupazione straniera e siano democraticamente sostenute dalla maggioranza della popolazione. E a condizione che, nel caso che l’ex dittatore venga sottoposto a processo, sia esclusa la sanzione capitale, una sanzione che i tre Tribunali internazionali penali oggi operanti hanno abolito. L’assassinio rituale di Saddam Hussein offrirebbe un contributo non alla pacificazione dell’Iraq ma alla causa dell’odio e del terrore.

mercoledì 6 giugno 2007

I cattivi maestri


Considero Curzio Maltese uno dei migliori commentatori sulla piazza. La rubrica che tiene su “Il Venerdì “di Repubblica offre sempre prospettive interessanti su argomenti che contrassegnano l’attualità. Non necessariamente in linea con l’omologazione di massa. Di lui “invidio” la capacità di saper esprimere sensazioni e malesseri comuni molto meglio di come potrei fare io, ma questa “invidia” buona è ormai congeniale perchè non riesco proprio a sottrarmi al fascino della capacità di scrittura e ne resto sempre ammaliato. Vale per i bravi giornalisti (ce ne sono ancora) come per alcuni bloggers capaci ogni volta di regalare emozioni nuove.


Contromano


di CURZIO MALTESE


La legalità insegnata a tutti (gli altri)


IL VENERDI (25 maggio 2007)


L’idea che la legalità serva soprattutto a tutelare i più deboli, come dice ora anche Piero Fassino, non è una delle più recenti scoperte della storia dell’umanità. In fondo, sono passati venticinque secoli da quando Socrate ha illustrato per primo il concetto. Ma per la politica e il costume nazionali si tratta senza dubbio di una conquista recente, almeno sul piano filosofico. Ora bisogna metterla in pratica. Due sono le strade. La prima, la più ovvia, è di considerare la legalità un valore riservato agli stranieri. È grazie a loro, infatti, che l’Italia sta riscoprendo l’importanza di rispettare le leggi. Si tratta insomma di convincere gli immigrati a diventare rispettosi e ligi alle regole dell’ordine, dotati di un alto senso civico, capaci di indignarsi di fronte all’ingiustizia o alle scorciatoie furbastre, insomma di trasformarsi in quel modello di cittadino cui larga parte dei locali, noi italiani, guarda con un misto di disprezzo e irrisione. Si può procedere con le buone o con le cattive. Ma vista l’impossibilità della società italiana di applicare qualsiasi forma di «tolleranza zero», a parte forse il divieto di fumare nei locali pubblici, è realistico pensare più che altro a un’azione culturale. A cominciare, s’intende, dalla scuola. Si potrebbero così organizzare corsi di educazione civica limitati ai figli d’immigrati per istruirli al rispetto della Costituzione e dei codici penali e civili. Mentre i ragazzini italiani nelle aule accanto, che potremmo chiamare «classi della libertà», potranno serenamente continuare a giocare con il telefonino e a picchiare a sangue i più piccoli e deboli. Naturalmente, bisogna pensare anche agli adulti. Sulle coste meridionali sarebbe bene istituire task force della legalità, utilizzando per esempio i molti magistrati ricusati, o trasferiti, o messi comunque in condizioni di non svolgere il proprio lavoro, in modo da chiarire subito agli immigrati appena sbarcati il quadro legislativo del nostro Paese. Un aiuto senz’altro prezioso per potersi inserire poi al meglio nella realtà sociale della Locride o di Palermo o Brindisi. Una battaglia culturale di queste dimensione non può prescindere dai media. Un’ipotesi da valutare è la creazione di canali televisivi destinati agli stranieri per propagandare i valori etici e civili. Senza impedire che il servizio pubblico continui a celebrare ogni sera il successo sociale di ladri e assassini, delinquenti politici e bancarottieri, mafiosi e collusi. Insomma, è fondamentale non fargli capire dove sono capitati. L’altra strada è far rispettare la legge, uguale per tutti, italiani e stranieri. Ma qui sorge un problema di conflitto d’interessi.


Nota a margine. La vera distinzione da fare è tra persone che commettono reati e persone che li subiscono. Le prime vanno perseguite, giudicate e condannate, le seconde tutelate e risarcite. Altre differenziazioni sono pretestuose, motivo solo di chiacchiere da bar e sostanzioso contributo all’incapacità di capire. Gioca pesantemente sporco anche buona parte dell’informazione, visto che quando a commettere un’illegalità è un italiano non si precisa certo la nazionalità, mentre quando il delinquente è straniero si sottolinea questo dato. Una volta si ripeteva che la notizia vera non è il cane che morde l’uomo, ma viceversa. Oggi la vera notizia potrebbe essere, per esempio: “Coppia di coniugi padani massacra la famiglia di un tunisino”. Certo non arroventerebbe l’atmosfera, ma rispetterebbe la verità dei fatti. Vi pare poco?  


 


 

domenica 3 giugno 2007

L'amico ritrovato


Era già da tempo che manifestava segnali di squilibrio, negli ultimi mesi, poi, il suo atteggiamento era diventato insopportabile e la mia insofferenza cresceva. Ogni giorno (o quasi) mi chiedevo il motivo dell’accanimento nei suoi confronti. Sembrava quasi che volessi indurlo a più miti pretese, talvolta lo scongiuravo perché non poteva piantarmi in asso proprio in quel momento e che, in fondo, il guaio più grosso lo aveva già combinato lasciandomi sconcertato. Certo ero riuscito a recuperare, almeno parzialmente, però evitavo di aprire, pur accorgendomi che mancava la fluidità e, in fondo, anche la tranquillità. Ogni sessione trascinava con sé apprensione, fatte le dovute proporzioni è chiaro, ma almeno mantenere intatta la piccola oasi che cercavo di preservare non era poi una pretesa esagerata e fuori dalle regole. Ma ormai non era più il tempo delle congetture, delle ipotesi, perfino del dialogo (figuriamoci, lui che lo detesta), bisognava agire, in modo drastico e senza più tentennamenti. Di rovinarsi ancora le giornate, avvilendomi per i flop ed esasperandomi senza alcun beneficio non era proprio più il caso. Ma, una volta uscito, sarebbe poi tornato? E dopo quanto tempo lo avrei rivisto? E poi tutte le confidenze che aveva raccolto… Tremavo al solo pensiero che se le lasciasse svanire. Però ormai non potevo più aspettare ed era necessario cogliere l’attimo. Così, nonostante due giornate positive e consecutive (un record viste le magre più recenti) fissare un appuntamento e avere una data certa è stata la soluzione migliore. Anzi: la Soluzione. Lui, l’altro insomma, si era offerto con piacere ed entusiasmo e se agiva così evidentemente poteva permetterselo. Tra il tempo di pensare e quello di agire è intercorso un amen e dieci giorni fa è accaduto che… Abbia consegnato nelle esperte mani di un collega il mio computer. Era giovedì mattina e pensavo, già sperando, di poterlo riportare a casa per il fine settimana.


Qui si racconta una storia, piccola, di uomini e di macchine e di come i primi siano ancora i più forti, ma anche amici, una patente che ci tengo moltissimo ad attribuire essendo una virtù od una qualità rare di questi tempi.


Esposto il caso, con dovizia di particolari, ho lasciato i due a confronto e mi sono ritirato nella mia stanza, in attesa del primo verdetto. Speravo che non fosse necessario smontarlo, semmai una ripulitura disinfestando i virus che non mancano mai e poi il ritorno a casa, in giornata. Puro delirio per chi si definisce “pessimista reale”.


A metà mattinata andavo a raccogliere le prime informazioni che non erano proprio incoraggianti. Sì, va bene i virus che più scansioni provvedevano ad eliminare, va bene (si fa per dire) un disco fisso tendente all’obesità, però c’era dell’altro e allora mettere a nudo il suo contenuto diventava inevitabile. Il primo passo per valutare e diagnosticare. Ventolina che girava lentamente: sostituita. Grasso in altre parti, pulizia della polvere, ma ronzii allarmanti. E quel mouse che si bloccava, poi uno, due, dieci reset (come facevo a casa ormai in balia dell’apparato). Nel pomeriggio andrà meglio, consegna a domicilio prima di cena. Neppure telefonavo per timore di una risposta negativa. Infatti nessuna consegna e il desiderio di essere subito in ufficio il giorno dopo. Lui, l’augusto paziente, era ormai ridotto alla stregua di un ferrovecchio e il monitor mi accoglieva con un’incoraggiante schermata blu: il fine settimana si stava approssimando con nubi scure all’orizzonte. La conferma al congedo. Il monitor era trasmutato: da blu in nero. Il pc neppure si accendeva più. Buio oltre il computer. Le ipotesi che s’inseguivano erano inquietanti: bios, una flash corrotta, la scheda madre. Bye bye, arrivederci a lunedì. Già, ma cosa avrei trovato?


Un fine settimana tirato proprio via, vissuto nell’incertezza. Va bene che si trattava di una macchina, ma aveva solo tre anni il pc e non è certo questo il momento più adatto per pensare ad un acquisto. La fortuna è cieca si ripete, aggiungendo poi che la vista di un’aquila è appannaggio della sfiga, Nulla di nuovo sotto il sole, però quando capita a te non è certo consolante. Non lo è mai.


Il dì di festa dunque termina e l’approccio alla nuova settimana lavorativa (a proposito: tra quattro mesi scade la Cigs e il futuro è nelle mani solo degli dei, perchè qui gli uomini sono deficitari e irresponsabili e il termine “mobilità” non sembra più campato per aria) è comprensibilmente salutato con piacere, ma anche avvolto da mille interrogativi.


Lo vedo subito che nell’”ambulatorio” è già presente il collega, ma noto anche che il paziente è cambiato. Forse vuol dire che… Resto, invece ,senza parole. Il mio pc è ormai fuori uso. Le hanno provate tutte, coinvolgendo anche colleghi di un altro reparto, “ma l’anomalia che riguardava un componente della scheda madre, forse già uscito di fabbrica fallato, era irreparabile e così ti dò il mio, tanto ormai non ho più tempo per accenderlo”. Il suo computer, con caratteristiche analoghe al mio, passava di mano, me lo cedeva dopo aver speso tre giorni per venire a capo di una situazione che temeva così grave.


Di fronte ad un atto di generosità, non dovuto per altro nella fattispecie, si resta inebetiti e in grado di non pronunciare parole se non quelle di circostanza. Mi rassicurava, invece, sul fatto che non dovevo sentirmi in debito e che, soprattutto, dovevo accettare, anche perché lo stava già predisponendo. Al vecchio disco fisso, quello che custodiva tutti i dati, ne aveva aggiunto un altro su cui aveva reinstallato il sistema operativo dopo aver trasferito ogni files. Nient’altro aveva toccato. Sarebbe spettato a me, per esempio, importare la posta, perché lui per la massima discrezione non aveva voluto neppure provare quella che è un’operazione non difficile anche per i profani, delicata sì, ma che avviene in automatico. Il restyling si concludeva nella mattinata successiva e così riportavo a casa un pc, in pratica rinnovato e integro nei documenti, potenziato, che a me, però, sembrava leggero, mentre recuperavo la serenità perduta e quel carico di  ferro  non si avvertiva.


Un paio di considerazioni che questa piccola vicenda suggerisce. Si può ancora vivere senza computer? Sì, cercando di pensarci il meno possibile, per esempio e confidando che in seguito ce l’avrai. Eppure basta poco, un accenno, un dato, un indirizzo e subito si scopre quanto sia fragile questo compromesso. Di Internet si parla ad ogni pie’ sospinto, un indirizzo e-mail non si nega mai a nessuno, i riferimenti al mondo virtuale sono presenti anche nelle letture o nei discorsi più innocui. E poi il pensiero. La mente vagava nella blogosfera alla ricerca di ipotetici approdi. Mi scorrevano i nomi delle persone: vere, reali, simil virtuali, virtuali. Consideravo anche che, per alcuni rapporti, la posta elettronica rappresenta l’unico collegamento possibile, senza la mia rubrica virtuale non potrei comunicare con parecchi, figuriamoci approdare nei blog. E allora la risposta va un po’ corretta: si può vivere senza a patto di considerare il pc soltanto una macchina da scrivere più sofisticata, ma è questo un uso talmente riduttivo e ormai perfino improponibile. Ecco perché qualche giorno senza produce allarme e il timore di perdere dati importanti (soprattutto se non si fa un backup periodico) genera una vera e propria angoscia.


La seconda annotazione riguarda il senso e il valore dell’amicizia. Ora trovare una persona che dedichi tre giorni al pc, senza nulla pretendere in cambio, continuando anche a seguire la propria attività e che, non contenta di ciò, perché ormai era una sfida tra uomo e macchina, ceda il proprio strumento quasi a titolo di risarcimento è una bella dimostrazione di quanto profonda sia l’attenzione verso le esigenze altrui, di come si possa dimostrare all’atto pratico la stima che si nutre e quanto mi faccia bene e conforti un atteggiamento del genere, proprio mentre la fiducia verso gli altri (le persone della vita reale) accusa molti colpi a salve, se non proprio a vuoto.


E adesso alla ricerca del tempo perduto nella blogosfera, alla ricerca della posta smarrita, perché in fondo da lì ero partito.