martedì 16 novembre 2010

Il disvalore della precarietà




Arriva dall’ultima pagina di “D” la Repubblica, l’ennesima testimonianza di vita precaria nel mondo della scuola. La conferma della pubblica distruzione del patrimonio di risorse umane, l’impoverimento collettivo e il miserabile trattamento riservato a coloro che operano nella scuola pubblica, per buona parte animati dal desiderio di rendere un servizio. Mi vien da pensare alle insegnanti di scuola primaria dove l’entusiasmo, la passione e la vocazione vengono progressivamente inariditi, laddove si chiede sempre di più centellinando le offerte. E mentre i tagli criminali impoveriscono e degradano gli ambienti e le persone, non si fanno mancare le ricche prebende agli istituti privati (quelli che non dovrebbero costituire un onere per lo Stato) frequentati dai figli della casta. In modo che chi più ha continui ad avere sempre di più, mentre chi già disponeva di pochissimo deve accontentarsi delle briciole che cadono dalle ricche tavole. E pure ringraziare.


 

 

Una scuola sfiduciata

Ricominciamo dalla piccola politica dal momento che la grande non se ne occupa

 


Sono una precaria. Ho 30 anni, laureata, con una specializzazione sul sostegno, e un paio di master profumatamente costosi per accumulare punti e poi per aggiornarsi un p0’.

Prima di sentirmi una persona, con una sua identità, mi sento profondamente una precaria, supplente, miracolosamente annuale, a cui spettano solo le briciole (quando ci sono è una fortuna). Emigrata dal sud per poter avere la splendida nomina su posto sostegno che significa non essere né carne, né pesce! Sorridente esecutrice di ordini di vecchie volpone, talvolta frustrate. Di fatto, sono un’intrusa nella scuola e nella classe, per cui vengo elegantemente invitata a lavorare fuori dall’aula, con piccoli gruppi, perché non avendo più compresenze, riuscire a tenere tutti i bambini in aula è faticoso.

Questo per dare un’immagine incisiva di chi comanda e di chi è comandato.

Nel caso in cui proponi una opinione diversa... Be’, ti sorridono, acconsentono e improvvisamente tutto si ritorce contro di te. È un boomerang. E io ho sempre torto per una serie di ragioni talmente “basse” che ometto di descriverle. Sono una precaria! Sono una supplente! Non compaio! Non devo parlare, devo solo eseguire! È il mio marchio di fabbrica! Non sono né carne né pesce! Talvolta non sono presentata nemmeno ai genitori. Non devo rispondere alle ripetute provocazioni, poiché queste vengono usate per scatenare un conflitto e poi dare a me la colpa di averlo iniziato.

Lei mi risponderà che sono una miracolata a essere una precaria che LAVORA. Sì, certo. Tanti non hanno questa fortuna e stanno peggio di me. Ma tutto ciò è destabilizzante. E chi ne paga le conseguenze: i bambini.

Vorrei scriverle tanto ma tanto ancora, ma non ho tempo. Devo occuparmi della mia vita precaria, da supplente, da emigrata che quasi tutti i mesi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese e deve chiedere aiuto ai suoi genitori.

Cos’è la dignità? Può essere così soffocata da una procedura chiamata “gavetta”? Mi pongo altre 7mila domande esistenziali e non ho risposte, non le trovo... E se è vero quello che dice Oscar Wilde vuoi dire che i miei quesiti sono giusti, ma io sono immersa in un triste tramonto. Lo definirei infinito, etereo.

P.S. Ometto il mio nome, perché non ho ancora il coraggio delle mie idee. Il mondo, oggi mi vuole così, una marionetta nell’orribile teatrino della scuola pubblica.

persempreprecaria@libero.it





Mi domando se il ministro della Pubblica Istruzione si è mai chiesto che tipo di educazione possono ricevere gli studenti che si trovano di fronte insegnanti demotivati o precari sfiduciati. Ma “educazione” è ormai per la scuola pubblica una parola impropria, perché non si può educare quando le classi sono composte da trentacinque studenti che, per il loro numero è impossibile seguire individualmente nei loro percorsi di apprendimento che sono diversi da individuo a individuo. Nella scuola pubblica l’educazione è bandita, al massimo si può trasmettere solo ‘istruzione”, perché “educazione” vuol dire anche e soprattutto crescita emotiva, cura dei sentimenti, che è impossibile praticare in classi stracolme.

Stracolme per risparmiare sugli stipendi già esigui degli insegnanti, che in Italia guadagnano un terzo dei loro colleghi tedeschi. Senza considerare che un paese sempre più povero di mezzi culturali sarà anche più facile da governare, ma alla lunga regredisce nella scala delle eccellenze, diventando sempre più marginale rispetto agli altri paesi e alla fine più povero e dipendente.

Ma siccome questi effetti negativi si vedono dopo uno o due decenni e i politici hanno lo sguardo corto che non oltrepassa i cinque anni di una legislatura, può davvero una simile politica arginare il degrado di una nazione e soprattutto essere preoccupata di questo degrado? Penso proprio di no.

E allora cara insegnante di sostegno precaria, svilita dalle vecchie volpi in cattedra da quarant’anni, incominciamo dalla piccola politica che consiste nel far bene il proprio lavoro anche se nessuno si accorge e nessuno ce lo riconosce. In questo modo il nostro narcisismo è salvo perché possiamo rispecchiarci con orgoglio in quello che facciamo, e i ragazzi che ci sono affidati ne traggono giovamento da una precaria non sfiduciata. Perché solo dalle piccole politiche delle persone impegnate può nascere una grande politica i cui rappresentanti non pensano a se stessi, ma alla voglia di riscattare un paese triste e sfiduciato che più non crede in se stesso, per cui ciascuno pensa solo a sé.


Umberto Galimberti

D la Repubblica

(13 novembre 2010)








 

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