mercoledì 13 ottobre 2010

Becchini istituzionali

ottobre 10 2010   
Sciacalli


Vignetta di Mauro Biani tratta dal blog:
http://maurobiani.splinder.com/



Basta, basta, basta con gli applausi, con le bandiere abbrunate, con i discorsi di circostanza ipocriti pronunciati dai mandanti delle uccisioni in terra afghana. Perfino le lacrime spuntano agli ex ragazzi di Salò che adesso non credono ai propri occhi: poter finalmente “giocare” con carri armati e armi in quantità. Il ministro della Guerra si trova talmente a suo agio in tutto questo che nell’orgia delirante anela all’aspirazione suprema: le bombe.
La compagnia di giro annuisce compunta. Andate a farvi morire ammazzati voi, che noi vi garantiamo funerali di 1ªcategoria, in diretta televisiva, in modo che tutte le mamme italiane vi possano adottare.  
La rabbia posso esprimerla con il disgusto per questa associazione a delinquere chiamata convenzionalmente “governo” e fornendo materiale per capire, andando oltre la patina stucchevole del Paese che deve essere unito. Perche i talebani li abbiamo in casa.


APERTURA
Ci sono caduti
Sale a 34 il numero dei soldati italiani caduti in Afghanistan in quella che il governo, insieme al Pd, si ostina a definire «missione di pace». Ieri quattro alpini uccisi in un agguato ai confini dell'Helmand, la «zona calda» del conflitto in cui  erano andati a sostituire le truppe Usa. Crescono i dissensi  anche tra i militari del contingente, ma in base al nuovo codice da oggi non possono più parlare. E a La Russa viene un'idea risolutiva: bombardare dall'alto i taleban
 
 



Ritirarsi subito



di Giuliana Sgrena


 


«Beato quel paese che non ha bisogno di eroi», diceva Bertolt Brecht. L’Italia è così poco beata che celebra come eroi anche i caduti in guerra. Chi va in guerra sa di rischiare la vita e non basta chiamare la spedizione missione di pace per evitare la morte. Non si tratta di disprezzare la vita dei militari, tutt’altro, vorremmo non dover più scrivere di morti in Afghanistan, ma per farlo occorre ritirarsi immediatamente da quel paese.E non siamo nemmeno «sciacalli» come sostiene il ministro della difesa La Russa perché vogliamo porre fine a una guerra che sta dissanguando un paese e anche le nostre truppe.
Con gli alpini morti ieri sono 34 gli italiani caduti in Afghanistan. E gli scontri a fuoco, le operazioni di guerra in cui sono coinvolte le nostre truppe aumentano e sono destinate ad aumentare, così come il nostro impegno. L’Italia ha promesso di inviare nuovi soldati, entro la fine dell’anno saranno 4.000. Non si tratta solo di maggior impegno, ma anche di un ingaggio sempre più rischioso sul terreno. Dopo il ritiro delle truppe britanniche da Sangin l’Italia ha dovuto spingere i propri soldati sempre più verso la provincia di Helmand, roccaforte dei taleban, per coprire zone prima occupate dagli americani. Ed è proprio in una di queste zone, il Gulistan, che è avvenuta l’imboscata di ieri.
Oggi è un giorno di lutto e noi rispettiamo il dolore delle famiglie, ma da domani bisogna impegnarsi per il ritiro immediato dall’Afghanistan. Non c’è molto da riflettere occorre trarre delle conclusioni dopo nove anni di guerra che non hanno risolto nessun problema agli afghani. Questo evidentemente non è l’obiettivo della Nato tanto che il governo italiano sostiene che siamo in Afghanistan per proteggere il nostro paese dal terrorismo. Peccato che a smentirlo sia il presidente Usa Obama: non penso che gli Stati uniti siano più sicuri, ha detto. Obama si scontra con i suoi generali per annunciare la data del ritiro dall’Afghanistan (2011) e in Italia il segretario del Pd Bersani sostiene che «non si agisce fuori dal contesto delle nostre alleanze». Certo il fallimento dell’intervento in Afghanistan segnerebbe una sconfitta per la Nato nel suo primo intervento al di fuori dei confini. E speriamo che questa sconfitta – non c’è nessuna possibilità di riuscita – contribuisca al disgregamento dell’Alleanza atlantica, che peraltro non ha più ragion d’essere dopo la caduta del muro di Berlino.
In questo panorama italiano desolato, dove solo l’Italia dei valori e la sinistra non più rappresentata in parlamento (Sel, Prc, etc.) chiedono il ritiro, risulta particolarmente assordante il silenzio e l’assenza di qualsiasi voce pacifista.Eppure alla vigilia della guerra in Iraq centinaia di migliaia di pacifisti erano scesi in piazza per evitare la guerra basata su un falso pretesto. La «seconda potenza mondiale» tuttavia non era riuscita a far sì che la macchina da guerra messa in moto da Bush si fermasse. La guerra e l’occupazione dell’Iraq sono state disastrose, il movimento pacifista probabilmente ha interiorizzato quel senso di sconfitta ed è rimasto paralizzato per anni. Nemmeno l’ammissione da parte di Obama che quella guerra è stata persa ha risvegliato l’orgoglio dei pacifisti.O sarà forse che nel frattempo quel che resta del pacifismo si è troppo istituzionalizzato per spingere i partiti della sinistra e scendere in piazza per chiedere la fine della guerra in Afghanistan?
Un movimento pacifista, quello italiano, che fin dalla sua nascita all’inizio degli anni ottanta aveva puntato la sua attenzione sul Mediterraneo e Medioriente convinto che quella fosse la zona più esplosiva, ora si è accasciato mentre il Medioriente e l’Afghanistan sono in fiamme.
I pacifisti tacciono mentre un gruppo di deputati e «intellettuali» bipartizan (compreso Roberto Saviano) esprimono la loro solidarietà al governo israeliano che nega qualsiasi diritto ai palestinesi. Possibile che non ci sia più nemmeno un intellettuale disposto a spendersi contro la guerra in Afghanistan per salvare gli afghani, innanzitutto, ma anche i soldati della coalizione, italiani compresi? Non vogliamo il ritiro dall’Afghanistan per abbandonare gli afghani al loro destino, chiediamo innanzitutto un sostegno diretto al popolo afghano con forme di cooperazione civile, svincolata da attività militari. La soluzione del conflitto deve avvenire attraverso processi diplomatici che non portino a una ulteriore tribalizzazione della società, che penalizzerebbe ancora una volta soprattutto le donne. È importante anche un sostegno al processo di giustizia trasnazionale per i crimini commessi dai vari signori della guerra (alcuni dei quali sono al governo), dai taleban, dalla Nato e dagli Stati uniti. La verità e la giustizia possono essere la base per una reale riconciliazione e modernizzazione del paese.

Rimettiamo le bandiere della pace alle nostre finestre, sarà un segnale che non vogliamo eroi ma un impegno a costruire la pace. A partire dall’Afghanistan.
(10 ottobre 2010)

 





APERTURA   |   di Emanuele Giordana – KABUL
Ora ha paura anche Kabul
 
Il Pakistan vuole guidare il negoziato, i sauditi intendono giocare la loro parte, per frenare i jihadisti. La trattativa di pace non decolla e il fronte del conflitto si estende a macchia d'olio
Kabul vive sospesa in una bolla che galleggia sopra la guerra. Una guerra lontana nella città delle trame sottotraccia, parvenza di convivenza civile in una capitale su una linea del fronte che è alle sue porte, appena fuori, qualche chilometro.

E mentre a Kabul, a Dubai, alle Maldive si fanno prove sotterranee di negoziato, il conflitto si estende a macchia d'olio, non solo nel Sud e nell'Est del paese ma, in modo sempre più preoccupante, anche nel Nordest e nel Nordovest. L'impressione è che i fronti, oltre che numerosi, vadano molto per conto proprio. Con un bilancio di vittime costante.
Mentre arrivava la notizia dei soldati italiani ammazzati, altre fanno da contorno: una scozzese di 36anni di una Ong americana uccisa mentre i soccorritori cercavano di sottrarla ai suoi rapitori, a Kunar. E la strage di venerdì alla moschea di un villaggio vicino a Kunduz, dove un'esplosione si è portati via, col governatore, anche venti poveracci che pregavano Allah. Si indica Hekmatyar, in questo caso. Per la vicenda di Kunar chi sa chi c'è dietro. Banditi? La filiera degli Haqqani, la potente banda taleban «spuria», vicina ai qaedisti? La più violenta, accusata degli assalti all'hotel «Serena», alla Guest House dell'Onu, allo stesso presidente. Proprio gli Haqqani, dicono qui, sono più calmi: da otto-nove mesi non fanno azioni eclatanti. «Forse c'è un accordo tra il governo e i pachistani per fare pressione su di loro», suggerisce un amico giornalista che dirige un'agenzia di stampa locale.

Intanto, nella città sospesa, si riesce ad andare ai giardini di Babur a passeggio. A gustare pannocchie arrostite che hanno sostituito, sul far dell'autunno, i meloni e le mandorle sgusciate. Ma l'atmosfera resta tesa ed è difficile ignorare che tutto intorno la morte continua a lavorare.
Nel silenzioso ospedale di Emergency i numeri della gente in cura parlano da soli: l'80% delle persone ferite che arrivano al nosocomio hanno i segni di qualche rissa, coltellate di parenti, faide famigliari. Il restante, ferite da guerra vere e proprie, è tutta gente che viene da altre province. Diverso, ci spiega Claudio Gatti, se si guarda cosa racconta l'ospedale di Lashkargah: feriti da arma da fuoco, schegge, mine messe lungo la strada. «Non c'erano mine in quella zona quando aprimmo il nosocomio. Ma adesso....», commenta un medico.
Il sistema di sicurezza locale delle Ong internazionali dà invece i dati sulla valle del Gulistan, teatro della mattanza che ha coinvolto gli italiani. Dicono che nel 2010 gli «Ied», le bombe «sporche» appoggiate sul ciglio della strada, sono aumentate e che il 90% di questi attentati ha riguardato i militari. Quest'anno però, per la prima volta, un Ied ha ucciso tre civili il 29 agosto. Conclude la fonte che gli attentati ai soldati finiscono comunque per avere un «effetto collaterale» sui civili.

Fuori dalla conta delle vittime, dalle ipotesi sui mandanti e gli esecutori, lontana dalla guerra, la capitale intanto vive una seconda vita sotto traccia. La stampa americana ha rilanciato una pista saudita che avrebbe luce verde da mullah Omar, il capo storico dei taleban. La stampa britannica e quella araba hanno invece dato per possibile un negoziato, separato, con il gruppo della famiglia Haqqani. Altre fonti locali, come dicevamo, ci confermano la voce. Poi, come è noto, ci sono stati contatti più che ufficiali con gli emissari di Hekmatyar, signore della guerra che controlla parte dell'Est e del Nord. Nella capitale, nei giorni scorsi e continuando a cambiare albergo, si è fatta viva invece una delegazione «non ufficiale» del Pakistan, il Paese che vorrebbe guidare il negoziato per essere sicuro di controllarlo. In pista dunque ci sono due grandi padrini: pachistani e sauditi. I primi cominciano a temere che la bomba taleban, già deflagrata in casa, vada fuori controllo e danneggi anche Islamabad. I secondi temono l'instabilità dei due paesi dove bivaccano e guerreggiano i jihadisti che equiparano Riyadh a Washington. Speranze dunque?
Presto per dirlo. Temiamo che a chiederlo a quel bambino smoccolante col vestitino sudicio, condannato - come altri 4mila - a elemosinare nel centro della città, risponderebbe che di questa parola ha perso il suono. E soprattutto il senso.
Lettera22
(10 ottobre 2010)




I CONTI CON LA GUERRA E CON LA PACE


di Emanuele Giordana


 
Il distretto del Gulistan è una zona impervia al confine con l'Helmand, una delle aree più conflittuali dell'Afghanistan. E' li che è avvenuta la strage dei militari italiani. Relativamente fuori dai giochi durante l'era dei talebani, la valle del Gulistan non arriva a 60mila abitanti, in maggioranza pashtun, e, militarmente, non ha mai dato grossi problemi se non sporadicamente. Ma forse adesso le cose sono cambiate.
Nella regione di Farah la pressione dei talebani non è fortissima e il comando Ovest, a guida italiana, riesce a tenere sotto controllo la situazione. Da alcuni giorni era in corso un'offensiva degli italiani nelle aree sotto il loro controllo e il Gulistan era stato prescelto per una nuova base avanzata in modo da “sigillare” il Farah che ricade sotto diretto controllo italiano. Ma e Est del Farah, al confine col distretto del Gulistan, c'è Helmand, dove i talebani dettano legge, sotto pressione da parte delle truppe britanniche della Nato a guida americana. E' la regione dove si trova l'ospedale di Emergency, a Lashkargah. La situazione lì è sempre tesa.
Claudio Gatti, un volontario dell'organizzazione di Gino Strada, ci spiega che nell'ospedale della Ong milanese da poco riaperto, il numero dei feriti è in costante aumento. Il suo racconto stride con la pace che permea l'ospedale nel centro di Kabul. E in effetti anche la capitale è tranquilla. Qualche fuoco d'artificio alla mattina, razzi sparati dalle montagne e qualche ordigno in periferia ma non molto di più. Le forze di sicurezza afgane, che hanno ormai il totale controllo della città, hanno costruito un vero e proprio anello di sicurezza che la sigilla rendendo il centro quasi impenetrabile per kamikaze e commando.
Kabul vive sospesa come in una bolla sopra la guerra che invece si è estesa a macchia d'olio, non solo nel Sud e nell'Est del Paese, ma - ma in modo sempre più preoccupante - anche nel NordEst e nel NordOvest, altra area di sorveglianza italiana. Ma a Kabul c'è persino il tempo di andare ai giardini di Babur per la scampagnata del venerdi, la domenica afgana.
In città la guerra sembra lontana anche se è presente, presentissima, nelle preoccupazioni del governo di Karzai e dei suoi alleati che, chiusi nei loro quartier generali o nel Palazzo presidenziale, stanno tirando la rete, fragile e complessa, del negoziato. Ufficialmente c'è un Consiglio superiore di pace, formato da 68 persone dal dubbio passato e sotto accusa da parte della società civile locale, dall'altra c'è tutta una filiera di contatti segreti e riunioni a porte chiuse, alcune delle quali proprio a Kabul. Ma in che direzione vada il processo di pace è difficile da dire.
La stampa americanaha rilanciato una pista saudita che avrebbe luce verde da mullah Omar, il capo storico talebano. La stampa britannica e quella araba hanno lanciato l'ipotesi di un possibile negoziato, a questo punto separato, con il gruppo della famiglia Haqqani, una filiera talebana ma abbastanza indipendente da mullah Omar e che controlla l'Est dell'Afghanistan. Poi ci sono stati contatti anche ufficiali con Hekmatyar, ex signore della guerra che controlla parte dell'Est e del Nord. A Kabul invece, nei giorni scorsi e continuando a cambiare albergo, si è fatta viva una delegazione del Pakistan il Paese che vorrebbe guidare il negoziato per essere sicuro di controllarlo.
Nella strada si vendono pannocchie rosolate e un numero crescente di bambini di strada (sarebbero 4mila) fa la questua. All'ombra dei nuovi palazzi di specchi e lustrini che raccontano il boom edilizio di questa capitale della guerra dove si aggira lo spettro della povertà e del dolore ma anche quello del denaro facile.


(10 ottobre 2010)

http://emgiordana.blogspot.com/


APERTURA
Fermiamo lo spettacolo
«Signor ministro, godetevi lo spettacolo». La rabbia dello zio di uno dei militari uccisi all'arrivo delle salme dall'Afghanistan non ferma La Russa e il governo, decisi a bombardare dall'alto. La Nato approva: «Armare i caccia con le bombe non è in contraddizione con la missione». Ora il Pd precisa: «Non è utile, si rischiano vittime civili». Oggi i funerali




Tagli alla sicurezza ma la Difesa tace


|   Andrea Fabozzi
 
 


È di circa 850 euro al mese lo stipendio di un caporale degli alpini, uno qualsiasi dei quattro uccisi ieri in Afghanistan. La missione garantisce invece tra i 25 e i 30mila euro di guadagno supplementare, in sei mesi. Soldi indispensabili per convincere un soldato in ferma prolungata – che non ha alcuna garanzia di mantenere il lavoro alla scadenza dei quattro anni e che anche in caso venisse confermato si troverebbe per i prossimi tre anni con lo stipendio bloccato – a rischiare la vita.
Servirebbero soldi anche per garantire la sicurezza dei soldati in Afghanistan ma le ultime due manovre economiche hanno tagliato un miliardo l’anno alla difesa. Non agli investimenti per l’acquisto di sofisticati sistemi d’arma, ma alle spese generali e al reclutamento. Ragione per cui il ministro La Russa ha cominciato ad annunciare l’invio in Afghanistan dei veicoli blindati Freccia due anni fa – il 28 ottobre 2008, hanno ricostruito il deputato radicale Maurizio Turco e il segretario del partito per i diritti dei militari Luca Comellini – ed è effettivamente riuscito a spostarne 17 nella zona di Shindand solo a luglio scorso. Non i 250 previsti dal programma di acquisto, non i 54 effettivamente ordinati, ma solo i 17 realmente pagati. Risultato: ieri gli alpini italiani erano ancora a bordo del veicolo tattico leggero Lince che non ha resistito all’esplosione.
La Russa ha persino cominciato a mettere in dubbio il programma di sostituzione dei Lince. «Dobbiamo valutare – ha detto -, il Freccia ha meno mobilità e velocità». Raggiunge i 105 Km/h com’è stato spiegato alla parata delle forze armate a Roma, dove il Freccia era in bella mostra. Più che sufficienti per un’operazione come quella che ieri è costata la vita ai soldati italiani, la scorta a una colonna di settanta camion.
Il governo ha trovato i fondi per la mini naja che stava a cuore a La Russa e alla ministra Meloni (20 milioni di euro in tre anni), e ha trovato i fondi per mandare i militari a fare lezione nelle scuole lombarde per «avvicinare gli studenti alle forze armate» (parte delle spese a carico degli studenti). Ma a marzo per risparmiare ha dimezzato la durata dei corsi di indottrinamento propedeutici alle missioni all’estero. Da due settimane a una. Racconta un sottufficiale dell’aeronautica che ha frequentato uno di questi corsi nella sede del Terzo Stormo, l’aeroporto di Villafranca a Verona (dobbiamo concedergli l’anonimato): «In una settimana ci hanno “insegnato” di tutto, dal diritto umanitario alle regole d’ingaggio a nozioni sull’Islam. Alla sicurezza sono stati dedicati due giorni». E in uno di questi giorni, uno soltanto, si è parlato proprio degli ordigni improvvisati: i micidiali Ied che hanno colpito ancora ieri.
«Il corso – racconta il sottufficiale – si basa su una simulazione estrema. Si tratta di trovare uno di questi ordigni lungo un percorso di 2,5 chilometri, sapendo in partenza che effettivamente c’è, è lì nascosto. Nella pratica in Afghanistan si affrontano spostamenti di 300 Km senza nessuna certezza. In più, non avendo mezzi Lince né tanto meno Freccia, il nostro finto convoglio procedeva a bordo di semplici veicoli militari che permettono una perfetta visibilità del suolo. Ovviamente uscendo da quel corso nessuno di noi si sentiva più sicuro – continua il sottufficiale – e in effetti i colleghi che sono già in Afghanistan mi hanno raccontato che in pratica si comportano diversamente. Se si avverte un pericolo la prassi non è più quella di fermarsi e recintare l’area ma semplicemente si torna indietro». Così ai militari in partenza per Herat, Kabul e Shindand è capitato di ricevere consigli molto banali: «Se durante uno spostamento vi accorgete che una strada in genere affollata, magari dove si tiene un mercato, resta invece deserta, state allerta perché potrebbe trattarsi di un agguato».
La situazione è questa, dunque non c’è da stupirsi che per la difesa sia diventato difficile riuscire a coprire i turni della missione in Afghanistan. La disoccupazione resta il miglior alleato dei reclutatori che ultimamente sono stati costretti a spedire in guerra anche i volontari senza esperienza, quelli arruolati per solo due o tre anni. Ma il sistema più sicuro per coprire i buchi è quello di considerare disponibili per le missione in Afghanistan tutti quelli che in passato si erano offerti per una missione all’estero, magari molto meno pericolosa come in Kosovo o in Bosnia. Una volta data la disponibilità a partire non si può più recedere, a meno di non voler rischiare un procedimento disciplinare. E visto che non ci sono i soldi per garantire la sicurezza e la paura aumenta, il governo si è preoccupato di impedire ogni possibile manifestazione di dissenso, vietando ai soldati qualsiasi dichiarazione pubblica su qualsiasi argomento «collegato al servizio», praticamente su tutto. È una disposizione entrata in vigore con il nuovo codice militare giusto ieri, mentre morivano altri quattro caporali.
(10 ottobre 2010)
Vignetta di Vauro su "il manifesto" del 12 ottobre 2010



ottobre 12 2010



Il ritorno






Vignetta di Mauro Biani tratta dal blog: http://maurobiani.splinder.com/

 





Il diversivo di La Russa



 di Gianluca Di Feo



 


Il ministro apre il dibattito sulle bombe per nascondere le sue gravi responsabilità. Come quella di aver mandato in una delle aree pericolose del conflitto gli alpini soli, con pochi uomini e senza rinforzi da Kabul
 
Quello delle bombe sugli aerei italiani in Afghanistan è un diversivo, un dibattito creato dal ministro La Russa per nascondere le vere responsabilità sulla strage di alpini. Chi ha deciso di mandare truppe che si sapevano insufficienti in un’area ad altissimo rischio dove da tre anni gli italiani non mettevano piede? Perché è stato fatto: solo per accontentare le richieste di Washington?
BOMBA O NON BOMBA
In Afghanistan sono schierati quattro caccia Amx dell’Aeronautica militare. La loro missione è di ricognizione: un’attività fondamentale per garantire la sicurezza delle strade percorse dalle forze Nato perché permette di scoprire le trappole esplosive piazzate dai talebani. Di notte e di giorno, un sistema elettronico sofisticato fotografa ogni dettaglio evidenziando le buche scavate per seppellire bombe e mine.
Un anno fa, dopo alcuni episodi in cui reparti italiani in difficoltà non sono stati soccorsi dagli stormi americani che erano impegnati altrove, sono state cambiate le regole d’ingaggio. I caccia dell’Aeronautica possono usare il cannone di bordo in casi estremi e solo se si trovano già nella zona del combattimento. Finora non risulta abbiano mai sparato un colpo. Si vocifera di alcune raffiche d’avvertimento esplose per spaventare i talebani che tenevano sotto tiro un convoglio francese ma senza conferme. Due settimane fa l’uso delle armi era stato autorizzato per aiutare una colonna sotto attacco ma i miliziani sono scappati quando hanno sentito il rumore dei jet a bassa quota. E qui sta la chiave del problema: i guerriglieri a terra non possono distinguere gli Amx italiani senza bombe dai caccia americani, francesi, inglesi o olandesi carichi di ordigni. Quando il rombo dei jet si fa più forte, i fondamentalisti scappano. Nei cieli afghani volano decine e decine di velivoli occidentali pronti a fare fuoco: quattro aerei in più non sono sicuramente in grado di cambiare la situazione.
TRIPOLI BOX
In Afghanistan tutti chiamano così la zona del Gulistan dove sono morti gli alpini. Quel settore cuscinetto, grande quanto l’Umbria, fa parte della Regione Occidentale affidata dal 2005 al comando italiano ma la bandiera tricolore non vi ha mai sventolato. Si tratta di un territorio strategico perchè viene utilizzato dai talebani per fuggire ai periodici rastrellamenti britannici e americani nell’area di Kandahar. Quando nel 2006 la guerra in Afghanistan cambiò volto, costringendo la Nato a moltiplicare uomini e mezzi, subito si capì che il Gulistan era una falla nella rete. In diverse occasioni i talebani occuparono villaggi, radendo al suolo le caserme della polizia e cacciando le autorità fedeli a Karzai. A quel punto, veniva organizzata una spedizione con truppe italiane, spagnole, afghane che dopo una decina di giorni arrivava nei paesi e mostrava la bandiera di Kabul. Ma dalla fine del 2007 anche questi convogli sono diventati troppo pericolosi e in tutto il Gulistan hanno messo piede solo i commandos della Task Force 45, il meglio delle forze speciali del nostro paese, che conducevano raid e poi rientravano nella base di Farah.
LA SCATOLA DELLAMORTE
Nel 2009 gli americani hanno detto basta. Il Gulistan è diventato Tripoli Box, evocando la prima operazione internazionale condotta dai marines nel XIX secolo. Agli italiani è stato vietato di avvicinarsi: dovevano rimanere a 10-12 chilometri di distanza dalla zona. Il nome ha subito fatto pensare ai killing box creati in altri conflitti per sconfiggere la guerriglia: porzioni di territorio proibito alle forze amiche dove si colpiva dal cielo, alternate ad altre affidate ai rastrellamenti delle truppe d’assalto. Anche dentro Tripoli box c’erano zone di “caccia libera”, dove squadre di marines si appostavano per sbarrare i movimenti dei talebani: cecchini nascosti che segnalavano i fondamentalisti ai bombardieri o agli elicotteri Apache. Villaggi e snodi stradali invece erano presidiati da unità scelte americane e afghane, queste ultime accompagnate da contractors e mercenari: personale inviso alla popolazione. Per un anno la densità di combattimenti è stata altissima, finché a luglio 2010 i generali americani non si sono convinti che la Tripoli Box fosse “pulita” e l’hanno passata agli italiani, spostando i battaglioni d’elitè dei marines sulla caldissima frontiera pachistana.
AVANTI A META’
Il controllo della Tripoli Box è una sfida che ha messo in crisi il coordinamento della missione italiana. Nella zona abbandonata dagli americani non c’erano fortini con strutture di lungo presidio, ma solo avamposti dei marines: trincee, sacchetti di sabbia e terrapieni dove la protezione era garantita dalla potenza di fuoco americana ossia mortai pesanti, cannoni e bombardieri sempre in volo mentre tutti i rifornimenti arrivavano con gli elicotteri. Ma soprattutto mancavano reparti addestrati dell’esercito afghano, che aveva pochi uomini asseragliati in fortezze ottocentesche, per aiutare gli italiani a controllare un territorio così difficile. Per la nuova missione si è deciso di usare gli alpini della brigata Julia in supporto alla Tridentina impegnata tra Bala Murghab, Farah e Shindand. La prima compagnia spedita nella Tripoli Box ha trovato condizioni disastrose dentro e fuori la vecchia caserma afghana: una frequenza di attacchi altissima e le zecche nei giacigli. Il resto del battaglione della Julia è rimasto per quasi due mesi chiuso nella cittadella di Herat in attesa dell’ordine di partire. Probabilmente si attendeva che Kabul mandasse nuovi reparti della 207ma divisione, l’unità afghana addestrata dagli italiani e che combatte al fianco degli alpini. Rinforzi che finora non sono arrivati.
SOLI NELL’INFERNO
La realtà è stata spiegata dal comandante in capo Claudio Berto in un’intervista al “Resto del Carlino”: nel Tripoli Box le forze italiane sono inferiori per numero a quelle statunitensi e non hanno il supporto dei soldati afghani di cui disponevano gli americani. Gli italiani sono quindi andati a presidiare un territorio ad altissimo rischio con meno truppe degli americani – che lì schieravano i migliori combat group dei marines -; senza il sostegno della fanteria afghana – che fornisce la massa di manovra per le operazioni – e senza nuovi mezzi, soprattutto elicotteri, che compensassero questa inferiorità. Perché? Chi lo ha ordinato? E perché nessuno in Italia si è accorto di quanti pericoli ci stavamo assumendo? Il generale Berto è un ufficiale di poche parole, un alpino estremamente concreto che conosce bene i talebani.
Nel 2003 ha guidato la prima missione italiana nell’Afghanistan orientale e da allora si è preparato per comandare i quasi 4000 soldati schierati nella Regione Occidentale. È un pianificatore, che medita ogni mossa e appare freddo mentre in realtà custodisce nel silenzio il tormento per la morte dei suoi uomini. Lui era conscio dei rischi della Tripoli Box, dalla quale anche i parà della Folgore erano stati tenuti lontani. La Julia ha atteso prima di entrare nella zona proibita, nella speranza di ottenere rinforzi afghani o dagli alleati. Poi quando l’offensiva anglo-americana su Kandahar ha reso indispensabile l’intervento nel Gulistan per sbarrare la fuga dei guerriglieri, gli alpini sono partiti. Hanno cominciato a potenziare la base Ice lasciata dagli Usa e a costruirne una seconda: i capisaldi da cui pattugliare la zona. I miliziani li hanno colpiti subito: un attacco combinato, il più potente organizzato finora contro gli italiani, che hanno risposto con tutte le armi inclusi i razzi Panzerfaust.
Ma i talebani sono sempre più addestrati e ben equipaggiati: l’ordigno che ha distrutto il Lince è stato fatto esplodere nonostante i jammer, gli strumenti elettronici che bloccano i telecomandi. Uno dei tanti indicatori che mostrano quanto stia peggiorando la situazione. E mettere le bombe su quattro aerei non cambierà il corso della guerra.
(10 ottobre 2010)






 




 



 











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