Il blog si concede una breve pausa, tuttavia voglio lasciare un post multiplo, o se preferite extralarge. Si tratta di pezzi che hanno attirato la mia attenzione per motivi diversissimi e riflettono fatti di cronaca delle ultime settimane. Al mio ritorno sarebbero apparsi datati, sebbene la riflessione non possa esaurirsi così in fretta. Gli argomenti, comunque, non mancano.
Vi auguro buona festa della Repubblica, una Repubblica così vilipesa dalla rinnovata arroganza fascista e dalla sciatteria di una classe dirigente mai così autoreferenziale e miope. Aggiungo, in coda, un particolare saluto ad una persona che passa spesso da queste parti senza lasciare traccia di sé, lettrice muta che mi onora con la sua attenzione dalla solare Sicilia.
Napoli la nostra saccheggiata memoria
O Napoli, la cui bellezza brilla nella notte come una maledizione. O città dai profondi occhi neri e dalle lunghe e forti mani, dalle tue spalle larghe come l' oceano, ti sei lasciata andare. Hai abbassato lo sguardo, hai abbassato la guardia; ed eccoti, contaminata come un volgare luogo che persino i ratti hanno disertato. Napoli e la sua periferia; la città e le sue terre senza vita, i suoi corpi che hanno perso qualunque cosa; le foglie e la linfa; il colore e il fruscio che fa sognare gli uccelli. Napoli è un enigma, un volto dietro altri volti, uno spirito in cui il vizio e la virtù si mescolano e si scambiano i ruoli, e se la ridono di tutto. TAHAR BEN JELLOUN
La città dalla memoria saccheggiata
(segue dalla prima di cronaca) Il cittadino impara che ciò che vede non è ciò che esiste; o piuttosto, ciò che appare è solo un velo steso su altre cose, dal dramma alla fantasia, dove la morte danza su una Vespa giù per viali scuri che somigliano a labirinti.
Se l'inferno è un'abitudine
di ALDO SCHIAVONE
La cosa più straordinaria che sta accadendo a Napoli in questi mesi ancora non l'ha raccontata nessuno. Eppure è sotto gli occhi di tutti, nuda, visibilissima, incomprensibile. Ed è semplicemente che mentre da ogni parte ci si affanna a descrivere un popolo in ginocchio e prostrato dal disastro, loro, invece, i napoletani, stanno rimanendo in piedi, "a farsi i fatti propri", come qui si impara prestissimo a dire.
E tutto, nell'immenso e sformato corpo urbano, continua a scorrere e ad andare in qualche modo avanti, in quella "quasi normalità" insieme parossistica e quieta che sembra sempre sull'orlo del precipizio, ma che poi non collassa mai davvero, e che è diventata, non saprei più dire da quando, l'autentico tempo storico della città.
L'altro giorno D'Avanzo su "Repubblica" citava Calvino, le battute finali di "Le città invisibili". Aveva ragione, è quello che viene in mente pensando a Napoli. "Accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più". E proprio questo è accaduto: i napoletani, pezzi cospicui delle vecchie borghesie, ma anche ampi strati popolari fino a qualche tempo fa orientati dalla classe operaia e ora senza più guide e riferimenti, hanno accettato l'inferno che gli cresceva intorno; vi si sono adattati, e ormai fanno persino fatica a riconoscerlo, tanto per loro è consueto. Hanno imparato ad avere accanto la camorra, una presenza capillare, quotidiana, che può togliere il respiro. Hanno assimilato il degrado urbano come sfondo "naturale" della loro esistenza. In cambio, hanno potuto coltivare, spesso anche con grande successo e qualche nobiltà, il proprio particolare, "i fatti propri", si sono conquistati la possibilità di continuare a mantenere un profilo sociale definito, un livello di consumi mediamente alto per quanto, in alcune fasce sociali più esposte, spesso distorto da bisogni indotti e fittizi; sono riusciti a non perdere i contatti con la modernità economica globale e le sue occasioni, ad allargare uno spazio di crescita individuale e familiare in molti casi tutt'altro che secondario.
E in effetti, mai come oggi Napoli è stata piena di vita. Ha riserve di energia enormi, intelligenza, talenti, conoscenze, iniziativa. Esprime impresa, professioni, creatività, ricerca d'avanguardia. Riesce persino a conservare forme impensabili di dolcezza e di microsolidarietà. Ma tutto ciò si realizza soltanto sul piano dei destini personali, delle relazioni private, del lavoro e della produttività dei singoli o di piccoli gruppi. Appare bloccato, distorto, parziale. Non sa proiettarsi in una dimensione pubblica, istituzionale, di perseguimento del bene comune, di costruzione di un'appartenenza collettiva, di un autentico legame sociale generatore di un corpo civico, di una soggettività politica e civile appena degni di questi nomi.
Napoli insomma ha scambiato la salvezza privata dei suoi abitanti - o almeno quella che una loro parte rilevante ritiene essere la propria salvezza - con la completa espropriazione del suo destino pubblico. E' questo il prezzo della sua dolorosa modernità. Ha smesso di essere una città, dal punto di vista mentale e civile, e si è trasformata in uno sconfinato tessuto urbano, che continua a integrare dentro di sé frammenti di disperata bellezza, dove si sovrappongono milioni di piani di vita ciascuno inchiodato nella sua sola dimensione privata, a volte luminosa, a volte dannata, ma comunque senza più alcuna capacità, o volontà, o possibilità di discorso pubblico, di organizzazione solidale, di oltrepassamento del proprio particolare.
Tutto è precipitato agli inizi degli anni ottanta, dopo il terremoto. Naturalmente c'era stato un prima: allo storicismo napoletano che raccontando Napoli racconta se stesso il prima non sembra mai sufficiente, per quanto indietro si risalga. Ma resta il fatto che il dopo terremoto ha cambiato in modo definitivo la storia della città. E' stato il punto di svolta. Con la ricostruzione arrivarono di colpo a Napoli fiumi di denaro pubblico (decine e decine di migliaia di miliardi di lire). Una quota cospicua finì, attraverso una catena di complicità e di inerzie politiche e amministrative che nessuno ancora ha davvero ricostruito, nelle mani della camorra, che la utilizzò per finanziare il passaggio (costosissimo) dal contrabbando alla droga, e per darsi una base sociale di massa (mai prima avuta) nell'antico sottoproletariato del centro storico e in quello più recente delle periferie. Si aprì così una stagione di modernizzazione selvaggia della città, certo non interamente illegale, ma dove tuttavia la nuova struttura criminale arrivava a dettare in qualche modo la forma complessiva del processo: tempi, luoghi, priorità. La cultura , se possiamo chiamarla così, che sorreggeva questa tragica egemonia era tutta, letteralmente, anti-Stato: cultura della violenza, della sopraffazione, della rottura delle regole, dell'affermazione spietata del singolo o del gruppo.
Fuori, la parte della città non investita direttamente dalla decomposizione malavitosa, abbandonata dalla politica a se stessa e alle sue antiche fragilità, ha risposto come poteva. Ha cercato di adattarsi e di sopravvivere, di non gettare al vento le proprie energie, di cogliere le opportunità e di fare anch'essa a meno dello Stato, sostituito da una rete "privata" di protezioni, di legami, nazionali e internazionali, di contiguità. Vi è riuscita, ma sacrificando completamente quel tanto di spirito pubblico e di vocazione civile che era riuscita a strappare alla propria storia. Ha soffocato nell'indifferenza la sua voce, e non riesce a ritrovare il filo della propria coscienza smarrita.
Ed è chiarissimo che Napoli, da sola, non ce la può fare a venirne fuori, a ritornare ad essere una città, a spezzare la spirale fra degrado pubblico ed egoismo privato. Ha bisogno del suo Paese e del suo Stato. Di uno Stato che innanzitutto le restituisca il suo territorio, che vi imponga, anche con la forza, la sua sovranità democratica, che sappia spezzare i circuiti dell'economia criminale sostituendoli con quelli di un'imprenditorialità sana e competitiva, che sappia avviare, per prima cosa attraverso la scuola, una gigantesca politica di recupero civile delle giovani generazioni.
Dobbiamo esserne tutti convinti: nelle strade di Napoli è in gioco l'identità italiana, la nostra capacità di essere davvero una nazione. E se decideremo di combattere questa battaglia, dobbiamo sapere che ci aspettano giorni difficili.
Criminalità
La 'Ndrangheta, modello alQaeda
Galapagos
Piccola e grande criminalità: da un lato i romeni, i Rom e i piccoli scippi (a volte qualche orrendo delitto); sul versante opposto però multinazionali del crimine che fanno ben più danno, anche se sembrano attirare meno l'attenzione dei cittadini e della stampa, pur essendo il vero cancro del vivere civile.
Le cifre sono enormi: ieri l'Euripses ci ha informato che la sola 'Ndrangheta, la «mafia» calabrese, nel
La 'Ndrangheta è una delle associazioni criminali meno conosciute, rispetto alla mafia siciliana o la camorra napoletana. La sua crescita però è stata vertiginosa ed è andata di pari passo con la crescita degli omicidi: 202 tra il 1999 e il 2007 solo in Calabria, con un incremento del 667%. Quanti sono stati gli omicidi dei rom?
La 'Ndrangheta ormai è una holding internazionale e come tutte le hoding che si rispettano, opera con una differenziazione degli affari. Il più remunerativo, ci dice Eurispes, è il traffico di droga: circa 27 miliardi euro, oltre il 62% del giro d'affari.
Le «'ndrine» (le cosche calabresi), agiscono non artigianalmente ma come una industria moderna che lavora just in time, eliminando - anche fisicamente - la concorrenza e l'intermediazione. Insomma, si riforniscono direttamente alla fonte «ricercando il contatto diretto con i cartelli, soprattutto colombiani, o con la loro emanazione in Europa».
La 'Ndrangheta fa un uso sistematico e indiscriminato dell'intimidazione e del terrore e cerca - e spesso riuscendoci - di affermare contro le istituzioni locali una propria contro-cultura, una esplicita quanto determinata richiesta di potere, si legge nel dossier. Per Eurispes l'organizzazione ricorda da vicino il modello di al Qaeda.
Il rapporto contiene una prima mappatura della presenza delle organizzazioni criminali presenti sul territorio, con 131 cosche operanti nei vari territori calabresi. Nella sola provincia di Reggio Calabria sarebbero attive ben 73 organizzazioni criminali di tipo mafioso, 21 le cosche monitorate nella provincia di Catanzaro e
Altri affari la 'Ndrangheta li realizza facendosi impresa: grazie ad appalti pubblici - spesso truccati - e compartecipazione in imprese, il fatturato dei gruppi criminali calabresi è pari a 5,733 miliardi di euro.
E ancora: i proventi illeciti derivanti dal mercato dell'estorsione e dell'usura suprano i 5 miliardi, quasi 3 arrivano da traffico di armi e 2,9 dal mercato della prostituzione.
Tra il 1992 e il
Proviamo a sommare al fatturato della 'Ndrangheta (e ai loro amicidi) quello della Camorra, della Mafia e della Sacra corona unita. Di quanti omicidi sono responsabili? Di quanto fatturato? Cifre enormi, chiaramente. Incommensurabili rispetto alla refurtiva recuperata nei campi rom.
Galapagos
il manifesto (22 maggio 2008)
Quei tranquilli ragazzi di Niscemi
Lidia Ravera
La fotografia che riproduce la figlia non può più essere guardata con il distacco dell’oggettività: è la fotografia di una ragazzina morta ammazzata, strangolata, bruciata e quindi gettata, con due pietre legate alla vita, in un pozzo, in mezzo ai rifiuti. Allora ecco che quel sorriso appena accennato, sulle sue labbra, appare più come il frutto di una decisione faticosa, quella di sembrare una ragazzina serena. Un’adolescente come tutte le altre, con i capelli neri e gli occhi grandi, con i genitori affettuosi e l’immancabile «fidanzatino».
Non è così. Lorena non era un’adolescente spensierata. Era un’adolescente costretta (o cooptata) ad una promiscuità piuttosto squallida, e, forse, era incinta, senza averlo voluto. Era una quasi bambina minacciata dalla maternità come quella del film «Juno» che ha tanto commosso Giuliano Ferrara? Non esattamente.
Nel film l’adorabile ragazzina Juno, messa incinta da un coetaneo dolcemente citrullo, decideva di tenersi il frutto del precoce e distratto rapporto sessuale ma, non avendo l’età per sentirsi madre, lo regalava ad una bella signora senza figli, così, per non eliminare il frutto dell’incontro felice fra un ovulo e uno spermatozoo. Nella realtà, l’adorabile ragazzina Lorena, invece, veniva, pare, costretta a fare sesso con gli amici del suo ragazzo, tre apprendisti criminali che, presumibilmente, se la passavano nel più assoluto disprezzo del suo corpo, della sua sensibilità, dei suoi sentimenti.
Nel film tutto finisce bene: la madre adottiva è contenta, il bebè è tanto carino, la ragazzina è felice e suona una canzone d’amore , chitarra acustica e duetto di voci, con il padre del bambino partorito e regalato. Sulla nascita dell’amore adolescente scorrono i titoli di coda. Nella realtà i titoli di coda scorrono su un cadavere carbonizzato, su tre giovani disgraziati in una stanza della caserma di Niscemi, in provincia di Caltanissetta, che confessano: «ha detto: sono incinta di uno di voi... abbiamo perso la testa».
Hanno perso la testa, loro. Lei, Lorena, ha perso la vita. Se era davvero incinta, o se lo temeva soltanto, lo stabilirà l’autopsia. Magari esagerava la portata di quei pochi giorni di ritardo in un flusso mensile a cui non aveva ancora avuto il tempo di abituarsi. Magari voleva soltanto chiedere di non essere trattata come un pezzo di carne in cui scaricare a turno le proprie tempeste ormonali, i propri «bisogni» sessuali. Voleva parlare e voleva essere ascoltata. Infatti ci è andata volontariamente, in motorino con quello dei tre che si faceva passare per il suo ragazzo, sul luogo del delitto, gli altri due erano su un altro motorino. Come le altre volte? Avrebbe detto: oggi no, oggi non si fa, oggi vi devo dire una cosa importante. Si aspettava, magari, perfino, finalmente, un po’ di considerazione. In quella sub-cultura, fra i maschi siculi, si sa, le donne valgono come orifizi che forniscono piacere. Contano come madri. Rompono se restano gravide e nessuno le vuole. Se rischiano di produrre bambini non voluti, se svelano la tresca con una pancia che cresce, diventano un peso, vanno scaricate. Tali i padri tali i figli: vergini o mignotte, tutte puttane tranne mia madre. Tutte troie tranne mia sorella. È questo il brodo di coltura in cui nuotano i giovani maschi dell’entroterra siciliano. Certo, ci saranno delle eccezioni, ma la maggioranza si forma lì. Nel più perfetto e stagnante maschilismo troglodita.
Ma, naturalmente, si tratta pur sempre di ragazzi italiani, ragazzi nati in Sicilia, la nostra bella isola, culla di civiltà e generosa riserva di voti per il centrodestra. Così nessuno arma battaglie, chiede la pena di morte, marcia armato sui luoghi dove vivono gli assassini, propone espulsioni. Così i titoli dei giornali non escono a caratteri di scatola, anzi, la notizia dell’orrendo crimine (una ragazzina violentata ripetutamente, strozzata, bruciata e buttata in un pozzo) incomincia in prima e finisce in cronaca (pagina 18), senza eccessivo clamore, un fatto di nera, come tanti. Così i colpevoli vengono chiamati «balordi», che è un modo minimalista di nominare i criminali. E c’è da aspettarsi tutta la clemenza che riserviamo ai nostri figli: che sono pur sempre dei minorenni... che sono esseri umani ancora in via di formazione... che vanno puniti, ma per educarli... che magari la ragazza era anche consenziente... E comunque sono nati in provincia di Caltanissetta. E le donne le violentano e le ammazzano a casa loro. Quindi fanno meno paura?
www.lidiaravera.it
l’Unità (15 maggio 2008)
ciao e a presto ? ovunque tu vada che le stelle ti accompagnino e il sole ti illumini .un abbraccio da condividere:))
RispondiEliminaCaro Frank prima di tutto complimenti per il tuo bellissimo blog.
RispondiEliminaTi ringrazio per aver inserito il video e ringrazio coloro che hanno commentato.
Sai faccio queste cose, in quelle notti che Morfeo non si fa vivo, cercando di scaricare la tensione.
Perdonami se non sono stata presente, pur conoscendo l'esistenza del tuo blog, da quando è stato creato, ma sono periodi brutti, nella quale mi sento pedante, noiosa e triste.
Quindi una "commentatrice" che nessun sito, vorrebbe ospitare.
Tuttavia, desideravo ringraziarti, postando (non biasimarmi) il mio stato d'animo.
Un' altra notte insonne,
ho come la sensazione di vivere nel medioevo, dove regna solo caos, brutalità e ingiustizia.
Sembrano passati secoli, da quando adolescente militavo nella sezione giovanile, col cuore colmo di speranza
e fiducia, con la certezza assoluta che saremmo riusciti a migliorare il mondo.
Grandi valori motivavano il nostro impegno, Pace, Giustizia, Libertà, Uguaglianza, Lavoro, Casa....
Dopo tutti questi anni, mi sento sconfitta, tradita e profondamente delusa!
Quello che vedo oggi mi fa orrore, guerre, inquinamento, disoccupazione, precarietà, sospensione dei diritti
civili, stato di polizia, corruzione, ingiustizia sociale....
Non riesco a seguire un telegiornale, senza provare una rabbia furiosa, vorrei gridare e poter parlare con ogni
singolo cittadino, chiedergli perchè non reagisci, perchè abbiamo permesso ad un pugno di uomini privilegiati
di ridurre così il mondo, ma soprattutto l' Italia?
Monarchi arroganti, abbronzati, freschi di parrucchiere con la pancia e i portafogli pieni, uomini
che non conoscono, l' onestà, il lavoro i sacrifici. Uomini che ci fanno i conti in tasca, prendono decisioni sulla
nostra vita, la nostra salute, il nostro futuro.
Siamo disarmati, sudditi di Caligola.
Cosa possiamo fare per salvarci, se non fingere di essere cavalli?
Nuvola
"è meglio essere odiati per ciò che siamo, che essere amati per la maschera che portiamo" J. Morrison
RispondiEliminaBuona Giornata ed abbraccio
Feau
zialaura, un auspicio bello che mi fa piacere ricevere da te. Ciao :-) Abbraccio ricambiato.
RispondiEliminaNuvola carissima, ti dovrò scrivere per bene in privato. Qui raccolgo il tuo triste sfogo e ringrazio per gli apprezzamenti. Una "commentatrice" come te - è bene che tu lo sappia - la vorrei fissa qui da me. E che Morfeo possa visitarti presto ogni sera.
Un caro, carissimo abbraccio :-)))
Feau, bella frase, anche condivisibile penso. Buona giornata anche a te e grazie per le tue apparizioni.
Un abbraccio