sabato 30 agosto 2008

The Dream


È cominciato tutto con un incipit che mette i brividi, assieme ai presupposti per la realizzazione di un sogno, esattamente 45 anni dopo lo storico discorso di Martin Luther King che, quel sogno, vagheggiava. Qui si fa la Storia e questa volta anche noi ne saremo testimoni, per oscurare la mediocrità sconfortante dei cosiddetti leader e dei fantomatici statisti del cortile di casa che, uniti, rappresentano il nulla (visto a “Blob” il servo Fede interrompere il servizio dagli Usa, perché stava per parlare in diretta l'ometto B., tessera P2 n°1816).


Vai Barack Obama, fino alla vittoria. Che tutti gli dei possano assisterti.


Questo è il testo del discorso pronunciato dal senatore Barack Obama dopo l' annuncio della vittoria nel caucus dell'Iowa.


«Grazie, Iowa. Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato, che avevamo aspettative troppo alte. Dicevano anche che questo Paese è troppo diviso, disilluso per unirsi intorno a un medesimo obiettivo. Invece, in questa notte di gennaio, in questo momento cruciale della Storia, voi avete fatto ciò che gli scettici dicevano fosse impossibile. Avete fatto ciò che l'America intera può fare in questo nuovo anno, il 2008. In code e in lunghe file fuori dalle scuole e le chiese, nelle cittadine, nelle grandi metropoli, vi siete uniti, democratici, repubblicani, indipendenti, tutti insieme per affermare che siamo un'unica nazione. Siamo un solo popolo ed è giunta l' ora del cambiamento. Voi avete affermato che è giunto il momento di superare l'amarezza, la meschinità, la rabbia che consuma e logora Washington; di porre fine a una strategia politica che ha creato soltanto divisione. Noi stiamo scegliendo la speranza, non la paura; l'unità, non la divisione, e stiamo mandando un forte messaggio: in America è in arrivo un cambiamento. Voi avete dichiarato che è l'ora di dire ai lobbisti che pensano che i loro soldi e il loro potere parlino con voce più alta delle nostre che non sono padroni di questo governo. Noi siamo i padroni, e siamo qui per riprendercelo. È l'ora che un presidente sia onesto riguardo alle scelte e alle sfide cui dobbiamo far fronte, che vi dia ascolto. Se nel New Hampshire mi darete la stessa chance che mi avete dato questa sera in Iowa, io sarò quel presidente per l' America. Vi ringrazio. Sarò un presidente che finalmente renderà l'assistenza medica accessibile e disponibile per ogni americano. Sarò un presidente che pone fine agli sgravi fiscali per le società che trasferiscono oltreoceano i nostri posti di lavoro; che utilizzerà l'ingegno di contadini, scienziati e imprenditori per affrancare questa nazione dalla tirannia del petrolio. Sarò un presidente che porrà fine alla guerra in Iraq e finalmente riporterà a casa i nostri soldati; che ripristinerà il nostro prestigio morale; che saprà che l'11 settembre non è un mezzo per spaventare gli elettori, bensì una sfida che deve unire l'America e il mondo contro le minacce comuni del XXI secolo, il terrorismo e le armi nucleari, il cambiamento del clima e la povertà, il genocidio e le malattie. Stasera siamo un po' più vicini a questa visione di America, grazie a ciò che voi avete fatto qui in Iowa. E a proposito di ringraziamenti penso sia giusto che io ringrazi l'amore della mia vita, la roccia della famiglia Obama, la persona che mi è più vicina nella campagna elettorale, Michelle Obama (ndr la moglie). So che quanto avete fatto stasera non l'avete fatto per me, ma perché credete negli ideali americani. So che è così, perché non potrò mai dimenticare che sono arrivato fin qui dalle strade di Chicago, dove facevo ciò che molti di voi hanno fatto per questa campagna: organizzare, lavorare, combattere, per rendere la vita di tutti un poco migliore. So quanto sia difficile, quanto poco si dorma, quanto poco si ottenga, quanti sacrifici si fanno. Ci sono giorni di grandi delusioni, ma poi, ogni tanto, solo ogni tanto, ci sono serate come questa, una notte che da adesso e per gli anni a venire sarà ricordata come la notte in cui abbiamo fatto i cambiamenti in cui credevamo, affinché più famiglie possano permettersi un dottore, affinché i nostri figli - Malia, Sasha e i vostri bambini - ereditino un pianeta un poco più pulito e più sicuro, affinché il mondo consideri in modo diverso l'America e l'America si consideri una nazione meno divisa e più unita. Voi un giorno ripenserete a questa notte con grande orgoglio e potrete affermare: "Fu quello il momento in cui tutto ebbe inizio". Questo è il momento in cui l'improbabile ha sconfitto ciò che Washington diceva che sarebbe stato inevitabile. Questo è il momento in cui abbiamo abbattuto le barriere che ci dividono da troppo tempo, in cui abbiamo unito in una causa comune gente di tutti i partiti e di tutte le età, in cui finalmente abbiamo dato agli americani che non si sono mai interessati alla politica una ragione per alzarsi e occuparsene. Tra qualche anno, ripensando a questa notte ricorderete che questo è il momento, questo è il posto, nel quale l'America si è ricordata di che cosa significa sperare. Abbiamo sempre saputo che la speranza non è cieco ottimismo, non significa ignorare l'enormità dei compiti che dovremo affrontare o gli ostacoli che intralceranno il nostro cammino. Non significa sedersi in disparte e sottrarsi a una battaglia. La speranza è quella cosa che dentro di noi insiste, malgrado tutto lasci intuire il contrario, che il futuro ci riserva qualcosa di meglio se avremo il coraggio di tendergli la mano, di lavorare per esso, e di combattere per esso. Speranza è ciò che ho visto negli occhi di una giovane donna di Cedar Rapids che lavora al turno di notte dopo un'intera giornata al college e ciò nonostante non riesce a garantire alla sorella ammalata le cure di cui necessita, una giovane donna che crede ancora che questo Paese le concederà una chance per realizzare i propri sogni. Speranza è ciò che ho sentito nelle parole di una donna del New Hampshire che mi ha detto di non essere quasi in grado di respirare da quando suo nipote è partito per l'Iraq, e che tutte le sere va a letto pregando che egli possa tornare sano e salvo a casa. Speranza è ciò che ha indotto un manipolo di coloni a ribellarsi a un impero, che ha spinto la più grande delle generazioni a liberare un continente e guarire una nazione, che ha incoraggiato tanti giovani uomini e donne a sedersi e sfidare gli idranti o a marciare per Selma e Montgomery per la causa della libertà. Speranza è ciò che mi ha portato qui oggi per quello che sono, figlio di un kenyano e di una donna del Kansas, con una storia alle spalle che può esistere solo qui, negli Stati Uniti d' America. La speranza è la culla di questa nazione, la fede che il nostro destino non è scritto per noi ma da noi, da tutti gli uomini e le donne che non sono soddisfatti di come va il mondo, che hanno il coraggio di volerlo cambiare. È a tutto ciò che abbiamo dato vita questa sera in Iowa. È lo stesso messaggio che può cambiare questo Paese mattone dopo mattone, strada dopo strada, con le mani piene di calli: insieme, noi, gente normale, possiamo fare cose straordinarie, perché non siamo un insieme di Stati rossi e Stati blu. Noi siamo gli Stati Uniti d'America. E adesso siamo pronti a crederci ancora. Grazie, Iowa».

la Repubblica (5 gennaio 2008)


E questa è la cronaca del bel pezzo di Mario Calabresi.


Il quarantenne nero che trascina i bianchi


La colonna sonora era la stessa del giorno in cui annunciò agli americani che si sarebbe candidato alla presidenza degli Stati Uniti: «City of Blinding Lights» degli U2. Anche la temperatura era la stessa: 11 gradi sotto zero. Ma sul palco, in mezzo a migliaia di giovani in delirio, non è salito il giovane idealista naif amante delle sfide impossibili, ma l'uomo del cambiamento, capace di spazzare via la potente macchina elettorale dei Clinton e l'organizzazione capillare costruita dai sindacati di John Edwards. Improvvisamente tutto il resto è sembrato vecchio: Bill Clinton magro e rauco con i suoi capelli bianchi, Hillary che parla di esperienza e si fa accompagnare dalla madre quasi novantenne, l'America di Bush, di Rudy Giuliani e dell'11 settembre. Tutto improvvisamente superato da un quarantenne nero che riesce a galvanizzare uno Stato di agricoltori, con l'età media più alta d'America e in cui i bianchi di origine tedesca, danese o irlandese sono il 92 per cento.


Barack Obama aveva messo la cravatta e nonostante avesse scelto un tono più sobrio e più composto del solito è riuscito a far esplodere i suoi sostenitori: «Abbiamo realizzato quello che i cinici definivano una sfida impossibile e abbiamo dimostrato che la speranza non è cieco ottimismo, ma coraggio di combattere». Lo spettacolo dell'arena di Des Moines, con i ragazzini neri che imprimevano il ritmo alla folla picchiando sui tamburi, era di una potenza acustica e visiva impressionante, come l'onda che dalla capitale dell'Iowa si è diffusa in tutta l'America. Il messaggio è stato chiaro: la scommessa di superare il colore della pelle e le appartenenze è riuscita: «Mio padre veniva dal Kenya, mia madre dal Kansas, e la mia è una storia che può accadere solo negli Stati Uniti. Per questo vi dico: possiamo cambiare questo Paese, le persone normali possono fare cose straordinarie». E straordinaria è stata la partecipazione al voto, quasi raddoppiata, cifre da record assoluto.


Barack Obama ha vinto con i giovani, che non l'hanno tradito, con le donne che lo hanno preferito a Hillary, con gli indipendenti che hanno rotto gli indugi e si sono schierati e perfino con una fetta di elettori repubblicani che hanno saltato il confine. Nella notte di mercoledì l'America profonda è stata capace di fare una rivoluzione. La strada è lunga, i Clinton esperti e potenti, i repubblicani agguerriti, ma il messaggio è chiaro: l'unico nero americano ad avere un seggio nel Senato di Washington, esattamente alle spalle di quello che fu di John Kennedy, ha tutte le carte in regola e ha passato l'esame per diventare l'uomo più potente del mondo.


Il profumo della svolta era chiaro sentendo parlare le famiglie che in fila indiana, nei vialetti scavati in mezzo alla neve, andavano ai caucus. L'atmosfera era serena, tanto che l'immagine ricordava più la gente che va a messa la notte di Natale che non il pellegrinaggio ad un'assemblea elettorale. «Andremo a votare per Obama perché c'è bisogno di cambiamento e questo non ce lo può dare una dinastia: mio figlio da quando è nato non ha mai visto un presidente che non si chiamasse Bush o Clinton. E ha 18 anni: è ora di voltare pagina» ci racconta Kathy, che con il marito gestisce un'azienda agricola. Il loro sentimento è sintetizzabile con una parola ripetuta parecchio in questi giorni: "clintonfatigue". La stanchezza verso i Clinton. Da una parte Bill è l'asso nella manica di Hillary - al comizio finale dell'ex first lady molte nostalgiche sostenitrici avevano la spilla della campagna del 1996 - dall'altra è una presenza che parla di passato. Allyson, una ragazza nera che sostiene Obama, ha discusso animatamente con le amiche che le dicevano di preferire la Clinton: «Ma come potete: dobbiamo votare per il nostro futuro, non con la testa girata agli Anni Novanta, non è un voto sul passato ma sulla vita che ci aspetta».


Hanno votato 220mila persone ai caucus democratici, un record assoluto: 100mila in più di quattro anni fa. Lo storico deputato di Des Moines, l'anziano Leonard Boswell, è convinto che la sua gente di campagna guardi al mondo molto più di quanto si possa immaginare e ci dice: «Siamo preoccupati di ricostruire la nostra credibilità e la nostra immagine». Anche Spencer e Chris, che sono compagni di banco all'ultimo anno di liceo e voteranno a novembre per la prima volta, sono usciti di casa spinti dalla stessa molla: «Dobbiamo dare un messaggio nuovo al resto del mondo e a tutto il nostro Paese e la scelta di un afro-americano è la più simbolica possibile». Quasi il cinquanta per cento dei partecipanti ai caucus democratici erano al loro primo voto, come Spencer e Chris, e quattro su cinque hanno scelto Obama. Quattro anni fa nella palestra della scuola media Merril, di fronte all'Art Museum dove una donna malinconica dipinta da Hopper scruta i visitatori da sotto il cappello, erano in 360. Questa volta si presentano in 554 e per registrarli tutti si inizia con tre quarti d'ora di ritardo.


Siamo in uno dei più grandi caucus di tutto lo Stato e qui in piccolo si produrranno sotto i nostri occhi esattamente le dinamiche che hanno portato al risultato finale: primo Obama, secondo Edwards, terza Clinton. La composizione sociale del distretto elettorale sembrerebbe favorevole a Hillary, come lo era sulla carta quella dell'Iowa: ceto medio borghese con un'età superiore ai quarant'anni. Tutti bianchi. Nel settore di Obama ci sono quasi 300 persone, soltanto quattro sono nere, tre donne e un uomo e tutte le età sono rappresentate. Il capitano dell'assemblea, l'avvocato Jeffery Goetz, è raggiante mentre fa la conta dei presenti: «È una serata storica, l'hanno presa davvero sul serio». Il duello dialettico tra gli elettori, raggruppati negli angoli della palestra a seconda del candidato che hanno scelto, gira intorno alla preferenza tra esperienza e carisma, tra testa e cuore. La rappresentante della campagna di Hillary, Sally Pederson, cerca di convincere gli indecisi: «È lei la più preparata per combattere i repubblicani e guidare il Paese: dovete scegliere l'esperienza, qualcuno che conosca la Casa Bianca e sia eleggibile». Guarda alle donne che sostengono i candidati minori, cerca di convincerle, ma la folla di Obama grida incessante: «Vi vogliamo con noi, vi vogliamo con noi». E la maggioranza delle mamme con i bambini in braccio, delle signore con i capelli raccolti e molti chili di troppo, sorridendo si fa convincere più dal cuore e dalla voglia di fare qualcosa di inaspettato. Ogni migrazione verso il canestro sotto cui c'è il grande cartello con la scritta «Hope», speranza, simbolo di Barack Obama, viene sottolineata dagli applausi.


Alle nove la partita non ha più storia, quando le tre signore dall'aria compita, che tutto il quartiere conosceva come repubblicane, fanno la loro scelta per il senatore nero significa che è finita davvero. Il capitano fa la conta: Clinton 120, Edwards 131, Obama 289. La palestra esplode. I ragazzi con le spillette pacifiste corrono al comizio con Barack e lui non li delude: «Il tempo del cambiamento è arrivato: sarò il presidente che riporterà a casa i soldati dall'Iraq, che garantirà la sanità a tutti gli americani e metterà fine ai regali fiscali alle grandi multinazionali». La festa continua nella notte, ma Obama sa che questo è solo l'inizio. Hillary è già volata nel New Hampshire, le sue forze in campo sono intatte e i sondaggi ancora la assistono, Edwards è sfinito e se mollasse potrebbe passare il voto dei sindacati ai Clinton. Chiede ai ragazzi di continuare, di prendere treni e aerei e trasferirsi sull'Atlantico, di non fermarsi, il suo momento di grazia potrebbe trasformarsi in un attimo nel sogno di una notte d'inverno: «Bisogna ripetere tutto ogni settimana fino a novembre e solo tra un anno, quando il nuovo presidente giurerà davanti al Campidoglio, allora potrete guardare indietro e ricordarvi che tutto è iniziato qui».


la Repubblica (5 gennaio 2008)  




 




5 commenti:

  1. PortamiViaagosto 31, 2008

    Il sogno continua.

    Grazie, caro. Ottimo post.



    Un abbraccio di ritorno dalle vacanze :)

    Anna

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  2. Anna, grazie. Ci tenevo molto a questo post anche perchè è bello poter continuare a sognare e seguire il cammino, tutt'altro che facile, del nuovo interprete del sogno amerikano (con la "k" ancora per poco, spero).

    Augurarti buon ritorno, con la Gelmini in agguato, non è proprio il massimo, ma rivolto da un amico ad una cara amica non tiene conto di questo dettaglio.

    Io ho ripreso da una settimana, ma nella blogosfera devo ancora assestarmi. Inevitabili i ritardi.

    Un caro saluto.

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  3. federica_aurorasettembre 03, 2008

    bel post. un saluto, feau

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  4. federica_aurorasettembre 03, 2008

    un caro saluto feau

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  5. Feau, ormai i miei ritardi nelle risposte stanno diventando imbarazzanti. Scusami.

    Comunque grazie per l'attenzione e la gentilezza.

    Un caro saluto anche a te :-)

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