Quel buco nero è scavato nella coscienza civile di quegli italiani che non l’hanno ancora perduta, mantenendola integra, scevra da quei revisionismi che vanno tanto di moda. Un buco nero profondissimo, senza fondo. Perché poi è improbabile scorgerne il fondo dopo 40 anni, tanti ne sono passati da quel pomeriggio milanese del 12 dicembre 1969. Ore 16,37. Esterno giorno: Piazza Fontana. Interno giorno: Banca Nazionale dell’Agricoltura. Luoghi simbolo della memoria collettiva per antonomasia.
Ne avevo già parlato qui e, più recentemente, qui.
Generano angoscia, già trasmessa dalla foto d’apertura, i filmati dei telegiornali di quel giorno. Due brani, dal Tg della sera e quello della notte, che ho collocato uno dopo l’altro, anche per un confronto tra i vari modi di raccontare un fatto così devastante, rispetto ad oggi. A seguire un video che riassume ciò che accadde da Piazza Fontana in poi, anche solo per capire come mai da quel giorno nulla fu più come prima. Quindi un giovane ma già sciagurato Bruno Vespa, allora rampante cronista e i link a tre servizi che il Tg3 di sabato
A seguire la prima pagina de “Il Giorno”, glorioso e rivoluzionario quotidiano milanese dell’epoca con l’editoriale del direttore Italo Pietra e, infine, la rievocazione che “il Fatto Quotidiano” ha affidato a un giornalista di lungo corso come Maurizio Chierici.
Personalmente vedendo e rivedendo i luoghi sventrati dalla bomba fascista, mai dimenticarne la matrice sia chiaro, come il salone, le vetrate infrante, le scrivanie ricoperte di detriti, non ho potuto fare a meno di notare quelle grosse calcolatrici che adoperavano gli impiegati. Così il bianco e nero, ormai sempre più ingrigito, unito a quegli oggetti ormai di antiquariato, mi hanno fatto concludere che, dopo 40 anni, ci saremo pure evoluti sul piano tecnologico, ma sul piano umano stiamo regredendo in maniera netta e impressionante. Dopo 4 decenni ci ritroviamo ancora ad urlare, con Pasolini, che sappiamo, certo sappiamo nomi e fatti, ma non abbiamo le prove e nemmeno indizi, inghiottiti il 12 dicembre 1969 da quel buco nero all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, Piazza Fontana, Milano.
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-0bae165e-0045-4ff0-83db-363bc7417d01-tg3.html?p=0 Tg3 ore 19,00: servizio di Santo Della Volpe
NON SI ILLUDANO
di ITALO PIETRA
13 dicembre 1969
Ci sono tante maniere di far politica: e, fra le tante, c’è anche quella delle bombe.
È una scelta dolorosa, ma può risultare necessaria nel quadro delle grandi lotte di liberazione, quando il tallone chiodato del nazismo pesa su tutti i cuori o quando le uniformi tigrate dei paracadutisti difendono la bestia del colonialismo nel Terzo Mondo. L’uomo non è nato per fare la guerra, per uccidere, ma allora, in quei casi estremi, la guerra è un diritto e un dovere, e anche l’attentato, l’agguato, la bomba possono diventare buona guerra.
La vita italiana è evidentemente lontanissima da quei climi e da quelle necessità. C’è una crisi politica, che, al di sopra e al di fuori delle responsabilità e dei limiti dei politici, ha radici vecchie e nuove in campi diversi, dall’impetuoso sviluppo al cumulo dei problemi insoluti, dalla tradizionale indifferenza dell’uomo della strada al peso eccessivo della destra economica; ma non sembra il caso di dare ragione alle Cassandre, ai profeti di sciagure: e tanto meno ai paladini della violenza.
C’è «l’autunno caldo»; c’è l’ondata degli scioperi (che a volte riflettono chiusi interessi di settore) e c’è la fuga dei capitali (che riflette la gelida passione del particulare alla maniera di Guicciardini); c’è il problema quotidiano della scuola e l’amara lezione quotidiana degli ospedali insufficienti: ma le cose si mettono in moto; le ore più fosche sembrano passate. L’accordo con l’industria metalmeccanica a partecipazione statale assegna, in base ai maggiori oneri per le aziende, avanzati obiettivi in tema di produttività e severi compiti di controllo e di rinnovamento nel settore degli oneri sociali, che pesano tanto e rendono poco; ma è un grande passo avanti, una chiara prova delle conquiste, delle responsabilità e degli impegni che sono aperti al mondo del lavoro.
Ed ecco la sera di Milano. Non è ancora finita l’eco delle raffiche di Palermo, che sono il vigliacco biglietto da visita della mafia, quando scoppia una bomba nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura. L’aria è ancora lacerata dalle sirene delle autolettighe cariche di feriti quando arriva la notizia delle bombe di Roma.
Chi è stato? A chi assegnare la responsabilità? Non ci sono, in questo momento, elementi per rispondere con sicurezza. C’è un’estrema destra che fa largo consumo di slogan cinquantenni in lode della giovinezza, dell’azione, della violenza. E c’è il cosiddetto neoanarchismo che, nel quadro delle passioni spesso proprie delle giovani generazioni in giro per il mondo, trova qua e là terreno proprio in un Paese che nelle lotte del lavoro si è ispirato troppo spesso a Bakunin piuttosto che a Marx, al massimalismo piuttosto che al riformismo.
A chi giova? Basta dare un’occhiata in giro per l’Europa per vedere dove portano le strade: quelle della destra portano indietro, ai «colonnelli», degnamente affiancati da Onassis e degnissimamente fuori della porta del Consiglio d’Europa. (Le strade dello stalinismo, soffocando la democrazia parlamentare nel 1948, hanno portato Praga all’estate del 1968 e alla disperazione di quest’anno). Quelle della democrazia e delle riforme portano avanti e lontano, come dimostra la lezione di Brandt che può imprimere una moderna svolta alla vita delle due Germanie e delle due Europe. Anche l’Italia può fare cose di quella portata; ha la carica politica per operare quel profondo rinnovamento strutturale in climi di libertà che risponde alle speranze della Resistenza e alla Costituzione.
Così, le bombe possono rispondere al calcolo dell’estrema destra, per fermare il cammino della democrazia, o alla passione dissennata dell’estrema sinistra, secondo la formula del tanto peggio tanto meglio e le condanne della democrazia parlamentare proprie dell’estremismo infantile.
Bisogna tenere i nervi a posto. La democrazia italiana è giovane, è gracile, è discutibilissima: ma è ben più forte, più moderna, più popolare dei suoi nemici che fanno la politica ignobile delle bombe. Non s’illudano, quelli del terrore: non passeranno. E non si illudano le forze della destra economica e della conservazione, use a utilizzare lo spauracchio del disordine per trattare la politica da vassalla e per frenare le riforme. La democrazia cammina, e le riforme, necessarie alla sua vita e al suo consolidamento, passeranno.
I funerali delle vittime
di Maurizio Chierici
Il ricordo dell’attentato, le prime indagini, il clima di sospetto e subito nascono i depistaggi
Sette chili di tritolo in una capsula d’alluminio. Non a orologeria. Un impiegato ha visto un filo di fumo uscire da sotto il tavolo. Pensa a un incendio, ma senza preoccuparsi: solo un filo. Gira la testa per chiamare il commesso quando un soffio d’aria calda lo schiaccia alla parete. Ferito ma salvo. Una miccia. Ne hanno trovato un mozzicone. A chi ha nascosto la bomba sono bastati 40, forse 50 secondi per scappare. Correndo”. Le nostre voci chiedono: “Da solo?”. “Solo, ma con alle spalle un gruppo bene organizzato. La perfezione della bomba lo dimostra”. Di quale colore politico? Il questore sospira prima di sillabare la risposta. Poliziotto di lunga esperienza, sa come sfumare le spiegazioni. Carriera che comincia a ventotto anni, carcere-confino per antifascisti. Quando nel ’68 lo promuovono a Milano, i ragazzi della Statale ne ricordano il passato di “zelante funzionario della polizia di Mussolini”. Induriva regolamenti già terribili. Il prigioniero Sandro Pertini, malato di polmoni, scrive una lettera al ministero, e Guida fa sapere a Roma: “Non è vittima della situazione come vorrebbe far credere”. Insomma, piagnone che imbroglia.
ANARCHICI, DIREI Insistiamo: “Di quale colore, signor questore?”. “Anarchici, direi: stiamo indagando”. Il 25 aprile un attentato aveva sconvolto
Milano senza nebbia quel pomeriggio del 12 dicembre. I colori del Natale illuminano le vetrine. Rosso il colore di via Montenapoleone: tovaglie, festoni, rose di carta. Al caffè della Rai, corso Sempione, beviamo qualcosa di caldo. Biagi prepara “Terza B facciamo l’appello”. Arriva Mike Bongiorno, sta montando “Rischiatutto”, novità 1970. Parliamo a voce alta per le sirene che corrono in strada. Bongiorno guarda verso il corridoio degli studi e prova a scherzare: “Forse registrano un poliziesco”. Ma le sirene continuano; telefono a Il Giorno. “Corri alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. È scoppiato qualcosa. Forse una caldaia. Forse dei morti”. Ma i taxi dove sono? Spariti. Al volo sul tram che non arriva al Duomo: l’ingorgo taglia le strade. Città paralizzata. Un silenzio irreale avvolge Piazza Fontana. La folla aumenta a ogni minuto che passa, tutti parlano sottovoce come in chiesa. Tacciono le nenie degli zampognari: guardano i lampi delle autolettighe con le cornamuse strette al petto. Dalla farmacia vien fuori chi si è fatto medicare. Portano a braccia un giovane carabiniere svenuto nel salone della banca: l’angoscia per i corpi coperti di polvere e di sangue. Il fotografo Massimo Turchetti riemerge dalla hall affumicata: corre al Giorno con la foto simbolo della tragedia. Quel buco nero dall’alto e attorno le rovine.
Nel 1969 non si trasmettevano i giornali in tipografie lontane. Correvano nei camion della notte. L’edizione per Roma chiudeva alle 10 di sera. Nella piccola stanza del direttore Italo Pietra ognuno racconta cos’ha visto: testimonianze parziali che si somigliano. Una domanda tormenta Angelo Rozzoni, vice di Pietra, maniche di camicia rimboccate, matita in mano: spiegare ai lettori chi è stato e perché. “Non è facile…”. Giorgio Bocca mastica la risposta: un’infame provocazione. Dopo processi inutili, imputati e uomini anguilla sgravati per sempre dalla Cassazione, il titolo soffiato da Bocca nella prima pagina del giornale sembra scritto stamattina per ricordare i 40 anni della tragedia mai risolta.
Nei giorni che vengono dopo l’ufficialità conferma l’ipotesi di Guida. Ancora una volta attorno alla sua scrivania ascoltiamo come è morto Pinelli, anarchico volato dalla finestra della questura: suicida per la disperazione di aver fallito. Parla il dottor Allegra e il questore approva piegando la testa.
Neofascisti e identikit
Ma è quel “correre” dell’uomo che ha messo la bomba il dettaglio stonato che non riesco a spiegare. Non va d’accordo col Valpreda dalle gambe molli: ballava e aveva smesso di ballare, la malattia glielo impediva. Pertini, presidente della Camera piange ai funerali. Rifiuta la mano tesa dal questore. Poi la strana telefonata. Gian Luigi Fappanni, 25 anni, neofascista avventuroso, biondo col ciuffo, mi fa sapere, e fa sapere a Gian Luigi Melega di Panorama, di avere segreti dei quali si vuol liberare. Perché proprio noi? Con qualche spillo avevamo raccontato i dubbi sulle prime indagini, e gli amici delle bande nere lo avevano arruolato per passare notizie che incolpassero i protagonisti della destra. Un notaio registra la trappola. Appena i giornali pubblicano i falsi segreti, la beffa della smentita. Si erano presi gioco così di Camilla Cederna: finti campi d’addestramento di Ordine Nuovo in Sardegna. Ci chiediamo : quale ansia li spingeva ad allontanare i sospetti da una destra ancora non coinvolta mentre il “colpevole” Valpreda annaspa in prigione? Controlliamo i racconti di Fappanni. Un giovane italoamericano era in contatto con i gruppi neri di Padova: Giovanni Ventura, Franco Freda. Fappanni e gli altri lo incontravano nella bella casa di Milano alle spalle del Duomo, finestra affacciata su Piazza Fontana. Per due volte li ha portati in gita alla base Nato di Verona. Fappanni ricorda divise importanti e signori in borghese che abbracciavano il loro accompagnatore. Il quale esibiva nelle stanze milanesi ritratti di Hitler e Mussolini. Dovevamo parlargli per capire chi è. Il portiere fa sapere: ha lasciato la casa il 10 dicembre, due giorni prima della bomba. Dov’è appeso il ritratto immenso di Mussolini? “Di fronte alla porta d’ingresso…”. Fappanni sembra preciso. Il portiere ci accompagna. Mobili e quadri spariti, ma in quella Milano fuligginosa resta l’ombra di un quadro nel posto del duce adorato. Non basta. Vogliamo guardare in faccia i committenti. Appuntamento al bar del metrò di Porta Venezia. Piccolo caffè. Due ore prima si riempie di passeggeri senza fretta: autisti, fattorini, cronisti del Giorno. Mauro Galligani (grande fotografo rapito in Cecenia) fissa l’immagine dei signori che salutano Fappanni. Se ne vanno soddisfatti. La ricompensa è un posto alla Citroën di Parigi e soldi per il viaggio e dove dormire. Continuiamo a non fidarci. Fappanni li richiama dalla cabina dei dimafonisti del Giorno. Registrano ogni parola. È proprio vero. Ma chi sono i trappolanti? Angelo Del Boca, redattore capo del giornale, sfoglia le immagini di Galligani: “Piero Cappello, redattore del Borghese…”, torinese come lui. Patrizio Fusar, cronista di nera, riconosce due uomini di Tom Ponzi. Finalmente scriviamo. Ma Il Giorno battagliero e progressista continua a non fidarsi. Di ora in ora la pagina scivola dai piani nobili del giornale all’ultima pagina di cronaca raggelata da un cappello di poche righe: “Fra le tante voci che ogni giorno indicano piste nuove sulle bombe di Piazza Fontana, per dovere di informazione ne raccogliamo una che ipotizza eventuali responsabilità della destra”. Non appare nell’edizione nazionale, inchiesta rimpicciolita nell’edizione di Milano. Fappanni sparisce. Sei mesi dopo la notizia: ha cercato di morire. Sei mesi dopo Freda, Ventura, i fascisti di Padova e Rauti e Zorzi e Ordine Nuovo diventano i protagonisti di chi scava nei bunker del nuovo fascismo alla ricerca della verità mentre servizi più o meno segreti stanno deviando la verità su trame immaginarie. Se l’avessimo capito prima, chissà.
(Sabato 12 dicembre 2009)
e... chissà davvero... ma quanti anni avrà quel caz di vespa?
RispondiEliminaphederpher, tanti, accresciuti dal volume di cazzate che spara, appunto, da 40 anni. Il filmato è inequivocabile al proposito.
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