C’era ieri a Roma, credo in Italia, una diffusa adesione al tentativo di linciaggio dei criminali arrestati per lo stupro di Guidonia: le immagini le avrete viste in tv. La folla fuori dal commissariato gridava «uccideteli, dateli al padre della ragazza, a morte le bestie». In autobus, nella coda al supermercato, fuori da scuola ho sentito le stesse parole. Come una rivolta all’unisono, come se un odio compresso avesse finalmente trovato lo sfogo. Contro cosa? Le bestie, appunto. Gli stranieri. Sono romeni, no? Sono romeni che abitano dei condomini delle nostre città, dunque il pericolo sul pianerottolo di casa. Uccideteli. Certo, è difficile esercitare la ragione dentro una così grande grancassa emotiva. E poi certo: c’è stata una violenza tremenda, uno di loro ha confessato, li hanno presi perché parlavano con il telefono della vittima. Un crimine orrendo: nessun dubbio.
L’entità della reazione collettiva mi sembra però un fatto in sé: il malessere viene da prima, non c’entra, parla d’altro. Allora proviamo a mettere in fila i tasselli della storia. Una banda di criminali di nazionalità romena - dunque cittadini europei, non clandestini né extracomunitari - aggredisce e brutalizza due giovani italiani. La banda vive a Guidonia, in appartamento: ciascuno il suo. Ruba, traffica, violenta. Usano il cellulare di una delle vittime. Grazie alle intercettazioni chi indaga capisce che stanno per fuggire. Li prendono. Assicurati alla giustizia. Molto bene. Ogni giorno in Italia giovani donne vengono aggredite e uccise dentro e fuori dalle loro case. Ogni giorno criminali di tutte le nazionalità si organizzano per commettere violenza. Lo fanno per telefono, spesso. Il governo sta per varare nuovi limiti all’uso delle intercettazioni: la rivolta di popolo di ieri vuol forse dire qualcosa su questo? Le donne sono le vittime predilette. L’indignazione corale di ieri sarà forse presa in considerazione per varare una legge che da anni giace nelle anticamere dell’aula, tre volte proposta e tre volte accantonata, che permette alle donne minacciate di avere tutela dagli aguzzini? Forse, non è detto.
Anche la legge contro la violenza sessuale sarebbe efficace se solo si mettessero in atto quei tre o quattro provvedimenti che servono: non lo si è fatto finora. Quattro donne sono state violentate ieri. Sei milioni e settecentomila hanno subito violenza nel 2007. Quasi sette milioni, non una. Non abbiamo visto però sette milioni di volte quelle stesse immagini in tv, quelle del linciaggio. È vero, quasi nessuna violenza è stata denunciata: rilevata, sì, ma non denunciata. Sono aggressioni e morti domestiche. È appena uscito un libro che racconta per immagini la violenza del Circeo. Erano italiani, quelli, era un’altra storia, certo. Ma cosa è cambiato da allora, nella testa degli uomini e nelle leggi che li governano? «So’ omini», questo diceva una vecchia ieri in tv. Poi che siano romeni, slavi, criminali comuni o mafiosi, bande di nazisti o balordi di periferia, mariti offesi dal rifiuto o sconosciuti non cambia molto per chi è violentato e ucciso. Servono regole, cultura, buone leggi, tutela di chi non può usare la forza. Poi anche le intercettazioni, certo. E le sanzioni dure e durissime. Ma non una volta sola. Sempre.
l’Unità (28 gennaio 2009)
In principio fu il Circeo
di Renato Pallavicini
Non fu il primo ma il «massacro del Circeo» è un po’ il padre di tutti gli stupri. Almeno per il punto di non ritorno che segnò nella coscienza collettiva, non solo femminile, del nostro Paese. Il 29 settembre del 1975 Angelo Izzo e Gianni Guido invitano ad una festa in una villa del Circeo due ragazze conosciute poche ore prima,Donatella Colasanti e Rosaria Lopez. Ma, di festa, nella villa non c’è nemmeno l’ombra e, per oltre 24 ore, in quelle stanze sarà l’inferno. Izzo e Guido, raggiunti dall’amico Andrea Ghira, umilieranno, picchieranno, sevizieranno, violenteranno le due ragazze a più riprese e, infine, le massacreranno fino alla morte. Così credono i tre che nascondono i corpi delle ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127 e la parcheggiano in una via di Roma per andarsi a mangiare una pizza. Nel corso della notte, i lamenti e le grida provenienti dal bagaglio dell’auto, richiamano l’attenzione e, di lìa poco, la macabra scoperta di Donatella Colasanti pesta e sanguinante ma viva (si salvò proprio perché si finse morta); e, sotto di lei, avvolto in un sacco di plastica, del corpo di Rosaria Lopez. Guido e Izzo vengono presto arrestati, mentre Ghira riuscirà a scappare e a rendersi latitante. Il processo che seguirà e le vicende che lo hanno accompagnato negli anni (dalle ripetute fughe e incarcerazioni dei protagonisti - durante una di queste, Izzo ucciderà altre due donne - alla morte di Ghira in Spagna, alla scomparsa prematura di Donatella Colasanti) sono ormai storia. Non purtroppo gli stupri, drammatica e ripetuta cronaca anche di questi giorni recenti. Il massacro del Circeo (Becco Giallo, pp. 160, euro 15) versione a fumetti di Leonardo Valenti e Fabiano Ambu è un efficace «memento» di quell’orrenda vicenda: una fosca tragedia in cui le maschere luciferine dei protagonisti hanno poco a che fare con il mito. In quella villa non ci fu nessuna catarsi finale, piuttosto il precipitare nell’abisso profeticamente mostrato da Pasolini nel suo Salòo le 120 giornate di Sodoma.
l’Unità (29 gennaio 2009)
Salute: ginecologa, contro stupri educazione ai sentimenti in scuole elementari
Milano, 29 gen. (Adnkronos Salute) - "Non militari al fianco di ogni donna italiana, ma lezioni di educazione ai sentimenti fin dalle scuole elementari". Alessandra Kustermann, ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano e coordinatrice del centro Soccorso violenza sessuale (Svs), ne è convinta: "Non sarà qualche militare in più a risolvere il problema degli stupri", dice oggi durante un incontro nel capoluogo lombardo, commentando l'ipotesi di aumentare il numero di soldati dedicati alla sicurezza, idea presa in considerazione dopo gli ultimi episodi di violenza sulle donne.
"Forse iniziare l'educazione ai sentimenti e insegnare le differenze di genere già nelle scuole elementari ridurrebbe il numero di stupri. E' una strada che si dovrebbe sperimentare per valutarne l'efficacia", è l'invito. Certo l'arma della prevenzione, secondo l'esperta, è più efficace dei soldati. Kustermann ipotizza un percorso graduale di presa di coscienza della sessualità e di tutti i temi ad essa connessi. Si partirebbe con elementi di base per i più piccoli, per poi approfondire i temi del sesso con l'avanzare dell'età degli studenti. Non bisogna aver paura dell'educazione sessuale, spiega. "Al contrario, è stato dimostrato che i giovani che ne usufruiscono ritardano il primo approccio con il sesso. Ed evitano i comportamenti a rischio".
Secondo la specialista la violenza può essere prevenuta, "se si educano i ragazzi al rispetto dell'altro sesso. Fin da piccoli". In Italia, invece, "poco si è fatto per arginare il numero di gravidanze indesiderate fra le minorenni, o per far arrivare alle adolescenti le informazioni corrette in materia di sessualità. I servizi dedicati esistono, in alcune aree d'Italia sono più efficienti che in altre, ma l'accesso spontaneo da parte dei giovani resta ancora relativamente modesto", conclude Kustermann .
«Mi ricorderò di te alle prossime elezioni! » sibila il solito prepotente al bravo sceriffo in ogni film di cowboy. Così era il Far West. Anche nella legge italiana, però, sta per essere infilato un tarlo simile. Che rischia di divorare l’autonomia della Corte dei conti fino al punto che il governo (il controllato) si sceglierà di fatto il controllore, cioè chi deve esaminare come sonoLeggi ancora...
Molto interessante questo pezzo di Gian Antonio Stella pubblicato sul "Corriere della Sera" di oggi, testimonianza della deriva anche istituzionale verso cui siamo avviati.
Questo Paese, in cui sono nato e dove abito, assomiglia sempre più al Titanic che stava viaggiando ineluttabilmente verso l'iceberg, mentre gli inconsapevoli orchestrali allietavano i passeggeri.
Qui il capoclan, nonchè capocomico è presente, certi tiggì appaiono surreali, gli articoli più letti on line sono quelli in cui si rivolta la spazzatura. I cervelli pensanti sono merce rara, tutto soffocato da un chiacchiericcio insopportabile e letale. Riusciremo a salvarci?
Il sole non aveva ancora deciso se illuminare o meno la giornata, quando sono uscito questa mattina. Un veloce caffè nero bollente bevuto in piedi, ma avevo fretta. Nuvole basse color pioggia sporca all’orizzonte, la nebbia in dissolvenza sembrava far galleggiare per aria case e terreni. Con l’amaro aroma in bocca ero sceso per strada, stretto nella pesante giacca di pelle, con la pasmina che mi accarezzava il collo e lo scaldava, ricreando il tepore del piumone che neppure mezz’ora prima avevo buttato per aria.
Camminavo con le mani in tasca, lontano dai quotidiani sentieri, affondato in pensieri gravidi e opprimenti, stretto da una stordente malinconia. Dopo aver allungato il passo, adesso lo accorciavo, perché la destinazione finale si stava avvicinando. Estraevo dalla tasca interna due fogli. Rileggevo il primo: “Dovendosi procedere alla estumulazione e riduzione della salma di… (mio nonna) deceduta nell’anno 1964, tumulata presso il cimitero di … edificio M, piano secondo, fila 3, n° 30 da trasferirsi sempre nel cimitero di …, edificio M, piano secondo, fila 3, n° 30 si chiede accertamento sanitario. Il signor …. dovrà indicare al medico presente, in caso di impossibilità a procedere alla riduzione, la destinazione della salma (da rimettere nel medesimo loculo oppure procedere alla inumazione sempre nel cimitero di ….).
Adesso il secondo, mentre percorrevo il lungo viale. “Dovendosi procedere allo spostamento della salma di … (mio padre), deceduto nell’anno 2007, tumulato nel cimitero di …, edificio A, piano terra, fila 16, numero 21, si chiede accertamento sanitario”.
Gli uomini in tuta bianca si intravedevano nella caligine che si andava diradando. I loro movimenti erano agili e sicuri. Alcune auto parcheggiate nei vialetti laterali tradivano la presenza di altre persone convocate sempre nel medesimo giorno, per il pietoso rito. Un batter di martello sul marmo indicava la direzione. Un primo loculo era già aperto, la pietra collocata a terra, appoggiata ad una colonna. Rivedevo la bara che conteneva mio padre, quasi a portata di mano. Mi defilavo, per raggiungere il luogo dove era stata sepolta mia nonna.
Dopo quarantacinque anni occorreva verificare se il corpo si fosse disfatto. Un telo di pesante cellophane era stato disteso sul pavimento. Con i necrofori, già avari di parole, bastava un breve saluto. E poi ciascuno ad inseguire i propri pensieri, col desiderio mio di essere già altrove. Arrivava il medico legale, si poteva cominciare.
La bara, ormai annerita e marcia, veniva adagiata a terra, qualche pezzo di legno si staccava, finendo nel piano sottostante. Il coperchio veniva sollevato con poco sforzo, la lastra metallica si apriva come fosse stata una scatola di sardine. Ormai sfocati e residui i ricordi di mia nonna e adesso sotto i miei occhi ecco ciò che restava. Il cranio ricoperto da un velo nero, gli abiti mescolati con la polvere di legno, le scarpe intatte. Una ricognizione sui resti mortali confermava lo stato di mummificazione. Impossibile procedere alla riduzione, inutile la cassetta metallica. Si appoggiava sulla bara il coperchio, avvolgendo tutto con la copertura plastificata e si trasportava ogni cosa nel terreno sul retro. Sarebbe stata collocata sotto terra per altri cinque anni.
Il medico spiegava che l’esposizione prevalente del loculo al sole aveva disidratato completamente il corpo, impedendo nel contempo la completa decomposizione. All’altezza del bacino le ossa erano penetrate nei muscoli, intrecciandosi poi con il vestito nero con cui venne ricoperta all’epoca. Adesso mio padre aveva pronta la nuova casa.
Ora gli operai si spostavano, dirigendosi verso quel loculo aperto già da un giorno. La cassa veniva estratta a fatica, appesantita. Era avvenuta venti mesi fa la sepoltura. Che strano effetto rivedere tutto adesso.
Ricordo quel pomeriggio, dello stesso giorno della morte, quando ci eravamo recati (mai andar da soli) dall’impresario di pompe funebri per scegliere. Avevamo esaminato il catalogo e poi passato in rassegna le bare, ascoltando i consigli su quale fosse quella più adatta. “Questa va molto ultimamente”, come fosse stata un capo dell’ultima collezione autunno-inverno. Ne avevamo scelta una, di legno chiaro, bella, ammesso che una cassa da morto possa meritarsi questo appellativo. E poi, quasi orgogliosi della preferenza, ci eravamo dilungati, con amici e parenti, sui requisiti.
Si tratta dello stordimento che segue una grave disgrazia, sono gli argomenti che tengono banco, quasi venisse già operata una rimozione. In realtà si agisce meccanicamente.
Adesso, mentre quella bara, che aveva quasi richiesto un consulto di famiglia, veniva nuovamente trasportata a spalla per l’ultimo definitivo viaggio, notavo come fosse appassita, spento il colore, annerita in parte sul retro. Il coperchio, quello che aveva imposto un’altra sofferta e paradossale selezione, stava rovinandosi in più parti.
Senza alcun contorno floreale, assenza di persone e di rumori di fondo, quel piccolo corteo sprigionava una tristezza infinita. Eppure si trattava di un semplice trasferimento di salma, percorso anche breve. Spogliato di ogni accessorio, ridotto all’essenzialità necessaria, il rito si consumava rapidamente e questa volta i mattoni, che andavano a chiudere la tomba, sarebbero stati per sempre.
Un dolore che si riapre, incidendo la fresca cicatrice, produce un male nuovo, diverso eppur sempre lacerante. Ma era anche la conclusione di venti giorni di tensione, da quando cioè avevo ricevuto la convocazione.
Mentre imboccavo la strada per l’uscita, passavo accanto al loculo che aveva ospitato mio padre, adesso pronto ad inghiottire una “preda” che magari, successivamente, seguirà lo stesso percorso. A metà del viale gli uomini in tuta bianca stavano continuando il loro lavoro, inginocchiati adesso accanto ad una bara minuscola da cui stavano estraendo un batuffolo di lana. Era una coperta deposta in una cassettina. Resti mortali di un bambino che nacque nel novembre 1943 e morì sei mesi dopo. Una meteora che rende ancora più incomprensibile il senso della vita.
Qualche goccia di pioggia. Il sole oggi non si affaccerà.
La domenica della carta stampata è tradizionalmente dedicata agli editoriali delle firme illustri. Almeno così fanno “la Repubblica” e “La Stampa” che affidano alla tastiera (una volta si usava l’ormai obsoleta penna) di Eugenio Scalfari e Barbara Spinelli il compito di porre riflessioni nel giorno di festa. Mi pare opportuno citare gli articoli di entrambi. In particolare il pezzo, esemplare, di Barbara Spinelli me lo ha suggerito la cara Harmonia e devo convenire che è impeccabile. Anche l’ex direttore de “la Repubblica” ha scritto di Barack Obama, pur trattando di altri argomenti. Insomma una domenica iniziata nel segno dell’intelligenza che però si conclude con l’eco delle ennesime sciocchezze pronunciate in terra sarda da un capo di governo in perenne campagna elettorale. Ma in quale altro paese sarebbe tollerabile un simile comportamento? Quanto durerà questa nebbia che offusca le menti, tanto simile ad un colpo di Stato mediatico?
Gli Stati Uniti si aprono alla speranza, mentre da noi un mediocre guitto da avanspettacolo si concede battute da caserma, senza il minimo sospetto di apparire ridicolo, insulta quella degna persona che è Renato Soru e propala una bufala (su un presunto archivio) che servirà solo a deviare l’attenzione della cosiddetta “opinione pubblica”. E allora io me la prendo anche con tutti quegli sciagurati che lo hanno votato, nonché con l’informazione televisiva che è ormai stata infettata dal virus e si ritrova a far da megafono alle stupidaggini dell’omino B., tessera P2 n° 1816 e dei suoi compari.
Obama e la maestà della legge
BARBARA SPINELLI
Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive, che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità «non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi, piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazione limite (Grenzfall).
Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa alle esigenze del principe e all’accentramento del potere presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti; l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto (risalente al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione: queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.
Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto, perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione emergenziale-rivoluzionaria. È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».
«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente in stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di «tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione dei poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato Obama esige la restaurazione della rule of law: «Noi respingiamo come falsa la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».
È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo, ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate 2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla tortura, pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.
Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso: «Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato, cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio» che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino con combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq, furono scovati così.
Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio, aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense, che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è? Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione) evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui, dalle autocritiche americane. Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.
Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama. Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser letale, in democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li ha chiamati My fellow citizens.
La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti: anche la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando (inaspettatamente per i bambini) esplode.
La Stampa (25 gennaio 2009)
(…) non voglio esimermi da un cenno preliminare che riguarda le prime iniziative del nuovo presidente degli Stati Uniti.
Ha preso tempo fino a febbraio per presentare un piano anticrisi di 825 miliardi di dollari cui seguiranno - ha annunciato - altri stanziamenti con l'obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e un consistente sostegno dei redditi falcidiati dalla crisi. Nel frattempo ha marcato con provvedimenti immediati una profonda discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore.
In politica estera ha messo al primo posto in agenda il tema del Medio Oriente chiamando a raccolta i protagonisti: Israele, Palestinesi, Paesi Arabi, Iran. Ha teso la mano all'Iran. Ha ribadito la lotta al terrorismo e l'importanza del fronte afgano. Ha dato inizio alla procedura per il ritiro delle truppe dall'Iraq.
Fin dal primo giorno ha abolito la tortura praticata in molte carceri speciali gestite dalla Cia. In tema di diritti ha ripreso i finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali ricavate dagli embrioni ed ha riconosciuto alle donne la responsabilità primaria di decidere sul proprio aborto.
Barack Obama è profondamente religioso ma la sua fede non gli ha impedito di iniziare una politica dei diritti profondamente laica. L'uomo di fede si raccoglie spesso in preghiera nella sua chiesa, ma il presidente degli Stati Uniti tutela i diritti fondamentali come prescrive la Costituzione del suo Paese alla quale ha giurato fedeltà.
Ecco un esempio che ci viene da una grande democrazia e che ci auguriamo serva da punto di riferimento per tutti. (…)
La mattina del giorno di Natale, mentre la mia compagna era in tutt’altre faccende affaccendata, ritrovavo tra i cuscini, sul divano, il telecomando che lì poltriva. Premuto il pulsante di accensione mi mettevo a fare zapping, come nel più classico panorama domestico, quando restano nuvole di sonno che neppure un buon caffè (il suo caffè) è riuscito a dissolvere.
La tradizione esige che si inizi dal tasto 1 per poi continuare in progressione, finché la curiosità di vedere cosa viene trasmesso, in quelle ore così particolari, svanisce e ci si trastulla tra cartoni animati e babbi natali che spuntano da ogni film. Però, quella mattina del 25 dicembre, l’interesse scalzava la curiosità, il torpore scivolava via e l’ascolto diventava prepotente e prevalente.
Se era, infatti, scontato che tra i vari programmi ci fosse la visione della messa festiva, assai meno lo era imbattersi nella celebrazione del culto di Natale in onda dalla Chiesa Valdese di Milano. E lì mi fermavo, laddove curiosità e interesse si congiungevano.
Stava giusto iniziando il sermone intitolato: "Natale 2008 nei contrasti: il buio e la luce, la paura e la speranza, la miseria e lo splendore". Una predicazione che reputavo subito avvincente e stimolante, culturalmente alta e con citazioni di rilievo. Al punto che non solo continuavo a seguire, pur non essendo più credente, il rito religioso (tra l’altro assai suggestivo), ma andavo in seguito a cercare maggiori informazioni e, soprattutto, recuperavo il testo del pastore Gianni Genre che qui propongo.
(Luca, 2: 1-20)
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.
C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».
Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.
Come stai, sorella e fratello mio di Milano, in questo mattino di Natale…? Quali sensazioni ti abitano per aver deciso di entrare in questo tempio? Nella continua ricerca di Dio – che forse giunge inaspettata o è una consuetudine – hai deciso di dedicare un momento all’ascolto e alla lode… E tu, dove sei sorella mia, all’ascolto? Dove ti trovi, fratello, mentre le note di questi canti molto conosciuti ti raggiungono?
Ti posso e ti voglio immaginare sereno, circondato dai tuoi cari, forse distrattamente impegnato nei preparativi. Ma voglio anche e soprattutto pensare a te, che hai deciso di accendere la televisione per caso o per sentirti meno solo. O, ancora, perché, forse, sei immobilizzato in un letto d’ospedale o recluso in un carcere che ti toglie l’aria.
Voglio rivolgermi anche a te, che non sopporti il bailamme di questi giorni in cui tutti sembrano dovere essere necessariamente felici, e fiduciosi, mentre tu non ci riesci, lacerato come sei tra la nostalgia di qualcosa che è stato e l’incertezza per un domani che avverti precario. Per te, che vedi nubi oscure all’orizzonte, le atmosfere di questi giorni sembrano – comprendo la tua insofferenza – imposte ed artificiali. Non voglio quindi farti alcun augurio - che potresti legittimamente rinviare al mittente - e condivido la tua allergia alle atmosfere imposte e artificiali che però, nel racconto che abbiamo appena ascoltato, non ci sono affatto.
Rileggi il testo, prima di archiviarlo come una fiaba che oggi non vuoi riascoltare, coglierai anzitutto la semplicità assoluta con cui viene raccontato un avvenimento apparentemente del tutto irrilevante: la nascita di Gesù. Poche parole, poche frasi dell’evangelista Luca inquadrano nella storia e nel tempo un evento di cui nessuno (o quasi) si accorge. Non ci sono pensieri pii e parole di troppo.
Una coppia di poveracci è costretta dal potere di quel tempo ad affrontare un viaggio a piedi. La donna è incinta. Tutti devono essere censiti, tutti devono essere controllati, vessati da un sistema di drenaggio fiscale spaventoso. Ma non c’è posto per loro – e il bambino nasce in una stalla.
Tutta l’azione si svolge nel silenzio, come nel silenzio e nell’anonimato si svolge la larga maggioranza delle piccole o grandi tragedie del nostro tempo. Anche qui, nel nostro testo, non c’è proprio nessun miracolo da raccontare, nulla di spettacolare.
Anche i primi ad essere raggiunti dalla notizia buona della nascita di Gesù sono dei poveri diavoli qualunque: un gruppo di pastori - con il loro piccolo gregge - del tutto esclusi dalla società di quel tempo. Persone viste di malocchio - un po’ pezzenti e un po’ delinquenti - e per queste ragioni private dei loro diritti di cittadinanza e della loro dignità. Proprio come coloro che oggi, nei nostri paesi che si dicono cristiani, si vedono costretti in condizioni di sfruttamento, di diffidenza, di continua minaccia.
Ecco perchè, forse, sorella e fratello, molti amano ancora questo racconto antico, il suono amico e intimo di queste espressioni, tante volte udite; perché, a prescindere anche dal proprio riferimento di fede, si riconoscono in quei personaggi senza nome che ricevono l’annunzio dell’angelo di Natale.
Il grande scrittore russo Fedor Dostoévskij, nel suo libro “Memorie dalla casa dei morti”, scritto dopo aver scontato la sua pena in un campo di prigionia della Siberia, racconta del Natale dei prigionieri che vivono in un inferno in cui l’unico libro permesso è l’Evangelo. E’ uno spaccato di umanità cui è tolta ogni dignità, estirpata ogni speranza, ogni brandello di amor proprio, prima ancora che di amore per gli altri.
Eppure – ci viene raccontato - tutti si fermano, quel giorno: proprio tutti. Per quei reietti, credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, Natale è un’occasione “per mettersi in contatto con il mondo intero, per non sentirsi del tutto perduti (…)” A Natale anche quei miserabili diventano, come me e come te, in qualche modo, protagonisti. Simili ai pastori della notte di Betlemme, che – disorientati - si sentono raggiunti e coinvolti da quella storia. Quell’evento - nota bene - non trasforma magicamente la loro condizione di vita.
I pastori rimangono e rimarranno pastori, anche dopo Betlemme. Ma per un momento, come possiamo accettare di fare anche tu ed io, si mettono in marcia e vanno a vedere che cosa sia successo a Betlemme. Ricevono dagli angeli un annunzio incredibile (nel senso che non può essere creduto), poi ascoltano il loro canto celestiale (senza capirci granché) e dopo aver visto un povero neonato avvolto e messo in una mangiatoia - cioè un segno in sé del tutto insignificante - diventano a loro volta angeli che portano la notizia agli altri.
Già, sorella e fratello, perché “angelo”, in greco significa inviato. Quando gli angeli ritornano al loro cielo, gli inconsapevoli pastori diventano - loro - messaggeri di quel Cristo che nasce nelle pieghe, nei dettagli della storia. “Ev-angelizzano”, diventano angeli, cioè portatori di quella buona notizia che cambia i cuori e la storia. Sono – anche senza saperlo – angeli per coloro che incontrano, ai quali portano una “buona” parola che interpreta quel segno altrimenti indecifrabile.
In questo senso, non solo credo che tu abbia incontrato degli angeli, nella tua vita, ma credo che tu sia stato angelo per qualcuno. Sei stato raggiunto e ti viene chiesto di lasciarti anche oggi raggiungere da quella buona parola che a tua volta puoi portare agli altri. Ecco perché questa storia, al di là del suo sapore infantile e forse per te un poco retorico, è in realtà la TUA storia.
Certo, tu mi dirai, oggi la tua vita è segnata da grandi contraddizioni e forse da grande dolore, con momenti di buio e di travaglio che si alternano a momenti di luce e di pace. E mi puoi rispondere che talvolta non ce la fai più.
Ebbene sì, è vero, la vita è questo intreccio, a tratti faticoso o anche insopportabile di miseria e di splendore, di squallore e di fiducia, di paura e di pace. Dio lo sa e questo racconto te lo dice: alla triste insignificanza di una nascita che non fa notizia e non ha rilievo su alcun giornale fa eco la grandezza del canto celeste, dell’annunzio che la paura può adesso essere vinta. Proprio in questo contrasto Dio è venuto. E’ venuto ad assumere su di sé esattamente questa contraddizione che per te, a volte, è così pesante da sopportare.
Cristo nasce nella notte, sorella e fratello, e la notte è il tempo della paura. Oggi – e non solo in Italia – la paura viene ogni giorno alimentata nei nostri cuori; invitati alla paura, ci guardiamo intorno con crescente diffidenza: paura del domani per la crisi economica, paura degli altri e in particolare del diverso; paura anche di Dio, che spesso ci viene ancora presentato come un giudice impietoso, come una divinità mai soddisfatta.
“Non temere” ci viene invece detto a Natale. Il contrario della fede non è l’incredulità, non è quel dubbio che ti accompagna da sempre e ti parla ogni giorno della tua umanità; il contrario della fede è la paura. Nel momento in cui la paura è assunta, in cui il coraggio di esistere e di amare si afferma, la fede nasce.
Adesso è possibile tenere insieme miseria e splendore, in ogni singola esistenza, anche per te, amica e amico che sei all’ascolto. Perché Dio è con te; non contro di te, non accanto a te, non al di sopra di te. Ma “Emmanuele”, Dio con te.
Concludo. Un altro grande scrittore del secolo scorso, per 25 anni, ininterrottamente, ogni anno, mantenne l’abitudine di scrivere una lettera alla madre lontana in occasione del Natale. Rainer Maria Rilke, come pochi altri, conobbe, sperimentò, cantò con la sua poesia, quel contrasto fra miseria e splendore. Quasi sempre assediato dalla solitudine, ogni anno, alla vigilia di Natale, alle sei di sera, chiedeva alla madre lontana di raccogliersi con lui in un intenso momento di comunione e di fiducia. Mentre è a Tunisi, in Africa - dove nulla può evocargli i colori, gli odori, le atmosfere del Natale - scrive alla madre: “Questo è il Natale: avvertire dentro di sé, una volta l’anno, questa aspettativa, sentire che in fondo i nostri più grandi desideri, se solo apriamo loro il nostro cuore, non possono non essere esauditi. Non possono non essere esauditi!”
Rilke tenne vivo, anche negli anni più bui della sua vita, il coraggio che aveva ricevuto dal canto degli angeli. Non temere! Non avere paura di assumere il carattere meraviglioso, eppure faticosissimo della vita quotidiana.
A chi gli chiedeva – e forse anche tu ed io saremmo fra questi – come si potesse continuare a credere alle parole degli angeli davanti alle domande inquietanti della vita (intorno a salute e malattia, vita e morte, ingiustizia e dolore) rispose un giorno: “Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e… cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse a chiave e a libri scritti in una lingua straniera. Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse. Il punto è vivere ogni cosa. Vivi le domande ora. Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga, di vivere fino al lontano giorno in cui avrai la risposta.”
“Non temere” dunque, tu che – anche se non ti conosco - mi sei fratello e sorella nella fragilità e nella gioia, nella colpa e nel perdono, nella lotta e nella speranza. In attesa di quel giorno, in cui il senso del Natale apparirà in modo evidente e incontrovertibile nella tua vita, mettiti in marcia verso la mangiatoia di Betlemme. Anzi, proviamo a metterci in marcia insieme! Dio, il Dio che vuole accompagnarci e aiutarci proprio in virtù della sua debolezza, ti aspetta.
Sarà Natale quando Dio farà di te un angelo. E cioè quando ti sarà dato di trasmettere ad altri il segreto della mangiatoia di Betlemme. Amen.
Concittadini, oggi sono qui di fronte a voi con umiltà di fronte all'incarico, grato per la fiducia che avete accordato, memore dei sacrifici sostenuti dai nostri antenati. Ringrazio il presidente Bush per il suo servizio alla nostra nazione, come anche per la generosità e la cooperazione che ha dimostrato durante questa transizione.
Sono quarantaquattro gli americani che hanno giurato come presidenti. Le parole sono state pronunciate nel corso di maree montanti di prosperità e in acque tranquille di pace. Ancora, il giuramento è stato pronunciato sotto un cielo denso di nuvole e tempeste furiose. In questi momenti, l'America va avanti non semplicemente per il livello o per la visione di coloro che ricoprono l'alto ufficio, ma perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati, e alla verità dei nostri documenti fondanti. Così è stato. Così deve essere con questa generazione di americani.
Che siamo nel mezzo della crisi ora è ben compreso. La nostra nazione è in guerra, contro una rete di vasta portata di violenza e odio. La nostra economia è duramente indebolita, in conseguenza dell'avidità e dell'irresponsabilità di alcuni, ma anche del nostro fallimento collettivo nel compiere scelte dure e preparare la nazione a una nuova era. Case sono andate perdute; posti di lavoro tagliati, attività chiuse. La nostra sanità è troppo costosa, le nostre scuole trascurano troppi; e ogni giorno aggiunge un'ulteriore prova del fatto che i modi in cui usiamo l'energia rafforzano i nostri avversari e minacciano il nostro pianeta.
Questi sono indicatori di crisi, soggetto di dati e di statistiche. Meno misurabile ma non meno profondo è l'inaridire della fiducia nella nostra terra: la fastidiosa paura che il declino dell'America sia inevitabile, e che la prossima generazione debba ridurre le proprie mire. Oggi vi dico che le sfide che affrontiamo sono reali. Sono serie e sono molte. Non saranno vinte facilmente o in un breve lasso di tempo. Ma sappi questo, America: saranno vinte. In questo giorno, ci riuniamo perché abbiamo scelto la speranza sulla paura, l'unità degli scopi sul conflitto e la discordia. In questo giorno, veniamo per proclamare la fine delle futili lagnanze e delle false promesse, delle recriminazioni e dei dogmi logori, che per troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.
Rimaniamo una nazione giovane, ma, nelle parole della Scrittura, il tempo è venuto di mettere da parte le cose infantili. Il tempo è venuto di riaffermare il nostro spirito durevole; di scegliere la nostra storia migliore; di riportare a nuovo quel prezioso regalo, quella nobile idea, passata di generazione in generazione: la promessa mandata del cielo che tutti sono uguali, tutti sono liberi, e tutti meritano una possibilità per conseguire pienamente la loro felicità.
Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, capiamo che la grandezza non va mai data per scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie o di ribassi. Non è stato un sentiero per i deboli di cuore, per chi preferisce l’ozio al lavoro, o cerca solo i piaceri delle ricchezze e della celebrità. E’ stato invece il percorso di chi corre rischi, di chi agisce, di chi fabbrica: alcuni celebrato ma più spesso uomini e donne oscuri nelle loro fatiche, che ci hanno portato in cima a un percorso lungo e faticoso verso la prosperità e la libertà.
Per noi hanno messo in valigia le poche cose che possedevano e hanno traversato gli oceani alla ricerca di una nuova vita.
Per noi hanno faticato nelle fabbriche e hanno colonizzato il West; hanno tollerato il morso della frusta e arato il duro terreno.
Per noi hanno combattuto e sono morti in posti come Concord e Gettysburg, la Normandia e Khe Sahn.
Ancora e ancora questi uomini e queste donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato fino ad avere le mani in sangue, perché noi potessimo avere un futuro migliore. Vedevano l’America come più grande delle somme delle nostre ambizioni individuali, più grande di tutte le differenze di nascita o censo o partigianeria.
Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo il paese più prosperoso e più potente della Terra. I nostri operai non sono meno produttivi di quando la crisi è cominciata. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari della settimana scorsa o del mese scorso o dell’anno scorso. Le nostre capacità rimangono intatte. Ma il nostro tempo di stare fermi, di proteggere interessi meschini e rimandare le decisioni sgradevoli, quel tempo di sicuro è passato. A partire da oggi, dobbiamo tirarci su, rimetterci in piedi e ricominciare il lavoro di rifare l’America.
Perché ovunque guardiamo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede azioni coraggiose e rapide, e noi agiremo: non solo per creare nuovi lavori ma per gettare le fondamenta della crescita. Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche, le linee digitali per nutrire il nostro commercio e legarci assieme. Ridaremo alla scienza il posto che le spetta di diritto e piegheremo le meraviglie della tecnologia per migliorare le cure sanitarie e abbassarne i costi. Metteremo le briglie al sole e ai venti e alla terra per rifornire le nostre vetture e alimentare le nostre fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole e i college e le università per soddisfare le esigenze di una nuova era. Tutto questo possiamo farlo. E tutto questo faremo.
Ci sono alcuni che mettono in dubbio l’ampiezza delle nostre ambizioni, che suggeriscono che il nostro sistema non può tollerare troppi piani grandiosi. Hanno la memoria corta. Perché hanno dimenticato quanto questo paese ha già fatto: quanto uomini e donne libere possono ottenere quando l’immaginazione si unisce a uno scopo comune, la necessità al coraggio.
Quello che i cinici non riescono a capire è che il terreno si è mosso sotto i loro piedi, che i diverbi politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non hanno più corso. La domanda che ci poniamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona: se aiuta le famiglie a trovare lavori con stipendi decenti, cure che possono permettersi, una pensione dignitosa. Quando la risposta è sì, intendiamo andare avanti. Quando la risposta è no, i programmi saranno interrotti. E quelli di noi che gestiscono i dollari pubblici saranno chiamati a renderne conto: a spendere saggiamente, a riformare le cattive abitudini, e fare il loro lavoro alla luce del solo, perché solo allora potremo restaurare la fiducia vitale fra un popolo e il suo governo.
Né la domanda è se il mercato sia una forza per il bene o per il male. Il suo potere di generare ricchezza e aumentare la libertà non conosce paragoni, ma questa crisi ci ha ricordato che senza occhi vigili, il mercato può andare fuori controllo, e che un paese non può prosperare a lungo se favorisce solo i ricchi. Il successo della nostra economia non dipende solo dalle dimensioni del nostro prodotto interno lordo, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di ampliare le opportunità a ogni cuore volonteroso, non per beneficenza ma perché è la via più sicura verso il bene comune.
Per quel che riguarda la nostra difesa comune, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali. I Padri Fondatori, di fronte a pericoli che facciamo fatica a immaginare, prepararono un Carta che garantisse il rispetto della legge e i diritti dell’uomo, una Carta ampliata con il sangue versato da generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondo e non vi rinunceremo in nome del bisogno. E a tutte le persone e i governi che oggi ci guardano, dalle capitali più grandi al piccolo villaggio in cui nacque mio padre, dico: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che cerca un futuro di pace e dignità, e che siamo pronti di nuovo a fare da guida.
Ricordate che le generazioni passate sconfissero il fascismo e il comunismo non solo con i carri armati e i missili, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Capirono che la nostra forza da sola non basta a proteggerci, né ci dà il diritto di fare come ci pare. Al contrario, seppero che il potere cresce quando se ne fa un uso prudente; che la nostra sicurezza promana dal fatto che la nostra causa giusta, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e della moderazione.
Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta da questi principi, possiamo affrontare quelle nuove minacce che richiedono sforzi ancora maggiori - e ancora maggior cooperazione e comprensione fra le nazioni. Inizieremo a lasciare responsabilmente l’Iraq al suo popolo, e a forgiare una pace pagata a caro prezzo in Afghanistan. Insieme ai vecchi amici e agli ex nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e allontanare lo spettro di un pianeta surriscaldato. Non chiederemo scusa per la nostra maniera di vivere, né esiteremo a difenderla, e a coloro che cercano di ottenere i loro scopi attraverso il terrore e il massacro di persone innocenti, diciamo che il nostro spirito è più forte e non potrà essere spezzato. Non riuscirete a sopravviverci, e vi sconfiggeremo.
Perché sappiamo che il nostro multiforme retaggio è una forza, non una debolezza: siamo un Paese di cristiani, musulmani, ebrei e indù - e di non credenti; scolpiti da ogni lingua e cultura, provenienti da ogni angolo della terra. E dal momento che abbiamo provato l’amaro calice della guerra civile e della segregazione razziale, per emergerne più forti e più uniti, non possiamo che credere che odii di lunga data un giorno scompariranno; che i confini delle tribù un giorno si dissolveranno; che mentre il mondo si va facendo più piccolo, la nostra comune umanità dovrà venire alla luce; e che l’America dovrà svolgere un suo ruolo nell’accogliere una nuova era di pace.
Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basato sull’interesse comune e sul reciproco rispetto. A quei dirigenti nel mondo che cercano di seminare la discordia, o di scaricare sull’Occidente la colpa dei mali delle loro società, diciamo: sappiate che il vostro popolo vi giudicherà in base a ciò che siete in grado di costruire, non di distruggere. A coloro che si aggrappano al potere grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso, diciamo: sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno.
Ai popoli dei Paesi poveri, diciamo di volerci impegnare insieme a voi per far rendere le vostre fattorie e far scorrere acque pulita; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quei Paesi che come noi hanno la fortuna di godere di una relativa abbondanza, diciamo che non possiamo più permetterci di essere indifferenti verso la sofferenza fuori dai nostri confini; né possiamo consumare le risorse del pianeta senza pensare alle conseguenze. Perché il mondo è cambiato, e noi dobbiamo cambiare insieme al mondo.
Volgendo lo sguardo alla strada che si snoda davanti a noi, ricordiamo con umile gratitudine quei coraggiosi americani che in questo stesso momento pattugliano deserti e montagne lontane. Oggi hanno qualcosa da dirci, così come il sussurro che ci arriva lungo gli anni dagli eroi caduti che riposano ad Arlington: rendiamo loro onore non solo perché sono custodi della nostra libertà, ma perché rappresentano lo spirito di servizio, la volontà di trovare un significato in qualcosa che li trascende. Eppure in questo momento - un momento che segnerà una generazione - è precisamente questo spirito che deve animarci tutti.
Perché, per quanto il governo debba e possa fare, in definitiva sono la fede e la determinazione del popolo americano su cui questo Paese si appoggia. E’ la bontà di chi accoglie uno straniero quando le dighe si spezzano, l’altruismo degli operai che preferiscono lavorare meno che vedere un amico perdere il lavoro, a guidarci nelle nostre ore più scure. E’ il coraggio del pompiere che affronta una scala piena di fumo, ma anche la prontezza di un genitore a curare un bambino, che in ultima analisi decidono il nostro destino.
Le nostre sfide possono essere nuove, gli strumenti con cui le affrontiamo possono essere nuovi, ma i valori da cui dipende il nostro successo - il lavoro duro e l’onestà, il coraggio e il fair play, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo - queste cose sono antiche. Queste cose sono vere. Sono state la quieta forza del progresso in tutta la nostra storia. Quello che serve è un ritorno a queste verità. Quello che ci è richiesto adesso è una nuova era di responsabilità - un riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo doveri verso noi stessi, verso la nazione e il mondo, doveri che non accettiamo a malincuore ma piuttosto afferriamo con gioia, saldi nella nozione che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, di più caratteristico della nostra anima, che dare tutto a un compito difficile.
Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.
Questa è la fonte della nostra fiducia: la nozione che Dio ci chiama a forgiarci un destino incerto. Questo il significato della nostra libertà e del nostro credo: il motivo per cui uomini e donne e bambine di ogni razza e ogni fede possono unirsi in celebrazione attraverso questo splendido viale, e per cui un uomo il cui padre sessant’anni fa avrebbe potuto non essere servito al ristorante oggi può starvi davanti a pronunciare un giuramento sacro.
E allora segniamo questo giorno col ricordo di chi siamo e quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno della nascita dell’America, nel più freddo dei mesi, un drappello di patrioti si affollava vicino a fuochi morenti sulle rive di un fiume gelato. La capitale era abbandonata. Il nemico avanzava, la neve era macchiata di sangue. E nel momento in cui la nostra rivoluzione più era in dubbio, il padre della nostra nazione ordinò che queste parole fossero lette al popolo: “Che si dica al mondo futuro... Che nel profondo dell’inverno, quando nulla tranne la speranza e il coraggio potevano sopravvivere... Che la città e il paese, allarmati di fronte a un comune pericolo, vennero avanti a incontrarlo”.
America. Di fronte ai nostri comuni pericoli, in questo inverno delle nostre fatiche, ricordiamoci queste parole senza tempo. Con speranza e coraggio, affrontiamo una volta ancora le correnti gelide, e sopportiamo le tempeste che verranno. Che i figli dei nostri figli possano dire che quando fummo messi alla prova non ci tirammo indietro né inciampammo; e con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio con noi, portammo avanti quel grande dono della libertà, e lo consegnammo intatto alle generazioni future.
L'antica arte dell'oratoria arma vincente di Barack
di Sam Leith
Obama tenne il suo primo discorso quando era ancora giovanissimo. All'Università di Los Angeles gli chiesero di introdurre un piccolo comizio contro l'apartheid. Era una folla composta, secondo la sua descrizione, da «qualche centinaio di persone irrequiete dopo il pranzo», con un paio di studenti che giocavano a frisbee da una parte. Ma mentre aspettava di parlare, Obama si ricordò della «capacità rivoluzionaria» delle parole del padre. «Se solo potessi trovare le parole giuste, pensavo, tutto potrebbe cambiare: il Sudafrica, la vita dei bambini del ghetto a pochi chilometri da qua, il mio stesso, esiguo posto nel mondo». Salì sul palco, scrive lui stesso, «in trance».
Oggi, Barack Obama terrà il discorso più importante della sua vita. La storia della repubblica americana può essere ricostruita attraverso la sua retorica: «Or sono diciassette lustri e un anno che i nostri padri costruirono, su questo continente...»; «We shall overcome»; «Non chiedetevi che cosa può fare il vostro Paese per voi...»; «Ich bin ein Berliner»; «Io ho un sogno». I politici possono oggi avvalersi dei servizi di squadre di speechwriters ma è impensabile che un politico con la storia di Obama, che ha affinato l'arte della persuasione facendo l'attivista politico a Chicago, che l'ha rifinita nelle aule di Harvard, possa limitarsi a leggere il copione di qualcun altro. I suoi discorsi sono elettrizzanti, pieni di una retorica estremamente formale, di quella ravvisabile nei filosofi antichi e negli studiosi del trivio medievale, dove la retorica costituiva, insieme alla grammatica e alla logica, uno dei tre rami dell'istruzione. Quello che fa Obama è vecchio quanto Aristotele, che con la Retorica gettò le basi dell'arte della persuasione. Prendiamo per esempio la "trimembre", una delle più famose figure retoriche, cioè l'uso di tre termini in ordine ascendente, come il veni, vidi, vici di Giulio Cesare. Spesso Obama costruisce le sue trimembre partendo da coppie bilanciate (uomini e donne, colore e credo, giovani e vecchi), di cui i suoi discorsi sono pieni. Lo scorso luglio, a Berlino, sulle orme di JFK, ha detto: «Mentre parliamo, automobili a Boston e fabbriche a Pechino stanno sciogliendo le calotte polari dell'Artico, restringendo le coste dell'Atlantico e portando la siccità nei campi coltivati, dal Kansas al Kenya». Una coppia (Boston e Pechino) che introduce una "tripartizione" dove il terzo termine è a sua volta sdoppiato, il tutto intriso di allitterazioni. È uno stile stile meravigliosamente e intenzionalmente musicale.
T.S. Eliot disse che il significato di una poesia era qualcosa che il poeta usava per distrarre il lettore mentre la poesia produceva il suo vero effetto. Si potrebbe dire qualcosa di simile per la retorica politica. Gran parte del suo effetto dipende da come suona o scandisce. Lo slogan vincente di Obama, "Yes we can" deve gran parte della sua efficacia alle tre sillabe accentate.
La ripetizione, specialmente nella forma dell'anafora (quando una frase viene ripetuta all'inizio di una serie di frasi) è un altro degli strumenti principali dell'oratoria politica, e Obama ne fa larghissimo uso. «Sapete, dicevano che questo momento non sarebbe mai venuto. Dicevano che eravamo troppo ambiziosi. Dicevano che questo Paese era troppo diviso...» (3 gennaio 2008, caucus dell'Iowa). Obama si è proposto, e la sua retorica lo propone, come l'erede delle tradizioni retoriche e politiche di Abraham Lincoln, Martin Luther King e Gesù Cristo. Quest'ultima comparazione potrà sembrare una facezia ma non è così. In due occasioni - quando dichiarò l'intenzione di candidarsi, a Springfield e la notte delle primarie del New Hampshire - Obama fa riferimento a King, lo inserisce in un passaggio esplicitamente biblico: «Un re che ci ha guidati in cima al monte e ci ha indicato la via per la Terra Promessa».
Il grande movimento doppio del discorso della notte elettorale, a Chicago, il 4 novembre, è l'espansione: dal locale, al nazionale al globale; dal momento presente al grandioso arco temporale della storia. Ancorando la parte finale del discorso alla vita della 106enne Ann Nixon Cooper, Obama viaggia attraverso il XX secolo fino a giungere al presente, dal Sud segregazionista alla luna.
Durante la campagna elettorale, alcuni repubblicani hanno dileggiato Obama proprio per la sua scioltezza oratoria («uno snob che lavorava con le parole»). Questo tentativo di sfruttare l'inettitudine oratoria di George Bush trasformandola in virtù elettorale ha fatto il gioco dell'avversario. La retorica formale, come sa bene il presidente eletto grazie alla sua brillantissima istruzione, è stata la pietra fondante della democrazia americana. Aspettiamoci qualcosa di grande dall'inaugurazione.