lunedì 26 aprile 2010

Quattro passi tra le nuvole




Ma la nube è di destra o di sinistra? Nel dubbio io sto con la nube.
Avrei voluto già postare sull’argomento, gli articoli da condividere erano stati cercati (il  primo su suggerimento dell’amica kittymol77) e raccolti: solo per questo li propongo, sebbene fuori tempo, visto che l’emergenza di una settimana fa è, di fatto, risolta.
Frattanto una delicata situazione familiare e, dunque, anche personale si è interposta alla mia volontà, sovrapponendosi ad essa e, sostanzialmente, guidando le mie scelte e limitando la libertà di azione. Mentalmente sono da tutt’altra parte e la sporadicità degli ultimi tempi, qui nella blogosfera, rischia di diventare una costante. Di certo non potrò aggiornare con continuità, come in fondo sarebbe giusto e opportuno. Al massimo proporrò qualche articolo meritevole di attenzione e nulla più.
Questo al momento sono in grado di fare. E dare.
Tutto passa, come sempre accade nel bene e nel male, intanto però deve passare ed è la fase più delicata, quando cioè ci sei dentro, ne hai la piena consapevolezza e quello che deve passare si srotola poco per volta. Sono appena all’inizio.







Purificati da una nube
ANTONIO SCURATI


Una nube ci ha imprigionati, una nube ci renderà liberi. Siamo cresciuti sotto cieli malsani, percorsi da nubi venefiche. Alzando gli occhi al cielo, abbiamo imparato più a diffidare che a pregare, più a temere che a sperare. Dall’alto - come dal basso, del resto - non c’era da attendersi nulla di buono.
In principio, a incombere sul nostro futuro, fu la nube atomica, quella fungiforme che si levò sopra Hiroshima il 6 agosto del 1945. Dopo di allora, una lunga serie di nubi si sono addensate all’orizzonte delle nostre vite minacciando olocausti ambientali, estinzioni planetarie, sindromi respiratorie. Procedendo a memoria d’uomo, trovo la prime nube tossica della mia vita nei ricordi d’infanzia. Era l’estate del 1976 e alle porte di Milano, nella cittadina di Seveso, scoppiava il reattore di una fabbrica chimica. Un miasma si stendeva sul territorio circostante come una nebbia autunnale. Ma puzzava. Era diossina. Prima caddero gli insetti stecchiti, poi stramazzarono le rondini, poi i cani impazzirono, poi le mucche levarono muggiti strazianti, infine, toccò ai nocchieri dell’arca. «Ci avevano detto che non esisteva alcun pericolo», dichiareranno gli abitanti della zona evacuati con 15 giorni di ritardo.
Esattamente dieci anni più tardi, il 26 di aprile del 1986, un altro disastro vaporoso, un’altra evacuazione tardiva. Questa volta la nube era composta di materiali radioattivi fuoriusciti dal reattore di una centrale nucleare nella remota località di Cernobyl, ai confini tra Bielorussia ed Ucraina. Veniva di lontano ma giunse fino a noi. Avevo diciassette anni allora e, con la spavalderia della gioventù, assieme a un compagno di sbronze, la sfidammo addormentandoci ubriachi a Venezia sotto l’ala di bronzo del leone ai piedi del monumento a Manin proprio nella notte in cui i telegiornali ne annunciavano l’arrivo sulle nostre teste. La baldanza, l’incoscienza, non ci preservò, però, da una gran quantità di altre nubi, tutte più o meno maligne: gas di scarico, cortine fumogene, nubi di smog, nubi d’informazione e di disinformazione, vapori di benzina e vapori di nulla.
Siamo cresciuti così, nelle nostre città del benessere: sottoposti a un cielo gravato da miasmi, foriero di pestilenze vaporose, dove tutto è prodigio o funesto presagio. Proprio come nelle antiche città delle tragedie greche. Per la mia generazione, il privilegio di respirare liberi, a pieni polmoni, non è mai stato un diritto naturale, una gioia senza condizioni. Per noi, figli dell’estremo progresso, anche l’aria, soprattutto l’aria, è condizionata.
Eppure, guardando oggi le immagini di questa massa calda di gas formata da anidridi, idrogeni e vapori acquei, guardando i raggi del sole che, cosparsi di ceneri e aerosol, danno ai tramonti nordici colorazioni più intense, guardando dal satellite la scia marroncina stendersi sull’Europa, come sbavando da un vulcano islandese, guardando, soprattutto, la mappa del traffico aereo che si va cancellando da Nord a Sud, da Ovest a Est, immaginando questa nube boreale muoversi leggera a cinquemila metri d’altezza su cieli deserti, sorge in noi una chimera di quiete.
Certo, siamo consapevoli del grave danno economico, della crisi del traffico aereo, dei gravi rischi d’intossicazione, eppure si fa strada, irresistibile, una fantasia di azzeramento e rinascita. Fantastichiamo che, per un istante, lasciandoci tutti a terra, liberando i cieli sopra le nostre teste, la nube possa riportarci quel senso perduto della vita come qualcosa che può ricominciare da zero.
È la cosa di cui avremmo, forse, più bisogno. Una nube che faccia piazza pulita, dopo tante, troppe nubi che hanno ammorbato le nostre esistenze di asmatici immaginari.
(18 aprile 2010)








IL VULCANO D'ISLANDA
Un dio dispotico e la fragilità umana
di Francesco Cassano
 
 
Ieri il manifesto parlando della nuvola che si aggira minacciosa per l'Europa, come accadeva ad uno spettro di centocinquanta anni fa, titolava: «Apriti cielo». Diciamo subito che non c'è da preoccuparsi, il cielo si richiuderà, e tutti noi torneremo alle nostre abitudini. I giornali sussulteranno per altre notizie e l'annuncio dell'apocalisse prima passerà verso le pagine interne poi scomparirà. Riprenderanno i voli, ognuno di noi tornerà al suo stile di vita, ai suoi appuntamenti, ai suoi progetti. Eppure per alcuni giorni il vulcano islandese ci ha buttato in faccia la bruta verità, il fatto che viviamo su un piccolo pianeta periferico la cui formazione precede da millenni la formazione della vita e delle civiltà umane.
Ma questa verità sulla nostra reale condizione è, come si sa, insostenibile, come ci ha insegnato a suo tempo Giacomo Leopardi, che non a caso intitolò una delle sue Operette morali “Dialogo della Natura e di un Islandese”. In quel dialogo la Natura, rispondendo alle rimostranze dell'uomo, candidamente affermava: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra?»
In effetti l'uomo ha cercato a lungo di rimuovere o di proteggersi da questa «verità». La prima forma di protezione l'ha trovata nelle religioni, che a lungo gli hanno rinviato l'immagine che egli fosse prediletto da Dio e da lui posto al centro dell'Universo, oggetto filiale della sua cura e del suo controllo. Poi quando, con l'avvento della modernità, questi grandi racconti hanno incominciato a perdere la loro presa, una nuova forma del tutto moderna di protezione è stata offerta dall'incessante sviluppo della tecnica. Ciò che prima discendeva dalla benevolenza di un dio, adesso dipende dall'orgoglio umano, dalle scoperte e dalle applicazioni che nascono dal progresso. Attraverso la forza che deriva dalla sua intelligenza, l'uomo è riuscito a subordinare la natura ai suoi bisogni, a farne un momento del suo metabolismo (Marx) oppure un fondo di risorse a sua disposizione (Heidegger).

In altre parole è riuscito a diventare il padrone assoluto di un pianeta sul quale egli in realtà è solo un ospite di passaggio, ha mutato la propria condizione originaria, rovesciando la sua condizione di figlio di straordinarie combinazioni di processi naturali in padrone indiscutibile di essi. Intendiamoci: nessuno vuole sminuire il valore straordinario della tecnica, la lunga fila di vantaggi che essa è riuscita ad assicurare all'uomo, l'enorme miglioramento delle condizioni di vita che gli ha assicurato. E nessuno può mettere in correlazione diretta l'eruzione del vulcano con gli sviluppi della tecnologia. Del resto, si sa, i vulcani, con le loro eruzioni, hanno seminato morti e disastri anche quando l'uomo non aveva ancora dissestato il ciclo naturale.
La catastrofe che viene dai cieli islandesi è cosa diversa da quegli avvelenamenti del mare che sono stati prodotti dalla rottura di una piattaforma petrolifera o dal rovesciamento del carico di una nave. E la diversità del messaggio che arriva da questa eruzione non va trascurata. Con i loro improvvisi sommovimenti, i vulcani, come anche molti terremoti, sembrano solo ripetere a voce altissima agli uomini: «Voi non siete i padroni, ricordatevi che la natura è straordinariamente più forte di voi. Non illudetevi con sogni di potenza, voi umani rimanete sempre e soltanto una piccola forma di vita fragile e presuntuosa» in un universo che ignora la vostra esistenza e probabilmente, come dice sempre Leopardi, tornerà a chiudersi dopo il vostro passaggio, quando «un silenzio nuovo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso».
Ma si dirà: che cosa c'entra tutto questo con la politica? C'entra eccome, e ci si consenta di affidarci anche in conclusione all'autore che abbiamo più volte citato. Ogni vulcano è un dio dispotico e capriccioso, che ci rinvia, proprio come il Vesuvio di Leopardi, l'immagine di una natura matrigna e della nostra fragilità. Ma questa contrapposizione tra la nostra condizione e una natura che è indifferente ad essa, ci indica anche una prospettiva. L'unica risposta seria alla scoperta della nostra fragilità sarebbe quella di federarsi in «social catena», superando le divisioni e le contrapposizioni che hanno attraversato ed attraversano la storia. Il genere umano dovrebbe ritrovare, sotto la spinta di questa minaccia, la percezione del proprio bene comune, il comunismo necessario.
Ma non temano gli avversari del comunismo: tutto sta tornando alla normalità, ognuno di noi potrà abbandonare le riflessioni scomode e tornare al proprio progetto privato, prenotare voli, accorciare le distanze, riempire le agende, consumare in mille modi il pianeta, adagiarsi sulla confortante convinzione che la natura è sempre sotto il nostro controllo. Potremo tutti voltare la testa dall'altra parte, lasciare all'Islanda i suoi vulcani, rimuovendo disinvoltamente la circostanza che tutti stiamo edificando le nostre case proprio sulle falde di uno di essi.

(21 aprile 2010)







 


2 commenti:


  1. Non ti preoccupare, Frank. Ti auguro che tutto si risolva per il meglio.
    Un abbraccio,
    Artemisia

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  2. Artemisia, grazie. Bel pensiero.
    Un abbraccio.

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