mercoledì 14 luglio 2010

Senza bavaglio




13 luglio 2010
31 Ottobre 2009, Paderno Dugnano (MI) Circolo Arci "Falcone e Borsellino". Queste immagini scioccanti mostrano il summit dei boss della 'ndrangheta in cui viene eletto Pasquale Zappia come referente per il Nord Italia delle cosche calabresi.



Un video sconcertante (sul sito ilfattoquotidiano.it) che sbatte in faccia, a chi ancora non si è svegliato, che le mafie si stanno impossessando dell’Italia e che Milano è la filiale al Nord della ‘ndrangheta. Notare il luogo dove si compie l’oscenità, i nomi che campeggiano sulla targa all’esterno. Da vomito.
Ma anche questa è informazione, quella che si vorrebbe ridimensionare prima e occultare poi. È l’informazione che preferisco naturalmente.
A seguire un pezzo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” (che per fortuna c’è) sulla crisi economica che ha il pregio non solo di parlar chiaro, ma anche smentire le mille balle azzurre che l’associazione a delinquere, incidentalmente chiamata “governo”, produce in quantità industriali ogni giorno di questi tempi infelici.
E la smentita anche sul tema caldissimo delle intercettazioni, ossia della loro cancellazione, attraverso due articoli apparsi, a distanza di un mese, su “la Repubblica”, il quotidiano schierato in prima fila nella tambureggiante campagna stampa per strappare il bavaglio, anzi non farselo proprio imporre.
Esempi, come tanti altri, che si possono portare a sostegno della tesi che senza bavaglio è meglio.
Almeno io la penso così.


           
Crisi, chi nega l’evidenza
Il governo insiste con un ottimismo assurdo e i giornali amici parlano di nuovo “boom” perché sbagliano (con dolo) nell’interpretare i dati: ma il disastro economico non è ancora alle spalle
di Mario Seminerio
 
Nel nostro paese esiste una mistica dell’ottimismo sullo stato dell’economia che va ben oltre il diritto ed il dovere di un esecutivo a trasmettere messaggi positivi sulla congiuntura, ovviamente dopo aver assunto e motivato le proprie scelte di policy ed aver ottenuto riscontri che la direzione intrapresa è quella corretta. In Italia, dall’inizio di questa crisi infinita, esiste invece un obbligo di ottimismo a oltranza (e oltranzista), trasmesso attraverso alcuni mantra fattualmente fallaci, ed amplificato da organi di informazione dimostratisi incapaci (per dolo o pura ignoranza) a cogliere il reale stato della congiuntura.
Qualche giorno fa l’Istat ha comunicato che, nel 2009, il nostro paese ha registrato un crollo degli investimenti, pari al 12,1 per cento, con punte del 14,9 per cento per il settore industriale. Non c’è nessuna “crisi alle spalle”: la crisi è qui, non si è mai allontanata, ma è mutata. Abbiamo avuto una fase di mini-rimbalzo, soprattutto dell’attività manifatturiera, legato sia al vigore delle economie emergenti (segnatamente la Cina), sia ad alcune iniziative di anticipazione della domanda futura per alcuni beni durevoli di consumo, come le auto, che hanno goduto di ampi e diffusi incentivi. Oggi, per contro, abbiamo diffusi timori di un nuovo rallentamento, indotti sia dal venir meno dello stimolo statunitense (che nel secondo semestre dovrebbe sottrarre crescita, per effetto-confronto col recente passato), sia per alcune evidenze di rallentamento della locomotiva cinese, che necessita di riconvertirsi dalle esportazioni alla domanda interna, ma che ha comunque ampi eccessi di capacità produttiva in molti settori.
Ebbene, l’intera evoluzione della crisi è stata finora gestita dall’esecutivo secondo una strategia di comunicazione che miscela l’ottimismo con la minimizzazione, l’enfasi su dati assai poco leggibili ed altrettanto poco robusti come capacità previsivae lo spostamento dello spin mediatico su temi diversi dall’economia, come la sicurezza e l’immigrazione. Né manca il tentativo di intestarsi politicamente quelli che sono tratti culturali delle famiglie italiane (come la propensione al risparmio), non il frutto di azioni di governo. Due anni addietro, il premier amava dire che avevamo di fronte soprattutto una crisi “psicologica”, che il nostro paese era esterno ed estraneo all’epicentro dei mutui subprime e dell’eccesso di indebitamento. È vera la seconda parte della proposizione, non certo la prima. Nessun paese è un’isola: esiste una cosa chiamata moltiplicatore del commercio estero che ci riguarda tutti, e trasmette crisi e crescita allo stesso modo. Gli italiani non consumano per timore, dicevano esponenti di governo e maggioranza. In realtà, gli italiani non consumano per progressiva riduzione di risparmio e reddito disponibile e per crescenti timori legati al terzo maggior debito pubblico del pianeta. Possiamo dar loro torto?
Poi venne la polemica con le banche: non accettano i Tremonti bond, che ci farebbero ripartire l’economia, si disse. Non era vero, naturalmente: le banche stringevano il credito per timori legati all’evoluzione della crisi ed all’incertezza circa la reale situazione dei bilanci. Insomma, una crisi à la carte, compare e scompare in funzione della prova di forza politica di turno.
Poi è stata la volta della finzione sul tasso di disoccupazione “più basso della media europea”. Neppure questo è vero, perché il dato non considera che l’Italia ha un tasso di partecipazione alla forza lavoro che è di nove punti inferiore alla media europea, circostanza che di per sé tende a frenare l’ascesa del tasso di disoccupazione. Ma soprattutto, nel dato non si considera il numero di cassintegrati, spesso in aziende clinicamente morte o con organici comunque sovradimensionati.
Oggi, lentamente ma inesorabilmente, emerge la verità: la crisi ci ha colpito quanto e più degli altri. Nel 2008 eravamo l’unico paese sviluppato Ocse (con il Giappone) ad essere in recessione prima che la crisi esplodesse, per eccesso di pressione fiscale (soprattutto sul lavoro). Nel 2009 siamo stati tra quanti hanno subito la maggiore contrazione del Pil, ma tutto è stato silenziato. Poi sono arrivati gli strafalcioni da matita blu. Quelli che portano i giornali a scrivere, a fronte di una crescita annuale della produzione industriale del 6,9 per cento, che siamo di fronte ad un “boom”, omettendo tuttavia che un progresso del 6,9 per cento su un indice di produzione che in precedenza si era ridotto del 30 per cento è il nulla, o quasi. Nessun riferimento alla perdita di cento trimestri di produzione industriale dall’inizio della crisi, e di 34 trimestri di Pil, come risulta da un paper della Banca d’Italia.
Oggi, in attesa degli eventi, siamo ancora allo stesso copione: noi ne usciremo meglio di altri, e comunque abbiamo un premier che salva il mondo, all’occorrenza. Chissà perché, non c’è motivo per sentirsi rassicurati.
(10 luglio 2010)




IL DOSSIER



Ecco l'Italia delle intercettazioni, sotto ascolto solo 26mila persone



Il premier: "Siamo tutti spiati". E calcola 7,5 milioni di persone nella rete degli ascolti. Ma i numeri raccontano una verità diversa. Gli addetti ai lavori in rivolta: "Dal governo cifre sballate, più facile vincere al lotto che finire ascoltati"



 
di PIERO COLAPRICO
 
MILANO -"Il tandem Berlusconi-Alfano sta raccontando del mondo delle intercettazioni un cumulo di menzogne. Purtroppo non possiamo dire esattamente quello che pensiamo con nome e cognome, perché con questi ci dobbiamo lavorare. Aiutateci". La protesta sale ovunque. Ma è soprattutto al Nord, dove hanno sede le principali società specializzate in telefoni e microspie, che si trasecola. Ieri c'è chi è andato su Youtube, chi ha cercato le agenzie stampa, molti sono di centrodestra e non credevano alle loro orecchie nel sentire il premier che, tra gli applausi della Confcommercio,
raccontava che 1 "In Italia siamo tutti spiati. Vengono fuori sette milioni e mezzo di persone che possono essere ascoltate. Questa non è vera democrazia.".
Meno di 30 mila gli intercettati. I numeri reali smentiscono (pesantemente) la versione di Berlusconi. Il dato ufficiale diffuso dal ministero di Grazia e giustizia indica in 132.384 i "bersagli intercettati". Ma - attenzione - non sono persone e non sono case. Ogni "bersaglio", nel gergo usato da chi le intercettazioni le fa, corrisponde ad un numero di telefono. Dunque, spiega Elio Cattaneo della Sios, una delle società d'intercettazioni più attive, "se si conta che un italiano medio dispone di un telefono cellulare personale, più uno aziendale, più uno fisso a casa, più parenti stretti eccetera, noi calcoliamo che intercettare una persona vuol dire mettere sotto controllo un numero di 5,3 telefoni/bersaglio. Inoltre, se si intercetta uno straniero o un mafioso che delinque utilizzando anche telefoni esteri, la media bersagli che riguardano uno stesso soggetto sale a dieci, dodici".
Quindi, se si fanno come alle elementari i conti che Silvio Berlusconi e il centrodestra, decisi ad affossare questo strumento d'indagine, non hanno fatto, il risultato è all'opposto dei milioni di "ascoltati". Prendiamo le persone che abitano in Italia: circa 60 milioni. Le dividiamo per i 132.384 bersagli, divisi a loro volta per una media di circa 5 telefoni a bersaglio: il risultato porta (siamo larghi) a circa 27 mila persone intercettate, vale a dire, lo 0,045%, una persona ogni 2.200 abitanti. Secondo l'avvocato e senatore Luigi Li Gotti, gli intercettati sono ancora meno, tra i 20 e i 23mila. "E' più facile vincere al lotto che essere ascoltati", continua l'imprenditore brianzolo Cattaneo.
Dodici euro al giorno. "I costi delle intercettazioni sono altissimi, non ce li possiamo permettere", tuonano sempre dal centrodestra. Invece, tenere sotto controllo oggi il telefono di un narcotrafficante "costa circa 12 euro al giorno di media per telefono, mentre pedinarlo - spiegano gli esperti - significa impiegare almeno sei uomini, mandarli in trasferta, spendere in benzina e alberghi". E dunque, secondo un esperto dell'antimafia, il costo sarebbe di circa 2.500 euro al giorno.
L'intercettatore senza divisa. Un bandito entra nella sua auto, posteggiata nel box blindato.
Esce, incontra un socio e comincia a parlare dei suoi traffici, ma viene intercettato e, prima o poi, sarà catturato. Chi è riuscito a eludere i sistemi d'allarme, aprire l'auto e piazzare la microspia? Un carabiniere, un poliziotto, un finanziere, direbbero molti, "vittime" delle fiction tv. E sarebbe uno sbaglio: a installare la cimice elettronica è quasi sempre un consulente esterno (della Procura e dei detective). E' un ingegnere, un elettricista, un perito, o anche un ex-detective che ha mollato la divisa: è quest'uomo "senza volto" che fa il lavoro difficile, dalla strage di Capaci a quella di via D'Amelio, dal terrorista islamico al faccendiere di partito.

Questa la realtà oggettiva che viene "omissata" dai dibattiti parlamentari e televisivi. In Italia la magistratura e le forze dell'ordine "non" possiedono la tecnologia delle microspie (e nemmeno gli strumenti minimi). E più i software dei computer, dei telefonini, delle trasmissioni radio e delle "memorie" elettroniche diventavano complessi, più la nostra polizia giudiziaria si è affidata ai tecnici esterni: era ritenuto l'unico modo per stare all'avanguardia e fronteggiare un crimine sempre più internazionale e inafferrabile. Ogni Procura, in assenza di leggi, s'è data dei criteri di trasparenza più o meno efficienti e i vari ministri della Giustizia hanno lasciato fare.
Centocinquanta società strutturate. Oggi in Italia, nel settore delle "cimici" elettroniche e delle deviazioni dei flussi telefonici e informatici, esistono quasi 150 società ben strutturate. Le più solide aziende del settore sono "nascoste" tra Milano, Lecco e Como (come Area, Rcs, Sio e Radiotrevisan), più c'è la Innova di Trieste: da sole hanno assunto a tempo indeterminato circa 400 dipendenti e avevano fatturati che superano i 30 milioni. Una cinquantina di società, da due anni, si sono riunite nell'Iliia, con sede a Milano. Se si contano però anche gli ex marescialli che entrano nel settore quando vanno in pensione, o tantissimi sub-appaltatori, si arriva a circa 400 partite Iva. I dipendenti assunti regolarmente in Italia da queste ditte superano quota mille. Se si fermano loro, si fermano le intercettazioni.
E il ministro Alfano non paga il conto. Nel 2006, con l'idea di tenere maggiormente sotto controllo i conti dello Stato, il centrosinistra toglie alle Poste il compito di "fare da banca" allo Stato. Da allora, per farsi pagare le fatture dei lavori svolti, le varie società d'intercettazione devono presentare il conto non più agli uffici postali, ma direttamente a Roma, al ministero di Grazia e giustizia: dov'è nel frattempo arrivato dalla Sicilia Angiolino Alfano, ex segretario di Silvio Berlusconi.
E il ministero che fa? "Fa né più né meno come quei clienti che fuggono dal ristorante dopo aver mangiato: non paga il conto", spiegano dall'interno di queste società. Nell'autunno 2008, ormai strangolati, le aziende d'intercettazione mandano i loro amministratori a Roma: "Non arriviamo alla fine del mese, se non ci pagate chiudiamo, licenziamo, buttiamo a mare indagini delicatissime".

Preso in contropiede, il ministro di un governo che ha basato la sua campagna elettorale perenne sulla sicurezza pubblica, prova a metterci una toppa. E con aria trionfante, (tra lo sconcerto muto e preoccupato di chi lavora nelle intercettazioni) fa un annuncio all'inaugurazione di quest'anno giudiziario: "L'immediata azione del mio dicastero (...) ha fatto sì che i debiti pregressi fossero onorati".
I conti del ministero i conti della realtà. Onorati è una parola fuori luogo. I debiti nel 2008 erano circa 450 milioni. Nel 2009 - anno in cui Alfano comincia a parlare del tema, dopo aver lasciato incancrenire la situazione - queste società hanno continuato a lavorare, fatturando altri 250 milioni circa di euro, Iva compresa. Sempre nel 2009 le varie procure, con i fondi del ministero, hanno pagato agli intercettatori un acconto sul debito post 2006 di circa 120 milioni. Dopo di che, sempre nel 2009, e sempre con la transazione del ministero di Alfano (che ha imposto uno sconto del dieci per cento e ha semplicemente azzerato gli interessi), sono arrivati alle società altri 100 milioni.

Quindi, ricapitoliamo i conti: 450 milioni di debito sino al 2008, più 250 di debito nel 2009, meno 120, meno ancora 100, porta a un totale di 480 milioni: è ancora questo, al 31 dicembre 2009, il debito Iva compresa che lo Stato ha nei confronti di queste società. Come può dunque il ministro vantarsi di aver "onorato" il debito? Dalla Sios di Cantù, il titolare ieri protestava, amareggiato: "Uno lavora una vita e poi vede la sua inventiva e le sue energie buttate a mare solo perché la politica ha deciso di fare la guerra ai magistrati e così, per colpire loro, calpesta noi e i nostri diritti. Al ministero sanno che se non ci fossero le risorse personali di noi imprenditori, e le banche che ancora ci sostengono, saremmo già chiusi. E così ci sarebbero zero intercettazioni, senza nemmeno il bisogno della legge-bavaglio".
(17 giugno 2010)


IL CASO
 
I veri intercettati sono solo seimila
 
di PIERO COLAPRICO
 
MILANO E se oggi - proprio oggi sabato 10 luglio che leggiamo questo articolo - in tutta Italia ci fossero, ad esagerare, non più di seimila persone intercettate? Prima di definire alcuni calcoli che sinora nessuno aveva fatto, è necessaria una premessa «storica». In questi anni, vari magistrati hanno ascoltato la viva voce di Silvio Berlusconi al telefono. Lo si è sentito raccomandare alcune attrici con l' ex manager Rai Agostino Saccà. Ragionare su feste e ragazze con un imprenditore barese. Prendersela con un commissario dell' Autorità garante delle telecomunicazioni, trattato peggio di un cameriere pelandrone. E tante volte sono state registrate conversazioni che riguardavano il premier, o i suoi più stretti collaboratori.
E' su questo scenario di «frasi rubate» e «poteri forti» che è cominciata una guerra di numeri. Sono dunque milioni, questi intercettati italiani, come vuole la versione del premier diffusa (senza verifiche) urbi et orbi dai tg? Oppure bisogna entrare nell' ordine di grandezza delle migliaia, come sostengono quelli che con le intercettazioni ci lavorano?
Il calcolo è lineare. Le procure, come si sa, per intercettare si affidano a società private esterne. Quindi, per conoscere il numero dei telefoni sotto controllo, invece di domandare alle lente burocrazie delle varie corti d'appello, è più semplice chiedere dettagli ai pochi «operatori» che servono tutte le procure italiane. In questi giorni, i vari amministratori delegati hanno svolto una verifica dei «lavori in corso». Ed ecco quello che, tra loro, si sono detti.
La società Area ha sotto controllo 5.200 «bersagli», e cioè - attenzione - telefoni e telefonini, non persone fisiche. La società Rcs ne ha 4.500. La Sio 1.500. Radio Trevisan circa mille. Innova, con sede a Trieste, 3 mila numeri. Le società più piccole sommano altri 3.500 «bersagli». Sommando tutto, oggi in Italia sono sotto controllo meno di 19mila apparecchi.
Non è finita. E' stato calcolato che quando si «sta dietro» ai colletti bianchi degli appalti sporchi o ai criminali grandi e piccoli, ognuno ha a disposizione varie utenze. Quindi, tra gli intercettatori, si è stabilito un cosiddetto "coefficiente 5,3": per tracciare le conversazioni di un indagato si «mettono sotto» almeno cinque numeri. Se dividiamo per il coefficiente 5 - stiamo larghi e arrotondiamo - ventimila bersagli, abbiamo non più di quattromila intercettati. E, volendo arrotondare ancora di più, ad abundantiam, di un' altra bella metà, arriviamo a non più di seimila intercettati.
Questo 0,0001% della popolazione italiana parlerà certo con altre persone, ma si usa una dizione, «conversazione non rilevante», che fa buttare nel cestino le chiamate a amici e parenti e a chiunque non parli con l' intercettato di fatti di reato o di argomenti che «raccontano» gli intrecci personali, le «opacità». Ancora qualche dettaglio, sempre proveniente, dal mondo di queste società di intercettatori, può essere utile: ogni intercettato per reati non di mafia viene ascoltato in media per non più di 35 giorni, per reati di mafia sui 100 giorni e solo nei casi dei latitanti - come l'ultimo arresto a Napoli - le persone vengono ascoltate anche per due anni. E forse non ne vale la pena?

(10 luglio 2010)  
 

 




 

 

2 commenti:

  1. giovanottaluglio 15, 2010

    // l’associazione a delinquere, incidentalmente chiamata “governo” //

    ecco, appunto

    ..  e oggi ancora D'Alema parla di un governo di unità nazionale con berlusconi?.. (ma spero di aver sentito male, era alla radio)

    ciao

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  2. giovanotta, pure a me è capitato di captare siffata intenzione, ma ci dev'essere stata una qualche interferenza con un canale televisivo straniero e credo di aver confuso :-)
    Ciao!

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