domenica 14 agosto 2011

L'infame manovra










STUPIDARIO



Quando dicevano: la crisi non c'è



di Alessandro Capriccioli



'Il peggio è passato, i problemi sono alle spalle, anzi siamo già in ripresa, non credete ai giornali pessimisti". Per due anni Berlusconi e Tremonti hanno ripetuto ovunque questa litania: leggere per credere. Chissà se ora si vergognano un po'.

(13 luglio 2011)



«E' dannoso per l'interesse di tutti noi che ci siano dei media che continuino a rappresentare la crisi come qualcosa di definitivo e di tragico». (Silvio Berlusconi, 5 marzo 2009)



«Sicuramente è finita la paura dell'apocalisse. E' rallentata la caduta, dall'autunno in poi, del traffico e del commercio che è la nostra ricchezza. Guardiamo al futuro con qualche speranza». (Giulio Tremonti, 19 aprile 2009)



«Il rischio di un crollo, del peggio, è abbastanza alle nostre spalle. Su questo abbiamo una visione comune con gli imprenditori.» (Giulio Tremonti, 29 aprile 2009)



«Il momento peggiore è passato e d'ora in poi ci saranno miglioramenti. C'è stato un diluvio universale, ma ora siamo qui e stiamo meglio di prima. Il governo ha fatto bene a diffondere fiducia. Non abbiamo peccato di ottimismo perché questa crisi, è stato dimostrato, ha grande origine nel fattore psicologico». (Silvio Berlusconi, 17 maggio 2009)



«La caduta sta finendo e l'Italia è messa meglio di altri. Una volta l'Italia faceva notizia perché erano dati negativi ma oggi la notizia è che l'Italia non fa più notizia, anzi alcune cose le iniziano a riconoscere». (
Giulio Tremonti, 4 giugno 2009)



«Ciò che doveva accadere per banche e mercati è già accaduto. Chi doveva fallire ha fallito e tutti quelli che facevano speculazione non ci sono più. Oggi non ci sembra che ci siano altre situazioni che dobbiamo temere». (Silvio Berlusconi, 4 luglio 2009)



«Siamo in un momento difficile per la crisi del mondo: io sostengo che il peggio è passato». (
Silvio Berlusconi, 6 luglio 2009)



«Il peggio è passato, siamo in fase di conclusione». (Silvio Berlusconi, 8 settembre 2009)



«La crisi sta passando». (
Giulio Tremonti, 28 settembre 2009)



«Il peggio della crisi sembra che sia alle nostre spalle e che sia iniziata, sia pure lentamente, la ripresa». (Silvio Berlusconi, 29 ottobre 2009)



«Il peggio è ormai alle spalle. Non possiamo lamentarci. Non va malissimo. Ci sono forti segnali di ripresa, basta vedere i dati dell'Ocse. Stiamo procedendo bene nonostante il momento non sia certamente uno dei migliori». (Silvio Berlusconi, 7 novembre 2009)



«Riteniamo che il peggio sia passato e che ci sia la ripresa». (Silvio Berlusconi, 5 dicembre 2009)



«In Europa ci sono Paesi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l'Irlanda che sono in situazioni abbastanza preoccupanti, mentre noi ce la stiamo cavando meglio di tutti gli altri». (Silvio Berlusconi, 6 febbraio 2010)



«Dopo essere usciti da una forte crisi, stiamo iniziando la risalita, non è veloce, non ha forti numeri ma è certamente risalita». (Silvio Berlusconi, 11 marzo 2010)



«Grazie alla limitata esposizione alla bufera sui mercati finanziari internazionali e al collasso del settore immobiliare, gli effetti peggiori della crisi sono stati solo temporanei in Italia». (
Giulio Tremonti, 25 aprile 2010)



«L'Italia sta meglio di altri Paesi ed è vaccinata da eventuali contagi». (Giulio Tremonti, 6 maggio 2010)



«La crisi è alle spalle. E noi ne stiamo uscendo meglio di altri paesi europei». (Silvio Berlusconi, 29 giugno 2010)



«La crisi si sta concludendo, ci sono segnali di ripresa. Il peggio è passato, siamo in fase di conclusione della crisi. Lo hanno detto Obama, Bernanke, il Fondo monetario, la commissione europea: ci sono segnali, germogli di ripresa, ora bisogna mettere da parte coloro che inneggiano al catastrofismo». (Silvio Berlusconi, 8 settembre 2010)



«L'Italia aveva bisogno di rigore e credibilità. Lo abbiamo fatto tenendo in ordine i conti pubblici e nello stesso tempo salvaguardando i redditi delle famiglie e dei lavoratori colpiti dalla crisi. E' stata la scelta giusta. Ha consentito di superare la crisi e di non farci trovare nelle condizioni in cui si sono trovati altri Paesi europei alle prese con deficit pubblici giudicati non sostenibili dai mercati finanziari e quindi esposti ad attacchi speculativi». (
Silvio Berlusconi, 29 settembre 2010)



«Abbiamo realizzato una vera e propria missione impossibile: abbiamo affrontato la crisi senza mettere mai, dico mai, le mani nelle tasche degli italiani». (Silvio Berlusconi, 10 maggio 2011)









 



 


CRISI: L'ECONOMIA ILLEGALE AFFAMA L'ITALIA


di Nunzia Penelope -



Il Governo ha attuato una gestione surreale della crisi e ha ormai perso ogni credibilità. La patrimoniale e la tassazione sulle rendite sarebbero misure apprezzabili, ma il problema principale del nostro Paese è l'evasione, che ruba ogni anno 120 miliardi di euro







Trattative febbrili tra Governo e parti sociali per definire un pacchetto di misure necessarie a fronteggiare la crisi. Incontri riservati, iniziati a seguito dell'attacco speculativo che nei giorni scorsi ha colpito i mercati finanziari, e delle richieste giunte all'Italia dai partner europei e dalla Bce.



La cattiva gestione della crisi non rischia di delegittimare l'operato dell'esecutivo non solo in Italia ma anche all'estero?



"Il governo credo che abbia perso da tempo il rapporto con la realtà, ammesso che l'abbia mai avuto. La gestione della crisi è abbastanza surreale perché rispetto anche agli ultimi due anni in cui appunto Berlusconi ha detto che l'economia andava molto bene, che non c'era nessun problema, c'è stato un cambiamento repentino, non di poche ore ma di pochi minuti, nel senso che il giorno prima il premier in Parlamento diceva "tutto bene" e il giorno dopo si è ritrovato commissariato dalla Bce e da Draghi, credo che sia rassicurante alla fine l'idea che ci sia qualcun altro più serio che ci sta governando."



Tra le misure ci sono interventi sulle pensioni. Non si rischia di scaricare sui più deboli il costo della crisi?



"Sulla carta sarebbe un colpo al cerchio e uno alla botte, perché indubbiamente se metti la patrimoniale e la tassazione delle rendite, normalmente non fai pagare i più deboli, fai pagare i più ricchi, tant'è vero che la patrimoniale è una delle proposte che la C.G.I.L. sta facendo da molto tempo, sostenuta adesso anche dalla Lega. Il problema è che credo ci siano dei veti contrapposti per cui alla fine uno dice: la patrimoniale sì, le pensioni no, l'altro dice le pensioni sì, la patrimoniale no, non so, vedremo come va a finire, però direi che la patrimoniale e la tassazione delle rendite sia una cosa sana e giusta"



Non sarebbe più utile colpire l'economia illegale?



"I redditi da lavoro dipendente vengono sicuramente toccati sempre, perché com'è noto il lavoro dipendente è l'unico che paga le tasse sempre. Non vorrei ripetermi perché è una cosa che invece ripeto spesso, ma il problema principale in questo Paese è che abbiamo 120 miliardi di evasione fiscale l'anno e io non mi stancherò mai di dire che forse prima di mettere le mani nelle famose tasche degli italiani, si potrebbero mettere in quelle dei ladri, ovvero degli evasori. Però mi stupisce che in tutte le misure che il governo annuncia di voler prendere o che prende, non ci sia mai nulla di veramente incisivo contro l'evasione fiscale e non intendo le solite chiacchiere. Penso che in questo Paese bisognerebbe cominciare a fare delle leggi speciali contro l'evasione fiscale perché è quello il problema maggiore. Se non ci fossero 120 miliardi di evasione ogni anno, noi non avremmo tutti questi problemi economici, quindi penso che quella dovrebbe essere la prima cosa da fare."



I politici chiedono ai cittadini di fare sacrifici, ma forse è il caso che inizino a farne...



"Sarò molto impopolare in questo. Io penso che i tagli ai costi della politica siano sicuramente una cosa da fare perché la politica ha raggiunto livelli di sprechi molto evidenti e fastidiosi, però vorrei anche ricordare che i costi della politica quantificati ufficialmente da "Il Sole 24 Ore" poche settimane fa, ammontano a 23 miliardi l'anno tutto compreso, dalla gestione del Quirinale all'ultimo assessorato di provincia, all'ultimo Consiglio di Amministrazione di società pubbliche. I costi dell'illegalità sono 15 volte di più, quindi io non vorrei che parlare esclusivamente dei costi della politica, fosse un modo per distogliere l'attenzione da quelli che poi sono i veri furti che avvengono in questo paese e che sono quelli di un sistema economico abbondantemente illegale. Quindi sono in controtendenza perché tutti dicono "tagliamo le auto blu", oppure "tagliamo le province". Ma si risparmiano 100 milioni tagliando le province, combattendo l'evasione fiscale si risparmiano 120 miliardi. Però non sento nessuno dire "combattiamo l'evasione fiscale", forse è un dato ormai acquisito, forse ci siamo ormai rassegnati, non so..."

(10 Agosto 2011)



 






 





 



 






C'È UNA NUOVA SUPERPOTENZA



di Marco d'Eramo





È nata una nuova superpotenza. Non è la Cina. Non è neanche uno stato sovrano. Non ha eserciti, eppure ci ha appena dimostrato che è capace di piegare anche la nazione che possiede il più devastante arsenale nucleare. Questa nuova superpotenza è un'agenzia di rating, cioè una ditta privata che valuta il livello di rischio rappresentato dall'investire in un'azione, in una valuta, in un'obbligazione. Più basso il voto (il rating), più alto il rischio e quindi più alta deve essere la remunerazione (il rendimento dei Btp per esempio).

Sapevamo già che il posto di lavoro di un insegnante greco, la pensione di un'infermiera spagnola o il ticket sanitario degli italiani dipendeva dai giudizi di queste agenzie, Moody's o Standard & Poor's (S&P's). Ma dubitavamo che potessero soggiogare anche gli orgogliosi Stati uniti, anche la «nuova Roma». E invece ci sbagliavamo.



Quando venerdì sera S&P's ha declassato il debito statunitense dalla tripla A (AAA) a AA+, un'era si è conclusa. Fino a pochissimi anni fa le agenzie di rating erano considerate, a ragione, il braccio armato del Tesoro statunitense nell'arena dell'economia mondiale. Come tali agirono per esempio durante la crisi messicana (1994), prima e durante quella asiatica (1997). Più di recente assecondarono la politica Usa di lasciare briglia sciolta alla bolla immobiliare Usa, dando voti altissimi non solo ai pacchetti finanziari in cui erano confezionati i mutui subprime, ma anche alla banca Lehman Brothers fino a poco prima che fallisse clamorosamente nel settembre 2008, innescando così la grande crisi.

Ma proprio la crisi del 2008 ha liberato le agenzie di rating dalla propria servitù nei confronti del governo Usa, perché ha dimostrato che se rischiano la bancarotta, possono sempre ricorrere ai prestiti federali, possono cioè sempre attingere gratis al denaro dei contribuenti, senza che lo stato sia in grado di chiedere in cambio nulla, neanche che le attività speculative siano regolate almeno un po'. La crisi ha cioè dimostrato che le grandi istituzioni finanziarie sono più forti di Washington; ha esposto alla luce del sole la debolezza della sfera politica nei confronti del capitale. E ora le agenzie di rating dettano legge all'intero mondo occidentale.

Perché le agenzie danno i voti al capitalismo di cui sono parte, e che dovrebbero giudicare in modo «imparziale». Moody's e S&P's sono proprietà di grandi fondi d'investimento: il primo azionista di Moody's, con il 17% delle azioni, è il fondo Berkshire Hathaway con sede a Omaha, di proprietà di Warren Buffett, uomo simbolo e patriarca del capitalismo americano (Berkshire è tra l'altro primo azionista dell'American Express, con il 12,4 % delle azioni, e della Washington Post Company con 25,6%). Il secondo azionista di riferimento di Moody's è il fondo Capital World Investors di Los Angeles fondato dalla famiglia Lovelace, con il 12% delle azioni. Interessante è che Capital World Investors è il maggiore azionista, con il 12% (di partecipazione diretta, senza contare quelle incrociate) nella compagnia Mc Graw Hill che controlla Standard & Poor's: cioè ha i piedi in ambedue le agenzie, in due staffe. Sia Berkshire Hathaway, sia Capital World Investors speculano massicciamente sulle valute che sono sottoposte al rating da parte delle agenzie che loro controllano; è poco giudicarlo un «conflitto d'interessi».

E qui veniamo al versante propriamente politico: quando parliamo di agenzie di rating, sembra sempre che queste agenzie operino da un altrove, numi vigilanti da un altro pianeta. Nel caso del downgrading del debito americano invece, sono i massimi esponenti del capitalismo Usa che danno un voto agli Stati uniti. Con questo gesto squisitamente politico, S&P's e Moody's sono entrate pesantemente nella campagna presidenziale che si concluderà nel novembre prossimo. La motivazione con cui S&P's ha giustificato la sua decisione sembra scritta da un repubblicano del Tea Party. Dopo essere stati salvati dai generosi (gratuiti) sussidi garantiti dalla presidenza Obama, i massimi esponenti del capitalismo Usa, i Buffett e i Lovelace, si sono così schierati contro Obama e con i repubblicani. Anzi, hanno dato un ceffone a Obama proprio il giorno dopo il suo compleanno. Con le dovute forme (hanno atteso che le borse fossero chiuse per il weekend per dare tempo al panico di riassorbirsi), ma pur sempre una sberla.

Ma vi è una dimensione più generale nell'inedito protagonismo delle agenzie di rating. Di mira sono prese insieme le due rive dell'Atlantico. Di mira è preso il capitalismo «all'occidentale», in particolare quel che resta del welfare europeo e rooseveltiano. È come se qualcuno avesse deciso che era ora di dare una spallata finale ai superstiti frammenti di stato sociale, di liquidare le residue proprietà pubbliche. Insomma di buttare nel cesso il compromesso tra capitale e lavoro firmato nel XX secolo. Come se i Buffett e i Lovelace avessero definitivamente abbracciato il «capitalismo alla cinese». I moniti di Pechino sul rientro Usa dal debito rispecchiano infatti quelli di S&P's (e del Tea Party), ma sono di maniera, per non dire insinceri: se gli Stati uniti prendessero davvero misure concrete per ridurre l'indebitamento, le esportazioni cinesi negli Usa crollerebbero all'istante innescando una crisi di sovrapproduzione e lo scoppio di una bolla immobiliare al cui confronto quella cui abbiamo assistito era una bollicina di sapone.



PS. Valentino Parlato mi chiede perché, se le cose stanno così, le agenzie di rating continuano ancora a godere prestigio, nonostante tutte le madornali cantonate che hanno preso. Non ho risposte certe, ma il punto è che non ci sono alternative credibili (l'agenzia di rating cinese Dagong non trova clienti, mentre invece la Fitch Rating, nata da capitale francese, ha sì credito, ma solo perché è divenuta anglosassone). E le alternative non sono credibili a causa di quel che il movimento femminista ha chiamato il «luogo di enunciazione»: se i ratings emanano dal centro del potere capitalistico mondiale, essi sono ammantati dall'autorità del potere che li enuncia. Percepiremo la crisi del capitalismo anglosassone dal discredito delle sue agenzie di rating, non viceversa.

(7 agosto 2011)




 



 
















INTERVISTA



di Valentino Parlato



GIORGIO RUFFOLO «Il momento è grave, ma la manovra è peggio»

I punti critici? Mancanza di credibilità del governo e misure recessive





Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo un po' provocatorio, Il capitalismo ha i secoli contati, e presiede il Centro Europa ricerche (Cer).



Di fronte a questa crisi che dici?



Dico che la conta si è accelerata. Continuo a non parlare di crollo, ma è certo che la crisi, la più grave dagli anni trenta del secolo scorso, segna un momento di profonda trasformazione.

Ma qualcosa è cambiato nel nostro capitalismo?



A tre quarti del secolo scorso c'è stata una vera e propria mutazione. Siamo passati dal capitalismo manageriale al capitalismo finanziario. Il primo aveva accettato di subordinare le prospettive di profitto a una politica dei redditi che sanciva un compromesso storico tra democrazia e capitalismo, con il passaggio dalla massimizzazione alla normalizzazione del profitto. Oggi siamo tornati a un regime di esasperata massimizzazione del profitto e nel più breve periodo, con la conseguenza di una mostruosa esplosione delle diseguaglianze. Le conseguenze devastanti di quelle diseguaglianze sulla compressione della domanda sono state evitate ricorrendo massicciamente all'indebitamento, come dire ai posteri. Con la conseguenza di uno sfrenato aumento della liquidità, Alla vigilia della crisi, nel 2007, la liquidità mondiale aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale, di qui la crisi che ha coronato la controffensiva capitalistica. La controffensiva capitalistica è iniziata negli anni '70 con il distacco del dollaro dall'oro ed è esplosa negli anni '80 con la liberalizzazione del movimento mondiale dei capitali, liquidando gli accordi di Bretton Woods, che garantivano, con le limitazioni al movimento dei capitali, le politiche macroeconomiche dei governi. Con la controrivoluzione tatcheriana e reaganiana sono stati ribaltati sia i rapporti di forza tra capitalismo e stati nazionali, sia quelli tra capitale e lavoro. E' finita quella che un grande storico marxista come Hobsbawn aveva definito l'età dell'oro.



Ma c'è qualche differenza tra questa crisi e quella del '29?



Certamente. A fronteggiare quella crisi ci fu l'intervento pubblico: il new deal rooseveltiano e a destra la crescita dello stato in Germania e in Italia, pensa solo all'Iri e alla nazionalizzazione delle banche. Non dimentichiamo il catastrofico ma risolutivo peso della seconda guerra mondiale. Oggi la situazione è molto diversa: dappertutto cresce il debito pubblico. Il peso di un gigantesco salvataggio è stato tutto posto sugli Stati, senza toccare minimamente i redditi e il potere della nuova plutocrazia finanziaria. E al danno si aggiunge anche la beffa: banchieri e finanzieri rimproverano duramente gli stati per un indebitamento che è in gran parte dovuto al loro salvataggio. Non solo: come ci avverte De Cecco, ci sono banche che si sono messe a speculare sul default dello Stato.



In questa crisi generale c'è uno specifico italiano?



Sì, l'incertezza e il teatrale e repentino cambio di marcia sulla manovra, messo in scena dal presidente del Consiglio e dal ministro dell'Economia, tradisce l'incertezza esistenziale di questo governo, ma non altera l'impostazione della manovra. Il suo punto critico non stava nell'entità e nei tempi (secondo i calcoli del Cer, 105 e non 80 miliardi di euro come si è detto, e non tutti concentrati alla fine, ma equamente distribuiti negli anni) e non si risolve con anticipazioni. I suoi punti critici stanno anzitutto nella credibilità di un governo, il cui presidente ha negato per anni la crisi, minimizzandone poi l'importanza fino all'altroieri e, soprattutto nell'impostazione iniqua e recessiva della manovra. Il fatto grave è appunto che la manovra è recessiva, non stimola ma frena la crescita. E ciò essenzialmente per effetto delle restrizioni fiscali, che costituiscono poco meno dei due terzi delle correzioni previste. Una grande manovra avrebbe richiesto (vedi la proposta di Giuliano Amato) un'imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca. Questo dovrebbe proporre la sinistra, che trema al solo pensarci.



Ma in tutto questo non c'è anche una crisi della politica e della cultura?



Quel che oggi rimane della sinistra appare piuttosto inquinato da una cattiva imitazione dai «valori» e dalle pratiche del mercato. Nessuna traccia di un progetto umano ideale alla Marx. Nessuna traccia di un riformismo pratico alla Keynes che fissi le regole di un'economia ecologicamente, socialmente e moralmente giusta.



A tanti anni di distanza che dici della caduta del Muro di Berlino?



Fatte tutte le considerazioni del caso mi verrebbe da dire che il socialismo reale (cosiddetto) che c'era prima era un disastro e che un altro disastro lo ha sostituito. Finito il socialismo reale c'è stato lo scatenamento, in economia, delle pulsioni speculative. Non c'era più il nemico e si poteva fare di tutto. E quel che è stato fatto ci ha portato alla condizione attuale.



Hobsbawm, che tu hai citato, dice che bisogna tornare a Marx. Condividi?



Non certo al suo programma, fallimentare, ma alla sua ispirazione ideale e al suo metodo di analisi storica certamente sì. Magari ci fosse. E magari ci fosse un Keynes che traducesse quella ispirazione in buon riformismo liberale e socialdemocratico. Io voterei per loro.



Giorgio Ruffolo è presidente del Centro Europa ricerche, che realizza studi e analisi di economia applicata e fornisce ad autorità nazionali e internazionali valutazioni e commenti su prospettive economiche e tendenze della finanza pubblica. Il Cer svolge inoltre attività di ricerca, formazione e consulenza per istituzioni e amministrazioni pubbliche, aziende bancarie e assicurative, industrie, associazioni di categoria.

(7 agosto 2011)




 



La democrazia, che si afferma in America latina e tramonta in Occidente

di Gianni Minà



Adesso voglio vedere se fra i corifei del capitalismo a qualunque costo - umano, sociale, etico - ci sarà qualcuno che avrà l’onestà di dire che questa idea di società è miseramente fallita così com’era successo nell’89 al comunismo, e che quello che sta succedendo negli Stati uniti a banche e assicurazioni, che stanno trascinando nel baratro pensioni e risparmi di milioni di cittadini, è per l’Occidente, uno sconquasso della stessa drammatica intensità della caduta del muro di Berlino per il mondo che si ispirava ai principi del marxismo.



Perché questa fragilità, questa corrotta ambiguità dell’economia di mercato era palese da tempo, eppure molti degli ultras del liberismo si ostinavano a sottolineare la “fine delle ideologie”. Ma se scavavi tra le pieghe del discorso, scoprivi che in realtà l’unica ideologia che questi ultrà reputavano morta e da seppellire era quella comunista. E anche quando erano costretti ad ammettere che in nome del libero mercato erano stati compiuti crudeli genocidi [come in Africa o in America latina] con aria falsamente ingenua erano pronti a chiederti: “Ma cosa mi offri in cambio? Non esiste un’alternativa”.



E quindi si poteva mentire al mondo per fare le guerre, vendere armamenti, saccheggiare risorse, o si poteva condannare alla fame e alla miseria interi continenti, magari per difendere solo i privilegi e le sovvenzioni ai contadini di Stati uniti, Francia o Italia, o ancora si poteva continuare a rapinare le ricchezze dell’umanità meno attrezzata, meno pronta ad affrontare le sfide capziose del mercato.



Perché annientare l’80% dell’umanità per le logiche dell’economia capitalista era ed è evidentemente più accettabile, più democratico, meno scandaloso che morire in un gulag o non avere abbigliamento firmato o McDonald’s. Così come non è inquietante se a controllare l’informazione, a ideologizzare e indirizzare la tua vita non sono ottusi burocrati di partito, ma la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochissimi, che hanno il controllo di apparecchiature degne del Grande fratello di Orwell.



Ci avevano detto, e quasi stavamo per crederci, che il capitalismo era l’unica salvezza dell’umanità, un sistema che aveva una soluzione per tutto, perché comandava l’infallibile mercato e la ricetta si era rivelata indiscutibile: quando l’economia non funzionava, bastava privatizzare e tutto si sarebbe risolto.



Così quando il governo di Washington dell’ineffabile Bush e del suo vice, l’affarista Cheney, ha deciso, fregandosene dell’ideologia liberista fino a ieri Vangelo, di salvare, nazionalizzandoli, i due colossi dei mutui Fannie Mae e Freddy Mac [l’8 settembre] e pochi giorni dopo [il 17 settembre], con un intervento della Banca centrale ha tolto dal gorgo dal fallimento l’AIG [American International Group], il gigante delle assicurazioni, è stato chiaro che tutta la retorica del “più mercato - meno stato” era una burla, un’escamotage dei mercati finanziari per privatizzare, quando c’erano, i guadagni e socializzare le perdite.

Una presa per i fondelli colossale, senza il minimo pudore, se uno come Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia di un governo come quello di Silvio Berlusconi, che le regole non le ha mai rispettate, si è subito adeguato come un burocrate sovietico: “Dalla crisi si esce con più intervento pubblico. Se il male è stato l’assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole”. Neanche un ministro democristiano dell’epoca della Cassa del Mezzogiorno avrebbe potuto cambiare abito così in fretta.



Ma lo stesso atteggiamento hanno tenuto i più prestigiosi giornali europei: la Repubblica, quotidiano italiano un tempo di sinistra, titolava il 20 settembre in prima pagina, con assoluta disinvoltura: “Terapia Bush, Borse in festa”. Di fatto presentando in positivo quello che fino a ieri, nel capitalismo, era considerata un’eresia: l’intervento in extremis dello stato nel mercato, ovvero l’ultima, disperata mossa politica di quello che molti cittadini nordamericani giudicano da tempo come il peggior presidente che il paese abbia avuto nell’ultimo secolo. La decisione del governo Bush scarica sui contribuenti americani, come fa rilevare sempre su la Repubblica, Federico Rampini, un onere oggi incalcolabile e potenzialmente illimitato, pur di frenare la catena di crac delle maggiori istituzioni finanziarie e le conseguenti pericolose ondate di panico.



Ma questa analisi onesta e realistica non ha suggerito un titolo meno trionfalistico per il piano da mille miliardi di dollari [in proporzione più del piano Marshall varato nel 1947 dal presidente Truman per aiutare l’Europa a rialzarsi] messo in marcia dal ministro del Tesoro Usa. D’altronde, il mondo della finanza neoliberista ha sempre preferito illudere, nascondere e mascherare, sperando follemente che nulla alla fine cambiasse.

Pochi anni fa, la benemerita Fondazione Ambrosetti che organizza le giornate di Cernobbio, sul lago di Como, dove si incontra ogni anno la creme de la creme dell’economia liberale [o presunta tale], mi contattò perché sentiva l’esigenza di far ascoltare, per una volta, una voce dissonante a una compagnia di giro dove i primi attori erano quasi sempre Shimon Peres, Henry Kissinger o perfino l’ex premier spagnolo Aznar, nemico giurato di tutte le ricette sociali antiliberiste.



Avrebbero voluto invitare il presidente cubano Fidel Castro: “Non condividiamo la sua linea intransigente - mi dissero - ma forse è arrivato il momento di confrontarsi con le ragioni di chi, prima di papa Wojtyla, affermò, fin dalla metà degli anni 80, che il debito estero di molte nazioni del Sud del mondo era immorale e impagabile”. Una scelta fuori dal pregiudizio. Li misi in contatto con l’ambasciatore cubano in Italia, anche se ero scettico sulla possibilità che quell’idea sarebbe stata accettata dagli abituali frequentatori del meeting di Cernobbio.



Il presidente cubano non aveva spazio nella sua agenda per aderire a quell’invito e allora io consigliai ai dirigenti della Fondazione Ambrosetti di chiedere aiuto a Eduardo Galeano, coscienza critica dell’America latina e di quello che chiamano il Terzo mondo, che proprio in quei giorni usciva anche in Italia con un libro emblematico, “A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia”. Eduardo accettò l’invito e inviò in anticipo il testo del suo intervento, basato su alcune delle brevi e paradossali composizioni, spesso intrise di ironia, che si susseguono nei suoi saggi e sono tipiche del suo modo di raccontare la storia e il mondo. Concedette anche un’anteprima al giornale la Stampa di Torino, che uscì la mattina in cui Galeano avrebbe dovuto intervenire.



Avrebbe. Perché, con un certo imbarazzo quelli della Fondazione avvisarono la sera prima lo scrittore de “Le vene aperte dell’America latina” e ora di “Specchi, una storia quasi universale” che, per l’obbligatorio inserimento nel programma di un ospite politico fino a quel momento in forse, non ci sarebbe stato più spazio per il suo intervento.

Galeano la prese con un sorriso disincantato: “Quelli dell’economia neoliberale considerano le loro convinzioni un dogma che non può essere discusso. Per questo li hanno definiti ‘i paladini del pensiero unico’. Ma non si illudano, sarà la storia a smentirli”.

Così a quanto pare è stato, anche se finora è mancato il coraggio di dire, chiaro e tondo, che nel mese di settembre del 2008 è crollato anche il muro del capitalismo.

D’altronde non poteva che finire così. Il neoliberismo si regge in piedi continuando ad ammucchiare bugie, con i giornalisti, incapaci, la maggior parte delle volte, di tenere la schiena dritta, e invece tesi pateticamente a sostenere argomenti che non stanno in piedi e a scrivere parole in libertà per giustificare l’ingiustificabile.



È sufficiente dare uno sguardo alla Direttiva del Rientro, approvata lo scorso 18 giugno dal Parlamento Europeo, per capire quanto sia in decomposizione la democrazia in un’Europa pavida e impaurita, mentre in altri continenti, come l’America latina, fino a ieri carente di diritti per tutti, spira un’aria nuova, dove il riscatto di nazioni indigene come Bolivia ed Ecuador, comincia proprio da una riscrittura rigorosa e seria di una Costituzione che rispetti tutti. Non solo, come avveniva fino a pochi anni fa, le oligarchie bianche e predatrici.

Proprio Galeano, nella cerimonia in cui, in Paraguay, il giorno dell’assunzione del’incarico di presidente da parte di Fernando Lugo, è stato dichiarato Cittadino Illustre del Mercosur, non ha evitato il sarcasmo riguardo all’ipocrisia delle nazioni del Vecchio continente: “L’Europa ha approvato da poco la legge che trasforma gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi,” ha aggiunto. “L’Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte la porta sul naso degli invasi una volta che questi ricambiano la visita”.

Per capire quanto è grande questa crisi di credibilità dell’Occidente, è sufficiente considerare come, negli ultimi tempi, dai media di casa nostra è stato raccontato il braccio di ferro che il giovane presidente dell Bolivia, Evo Morales, ha intrapreso contro i prefetti secessionisti delle ricche province orientali del suo paese, per ora bloccati, senza mortificare la democrazia, nelle loro strategie eversive sostenute, oltre che dalla Cia e dalla peggiore diplomazia nordamericana, dagli eredi dei vecchi ustascià croati, riparati, dopo la seconda guerra mondiale, nella Bolivia delle dittature militari e delle centinaia di colpi di stato.

Con questi figuri ci sarebbero perfino vecchi attrezzi del neofascismo golpista italiano come Marco Marino Diodato, che nella notte tra l’ 11 e il 12 settembre, avrebbe organizzato gli squadroni della morte legati ai gruppi civici che si battono, con la scusa dell’autonomia regionale, contro l’idea di nazione e di democrazia di Evo Morales. Nel massacro di El Porvenir [nella provincia di Pando] sono stati uccisi quindici contadini che si recavano ad una manifestazione di appoggio al presidente.



Con chi dovrebbe stare la stampa democratica dell’Occidente? Sarebbe facile rispondere con il giovane presidente boliviano. E invece, per non dispiacere alle spericolate politiche dell’amministrazione Bush in America latina come in altre parti del mondo, i media non sanno nascondere una certa condiscendenza per la secessione, per il tentativo di destabilizzazione che l’ex ambasciatore Usa Goldberg, ora rispedito a Washington, ha perseguito, finora senza risultati concreti, in questi mesi intensi e sofferti del paese in cui si immolò Che Guevara. E così hanno parlato di “paese diviso in due”, di “pareggio”, di “stallo”, pubblicando cartine geografiche sul consenso politico del presidente nel paese, chiaramente fuori dalla realtà, come dimostra l’annuncio di avvio di un dialogo da parte dei prefetti secessionisti ribelli,



La linea da tenere sull’argomento, come su tutta la febbre di riscatto che cresce in America latina, sempre più lontana dall’essere il “cortile di casa” degli Stati uniti, la dà El País, il potentissimo quotidiano spagnolo che ha ramificazioni e interessi in tutto il Cono sud. E lo fa quasi sempre con le parole astiose di Mario Vargas Llosa, uno scrittore straordinario che però, come tanti, non si dà ancora pace di essere stato in gioventù un militante comunista, e quindi non apprezza il vento di cambiamento che soffia nel continente.

Dario Fertilio, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, e Angelo Panebianco che gli ha dedicato la sua rubrica sul magazine dello stesso giornale, si dolgono così del fatto che, al contrario di quanto succede con gli scritti politici di García Marquez, di Luis Sepúlveda e di Eduardo Galeano, quelli di Vargas Llosa non vengano fatti conoscere in Italia. La colpa viene data ovviamente alla nostra editoria che, secondo Panebianco “continua a essere convinta che ‘cultura’ sia sinonimo di ‘sinistra’”. Perché, non è così professore? E, mi perdoni, l’editoria italiana, a cominciare dal colosso Mondadori, a chi è in mano? Forse, nella logica neoliberista ora improvvisamente in crisi, il Vargas Llosa saggista non è pubblicato solo perché non è ritenuto interessante per il mercato. So che è sconveniente, ma forse è proprio questa la ragione di questa dimenticanza, anche se lei parla di “offerta politicamente monocorde che influenza e plasma la domanda”. Tanto per la verità, professore, e per non prendere per i fondelli i lettori...


(12 ottobre 2008)



OCCIDENTE è una rubrica tenuta da Minà che farà il punto settimanale, ogni volta, su tutte quelle realtà che impongono attenzione, resistenza, capacità di conoscere situazioni eluse o tergiversate.



 


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