Un altro anniversario da celebrare. Quindici anni trascorsi invano a causa dello sgretolamento della legislazione antimafia, come annotava amaramente martedì sera, nell’ottima trasmissione giornalistica condotta da Riccardo Icona, il sostituto procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Ma almeno, a noi che è concesso, ricordiamo per ravvivare la memoria storica. In un altro paese Falcone e Borsellino sarebbero diventati eroi, tutelati dallo Stato e non isolati (è il senso del racconto di Alexander Stille che andrà in onda lunedì sera su Rai Tre alle ore 21:00). Ammoniva Bertold Brecht: “Beato il paese che non ha bisogno di eroi”. Noi, invece, che di eroi autentici avremmo bisogno, siamo solo uno sventurato Paese che corre impazzito verso la rovina, usurato eticamente e politicamente. Ormai in decomposizione.
Per ricordare, appunto, ho pensato che non ci fosse di meglio che rievocare quella maledetta domenica 19 luglio 1992, attraverso i resoconti giornalistici, nella fattispecie de “la Repubblica”. Ho scelto quattro pezzi, di cui uno scritto dopo la strage di Capaci, sulla possibilità che fosse proprio Paolo Borsellino ad essere nominato Procuratore nazionale antimafia. Due di martedì 21 luglio (la Repubblica a quel tempo non usciva il lunedì, sull’archivio digitale non c’è traccia di un’eventuale edizione straordinaria e la memoria non mi soccorre in questo momento). L’ultimo, del 22, contenente la terribile profezia di Paolo Borsellino. Assieme al magistrato morirono in via D’Amelio gli agenti di scorta Agostino Catalano (caposcorta), Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto è Antonino Vullo. (fonte Wikipedia).
la Repubblica - Sabato, 30 maggio 1992 - pagina 2
dal nostro inviato GIUSEPPE D' AVANZO
L' ASSALTO ALLO STATO Le reazioni del magistrato dopo la proposta del ministro dell'Interno Scotti
E BORSELLINO ORA ATTENDE
' Superprocuratore? Vedrò se candidarmi...'
PALERMO - Alle otto in punto, come sempre, Paolo Borsellino è nel suo ufficio di procuratore aggiunto di Palermo. Con un peso sulle spalle in più. Detto nel più semplice dei modi, il governo - il ministro degli Interni - vede in lui l'uomo che può raccogliere l'eredità di Giovanni Falcone, il giudice che può continuare il lavoro interrotto dal tritolo di Capaci. Vincenzo Scotti glielo chiede esplicitamente: deve essere Borsellino il nuovo procuratore nazionale antimafia. Paolo Borsellino è nervosissimo. Ha il volto tirato, ha modi inusualmente bruschi. E' stato a Roma nel pomeriggio di giovedì, è tornato a Palermo nella notte. Dalle 8 in punto il telefono non smette di trillare. Paolo Borsellino è stanco di interviste. Lo dice chiaro e tondo: "Non posso vivere così, signori miei. Non sono abituato e non voglio abituarmi a lavorare con i giornalisti in attesa fuori la porta". Ma è l'uomo del giorno, è l'uomo che la strage di Capaci ha chiamato sotto i riflettori. Procuratore Borsellino, quando il governo ha chiesto la sua disponibilità per la Procura nazionale antimafia? "Nessuno ha chiesto la mia disponibilità". Nessuno le ha anticipato la proposta del ministro degli Interni Scotti? "No, ho ascoltato per la prima volta la proposta di Scotti in pubblico, come tutti alla presentazione del libro di Pino Arlacchi". In ogni caso, ora, la proposta c'è. Scotti, a nome del governo si augura che, dopo la morte di Giovanni Falcone, si riaprano i giochi per l'incarico di Superprocuratore e auspica che lei presenti la sua candidatura. Che cosa farà? "Io non considero questo problema attuale. Non posso non considerare che è in corso una procedura che deve avere, avrà i suoi sbocchi naturali". Martelli ha annunciato oggi che sta predisponendo un provvedimento legislativo che possa riaprire i termini per la presentazione delle candidature. Ora ammettiamo che quest'iniziativa vada in porto. Lei presenterà la domanda? "Quando, e se, il problema diventerà attuale come tutti gli altri possibili ed eventuali candidati valuterò l'opportunità di presentare domanda". Della necessità di un organismo giudiziario che coordini le indagini antimafia Borsellino non ha dubbi. Lo ha ripetuto anche ieri dai microfoni del Gr1. Gli hanno chiesto: rimane l'esigenza di avere un nucleo centrale dove convogliare le indagini? Ha risposto: "La gestione del tutto insoddisfacente delle dichiarazioni di Calderone hanno inciso enormemente sulla decisione di Falcone di lasciare la procura di Palermo. Giovanni si era reso conto che, con l'imposizione di una visione parcellizzata del fenomeno mafioso, non fosse possibile da un'unica sede giudiziaria ripetere quello che era successo nella fase originaria del maxi- processo. Ebbe l'occasione di andare a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia dove si impegnò soprattutto nello studio di un'organismo giudiziario che potesse ricreare, anche se per diversa via, quelle condizioni che erano proprio alla base della filosofia del pool antimafia". Allora, qual è la chiave? "Il lavoro di Falcone al ministero ebbe, sotto questo profilo, successo. Si è arrivati alla creazione di questo organismo in grado di avere una visione d'assieme rispetto alle singole fette dei vari processi che si occupano di organizzazione mafiosa. Purtroppo l'assassinio ha stroncato la possibilità di utilizzare questo strumento che avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operò, nel suo periodo migliore, il pool antimafia di Palermo". Paolo Borsellino oggi più che della sua candidatura preferisce parlare di quanto sarebbe stato utile Falcone come procuratore nazionale antimafia. Procuratore, tuttavia, Giovanni Falcone si è trovato molto isolato quando ha sostenuto la nascita della Direzione nazionale antimafia. "Giovanni a volte peccava di ottimismo presupponendo che i magistrati potessero sostenere le sue iniziative. Peccò di ottimismo quando doveva prendere il posto di Antonino Caponneto all'ufficio Istruzione, quando si candidò al Consiglio superiore della magistratura, quando si mise in corsa per la Superprocura. In più occasioni non è stato sostenuto dall'associazione dei magistrati, dal Csm". Non è che a Palermo, Falcone abbia avuto miglior sorte "Voglio sfatare questo luogo comune. Io credo che a Palermo, presso la magistratura siciliana, la media del consenso nei suoi confronti sia stata più alta che altrove. La gran parte dei magistrati di Palermo, anche quelli che hanno avuto con lui dei disaccordi, sapevano che il procuratore nazionale antimafia doveva essere lui". Lei si è dato molto da fare nella sua corrente per sostenere la candidatura di Giovanni Falcone... "Io ho assunto posizioni pubbliche. Ad un convegno a Torino di Magistratura Indipendente ho sostenuto che la corrente dovesse appoggiare Giovanni Falcone...". Risulta, in verità, che lei abbia fatto di più: con la collaborazione di Ernesto Staiano, avrebbe conquistato il consenso per Falcone di quattro dei cinque membri di Magistratura Indipendente presenti nel Csm. Voti utilissimi che avrebbero dato a Falcone la maggioranza nel plenum del Consiglio. "Sì, io avevo tratto la conclusione che la nomina di Giovanni a procuratore nazionale antimafia era sostenuta dai numeri, era cosa fatta". Ora potrebbe toccare a lei diventare procuratore antimafia. Hanno molto impressionato in questi giorni alcune sue dichiarazioni. L'ultima in ordine di tempo è questa. Lei ha detto stamattina al Gr1: "Ciò che è difficile questa volta è trovare lo stesso entusiasmo. Spero che l'entusiasmo me lo possa far tornare una rapida conclusione delle indagini sull'assassinio di Falcone". "Non nascondo, l'ho detto pubblicamente, di avere paura di perdere l'entusiasmo per il mio lavoro di magistrato. Nonostante questo timore continuerò a lavorare in questo ufficio dove mi trovo benissimo, continuerò a lavorare come sempre, come da anni faccio, con lo stesso impegno".
la Repubblica - Martedì, 21 luglio 1992 - pagina 4
dal nostro corrispondente ATTILIO BOLZONI
L' ITALIA IN TRINCEA Tra accuse e dolore si cerca una pista per il massacro: la mafia di Agrigento o i segreti di Falcone?
DI STRAGE IN STRAGE
'Avevamo chiesto più controlli in quella strada'. L' esplosivo - quasi un quintale - era nascosto sotto un'auto in sosta. Borsellino, grazie ai pentiti, era sulle tracce dei killer di Livatino
PALERMO - E' stato un bombardamento, hanno bombardato Palermo per seppellire fra le macerie di un quartiere il cadavere di Paolo Emanuele Borsellino. Con il suo coraggio di siciliano onesto, con i suoi segreti di procuratore, con la donna e i quattro uomini che lo proteggevano servendo lo Stato. Carne da macello, sopravvissuti di un'altra èra, bersagli inermi saltati in aria in un caldo pomeriggio d'estate alla periferia di una città senza scampo. Perché l'hanno ucciso? E cosa dobbiamo scrivere questa volta? Volete sapere come muore un magistrato della Repubblica in Sicilia, volete sapere perché ci sono volute nove ore per ritrovare pezzi di gambe e di braccia disseminati lungo una strada sventrata dall'autobomba? Bene, probabilmente nessuno ve lo racconterà mai, nessuno sarà mai in grado di dirvelo, di spiegarlo ai suoi figli, di spiegarlo ai figli, ai fratelli, alle madri e ai padri di quei poliziotti morti sul campo di Palermo, morti in guerra, bruciati, disintegrati da 80 chili di esplosivo sintetico piazzato sotto un'anonima "Seat Ibiza" di colore azzurro. Dietro l'ultima strage, dopo l'ultima strage annunciata, c'è il tutto e c'è il niente, ci sono mille piste e nessuna, ci sono indizi che si perdono nel vuoto e voci, le più incredibili voci che accompagnano quindici anni di inchieste che attraversano mezza Sicilia. La mafia di Agrigento, le cosche di Mazara del Vallo, i boss che confessano le loro colpe solo a lui, gli intrecci con la politica, i segreti confidati dall'amico Falcone, una nuova pista sul delitto Lima, una vecchia pista sulle guerre fra cosche, un nuovo pentito di Caltanissetta, un vecchio pentito di Trapani. Chi potrà mai dire perché è morto Paolo Emanuele Borsellino? Chi lo scoprirà mai in questa Sicilia, qui dove non s'è scoperto mai niente? Il giorno dopo un pomeriggio di angoscia passato a fissare i vigili del fuoco che non riescono a estrarre la gamba di una ragazza poliziotto incastrata nel cemento, passato a respirare le folate di nafta portate dal vento caldo, a vedere i frammenti di cervello umano incollati al quinto piano di un palazzo, il giorno dopo resta l'incubo e l'incertezza. Le indagini? Se ne dicono tante, tutti parlano ma nessuno sa qualcosa di sicuro, di vero, tante piccole tracce che conducono alla mafia di provincia, alla mafia più feroce e più potente, a quella mafia che per Falcone e lo stesso Borsellino "comandava su Palermo". E cominciamo allora a raccontarvi del viaggio che aveva in programma Paolo Borsellino, una missione in Germania per ascoltare un pentito. Uno di quelli che stava svelando grandi misteri sull' organizzazione denominata Cosa Nostra. Chi è? Il suo nome è top secret, come sarebbe dovuto rimanere segreto anche quello di un altro collaboratore della giustizia della provincia di Caltanissetta che ha deciso di parlare. Tutti e due, il "tedesco" (un agrigentino che vive in Germania) e quello di Caltanissetta, hanno svelato nelle ultime settimane molte cose sulla mafia, molte cose degli ultimi mesi, notizie di prima mano. E a riceverle era stato soprattutto lui, Paolo Emanuele Borsellino. Di lui si fidavano, in lui credevano. Ecco cosa ci ha detto un magistrato molto amico di Borsellino: "Ho sentito Paolo sabato mattina, gli ho chiesto che ne pensava della sentenza della Corte di Assise di Appello nel processo Lipari, mi ha risposto: ' Ne parliamo quando torno dalla Germania, ma ormai ho tutto chiaro, su Agrigento ho capito tutto, ho capito tutto sulla morte del giudice Rosario Livatino, ho capito tutto sulla morte del presidente Saetta, ho idee chiare anche sull' uccisione del maresciallo dei carabinieri Guazzelli e sulla mafia di Palma di Montechiaro' ... questo mi ha detto Paolo sabato mattina, il giorno prima...". E questa è una pista, la prima pista con un minimo di concretezza per tentare di dare un movente alla strage di domenica. E' vero, è un po' poco, ma è tutto quello che c'è. E sempre sulla frontiera della provincia mafiosa il procuratore aggiunto di Palermo, che da sei mesi aveva ricevuto l'incarico di indagare proprio sulle cosche di Agrigento, di Trapani, di Caltanissetta, aveva confidato a un altro amico magistrato: "Il mio problema è il tempo, lotto da giorni contro il tempo, devo fare presto, molto presto...". Il procuratore temeva qualcosa, sapeva che doveva chiudere subito le sue inchieste sulla mafia di provincia con una serie di operazioni, era sicuro che non poteva aspettare oltre. Anche perché uno di quei pentiti che aveva incontrato (proprio quello di Caltanissetta, un sicario, il suo nome è inspiegabilmente noto a tutti già da un mese) ha svelato pure il piano per uccidere due poliziotti della sua città. E' nella rabbia e nella potenza dell'inesplorata mafia di provincia la firma della strage di domenica? Dietro quei sei morti c'è però dell'altro, ci sono parole pronunciate da Borsellino appena un paio di giorni dopo l' uccisione di Giovanni Falcone. Il procuratore Borsellino ha parlato a lungo con il procuratore Celesti, il magistrato che fino a una settimana fa conduceva l'inchiesta sul massacro dell' autostrada. E al suo collega ha raccontato molto probabilmente tutto quello che sapeva sull'uccisione del suo amico Giovanni, gli ha raccontato tutto quello che Falcone gli aveva detto, tutto quello che non sempre si può scrivere subito in un rapporto, che non può diventare subito atto ufficiale. E anche in questo faccia a faccia fra procuratori, in questa "Falcone story" descritta da Borsellino può nascondersi il movente della sua morte. Per quello che ha detto, per quello che ha annunciato di rivelare, a cominciare dai diari: "Sono autentici... Giovanni me li ha fatti vedere...". Questa è la seconda pista per decifrare l'autobomba. Pista nebulosa che arriva da lontano, almeno dalla mattina del 12 marzo. Mondello, i vialetti che portano il nome di antiche principesse, l'onorevole Lima che muore ammazzato. E appena due mesi dopo c'è la strage dell'autostrada, e appena altri due mesi dopo c'è Borsellino che salta in aria con la sua scorta. Tre massacri legati uno all'altro, un uomo che muore su una sponda, tutti gli altri che cadono sull'opposto fronte ma colpiti tutti probabilmente dalla stessa fazione, dalla stessa mafia. Un'azione di guerra dentro la città di Palermo, l'ultima terrificante scorribanda nella città laboratorio di morte e di veleni. "Sì, è un fatto di guerra che rientra nelle pagine più tragiche della storia del terrorismo internazionale, sono pagine degne di città come Beirut", dice con un filo di voce il capo della polizia Vincenzo Parisi appena sbarca in Sicilia. Beirut è in via D'Amelio, sei palazzi, il più basso di otto piani, il più alto di tredici. Quasi trecento metri di strada cosparsa dall'olio e dalla benzina di 51 auto volate in cielo alle 16,55 di domenica, quasi trecento metri di distruzione. Beirut è in via D'Amelio. Dove una volta c'era il covo di Nino Madonia, quello trovato dalla polizia e da Falcone nell' 89 con il librone delle estorsioni. Dove non ci sono mai state quelle "zone rimozioni" anti autobomba disseminate a ogni angolo di Palermo. Eppure lì abitava la madre di uno degli uomini più "a rischio", eppure già due settimane fa qualcuno aveva chiesto maggiori protezioni su quella strada. E lo gridavano domenica notte gli uomini delle scorte. Il ministro Martelli ha voluto spiegazioni dal prefetto e dal questore sulle misure di sicurezza che non c'erano. Il prefetto risponde che nessuno ha mai chiesto nulla. Ma che importa adesso? Che importa, la "Seat Ibiza" sotto la quale hanno sistemato quegli 80 chili di Sintex era addirittura l'auto di un inquilino del palazzo di via D'Amelio 19. Più facile di così, i mafiosi assassini non hanno fatto neanche fatica. Forse qualcuno li ha visti, ma neanche questo importa adesso. Adesso che l'Fbi offre un'altra volta la sua collaborazione per la ricerca dei colpevoli "del codardo attentato", adesso che una cartomante e una confidente spiegano che loro "l'avevano detto che un giudice doveva morire", adesso che s'è anche scoperto che il radiocomando è stato azionato da un punto X a meno di 200 metri. Adesso che una breve nota di agenzia informa sui risultati dell'autopsia: "La tremenda esplosione ha tranciato di netto a Borsellino gambe e braccia...". Adesso che un vigile del fuoco trova in un angolo di via D'Amelio una mano, una mano con unghie ben curate, la mano destra della poliziotta Emanuela Loi. Adesso, qui, a Palermo, città senza scampo.
la Repubblica - Martedì, 21 luglio 1992 - pagina 1
di GIORGIO BOCCA
LE BRIGATE NERE DELLA PIOVRA
NON VEDEVO Paolo Borsellino da quattro anni, da quando lavorava con Falcone, Di Lello e Ayala al pool antimafia, piano terreno del Palazzo di giustizia, a Palermo, reparto di massima sicurezza e noi cronisti del continente vi entravamo con emozione e rispetto, era la prima volta che incontravamo uno Stato giovane e forte, un corpo di giudici crociati nella guerra contro la Mafia, una forte speranza nella Palermo che Durrenmatt ricorda "come rosa dalla lebbra". E INVECE, ora lo sappiamo, erano quei quattro gatti coraggiosi, invisi alla maggioranza dei quindici, gelosi della loro notorietà, preoccupati o infastiditi per la breccia che avevano aperto nella loro routine. L'ho rivisto nel dicembre scorso e in quell'incontro Borsellino mi ha spiegato le ragioni per cui è morto. Né presago né rassegnato, anzi ben deciso a battersi e persino ottimista. La prima ragione della morte sua e di Falcone è l'isolamento in cui vivono e operano i giudici coraggiosi. Gli chiesi di come era stato combattuto e spaccato il pool antimafia e lui diceva, con quella sua capacità di storicizzare, di mettersi come fuori dalla vicenda: "Guardi, io non credo a un disegno politico che partiva da Andreotti e attraverso i Lima, i Vitalone e i Carnevale arrivava al Consiglio superiore della magistratura e da esso a Palermo. Forse è bastato il radicato vizio della corporazione, la regola principe dell'anzianità che fa grado, che ti permette di programmare una vita, che uccide il senso della responsabilità e copre tutto con la patina della routine. Nel sangue della maggioranza dei magistrati c'è come un anticorpo per il magistrato diverso che osa, che fa, che inventa dove tutti tirano a campare. Si dice in giro che Corrado Carnevale è inviso ai giudici di merito, ai giudici giudicanti. Non è vero, è colui che gli ha suggerito gli strumenti garantisti e supergarantisti che gli consentono di atteggiarsi a giudici 'terzi' imparziali esecutori della forma giuridica". Già, ecco la prima ragione per cui i Borsellino e i Falcone muoiono e gli altri, molti altri, vanno avanti all' infinito senza mordere mai nel corpo velenoso della Mafia. La seconda ragione per cui Falcone e Borsellino sono morti, Borsellino me la diceva nella sua casa, nel suo studio da notaio umbertino, da avvocato dannunziano come lo sono ancora, spesso le case degli italiani moderni e innovativi in tutto fuor che in quella scenografia casalinga, ed era l'uso dei pentiti, il passo decisivo nella lotta alla mafia che sono i pentiti. "Vede - diceva - i pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro ma vogliono che sia affidabile, che sappia davvero usarli per colpire i loro nemici. E' un do ut des che ha i suoi rischi: loro vogliono vendetta, noi giustizia. A Totuccio Contorno la Mafia ha ucciso quarantasei parenti, a Buscetta trentasei. Ma chi è il giudice a cui un pentito si rivolge? Un giudice tira a campare che si laverà le mani del loro caso e della loro sicurezza? No, è un giudice disposto a battersi. Ma un giudice che dispone di grandi pentiti agli occhi dei colleghi appare come un privilegiato, uno che fa un gioco scorretto. Di Falcone hanno detto addirittura che aveva fatto venire Contorno dagli Stati Uniti per uccidere i corleonesi, che lo lasciava libero perché uccidesse i corleonesi. Il giudice che sa guadagnarsi la fiducia dei pentiti è in lotta su due fronti: contro la Mafia per cui il pentito più che un testimone pericoloso è l'eresia, l' uscita dalla chiesa mafiosa e contro la corporazione". Aveva perfettamente ragione Borsellino anche se non era per nulla presago, anche se era pieno di voglia di fare, di scoprire. La terza ragione per cui Falcone e Borsellino sono stati uccisi è quella di cui ha parlato anche il presidente della Repubblica quando ha detto: lo Stato per essere credibile deve essere rappresentato da persone credibili. Ma questo non lo è, nel governo di questa Repubblica, nel Parlamento di questa Repubblica ci sono, e tutti le conoscono nome per nome, persone che sono lì per i voti della Mafia o della Camorra. Chiedevo a Borsellino: "Lei che idea si è fatta del rapporto politica- Mafia?" Diceva: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui si possono accordare è la spartizione dei beni pubblici, il profitto illegale sui lavori pubblici. Ecco perché i mafiosi e i camorristi hanno deciso di entrare nei municipi, nelle Usl, nelle province, nelle regioni e per noi giudici è sempre più difficile stare al passo di queste combinazioni, non è facile essere i difensori di uno Stato in cui molti, troppi sono amici dei mafiosi". Non è davvero facile. I colpi di mitra che hanno ucciso Lima e Ligato volevano dire: non si esce impunemente dalla nostra società. Le cariche di dinamite che hanno ucciso Falcone e Borsellino vogliono dire: nessuno si metta in testa in questo paese di fare sul serio la guerra alla Mafia. Nel disfacimento di questo regime i mafiosi sembrano avere la parte sanguinaria e crepuscolare che nella repubblica di Salò ebbero le brigate nere. Gli uomini di regime, i politici, tenevano pronto l'abito borghese per fuggire, avevano già trovato mezzi e amicizie per salvarsi, ma gli altri, quelli senza scampo continuavano a far strage. Sì, c'è un legame fra questo sistema che si estingue e la ferocia mafiosa.
la Repubblica - Mercoledì, 22 luglio 1992 - pagina 5
di UMBERTO ROSSO
IL GIORNO DELL'IRA
BORSELLINO SAPEVA: ' QUEL TRITOLO E' PER ME'
Ma nel rapporto ci sono altri 4 nomi. In un documento segreto del Ros, il reparto operativo speciale dei carabinieri, erano indicati i nuovi bersagli della Piovra. Che fine hanno fatto le informative che annunciavano la strage? Scoppia il giallo sugli avvertimenti e sulle segnalazioni non raccolte. Le piste si accavallano. Si parla di intercettazioni telefoniche, di pedinamenti, di una talpa che ha tradito il giudice
PALERMO - "Il tritolo è arrivato anche per me, lunedì scorso...". Paolo Borsellino sapeva. Sapeva perfettamente che ormai era soltanto una questione di giorni. Era arrivata una segnalazione precisa: Cosa nostra intendeva chiudere, subito, anche questo "conto" in sospeso. E la segnalazione precisa era contenuta in un rapporto del Ros, il reparto operativo speciale dei carabinieri, dove, sulla base di notizie confidenziali, erano stati evidenziati i nuovi probabili obiettivi della mafia. Paolo Borsellino in primo luogo, e il suo più stretto collaboratore, il maresciallo Carmelo Canale. Quindi un capitano del Ross, Roberto Sinico, e poi due politici, Salvo Andò, attuale ministro della Difesa e l'ex ministro per il mezzogiorno Calogero Mannino. Adesso si apre un giallo su questi avvertimenti non raccolti dagli organi di sicurezza, mentre altri elementi rendono il copione drammaticamente simile a quello della strage Falcone. E' sbarcata la squadra dell'Fbi, per collaborare alle indagini, mentre sono stati nominati i quattro superesperti del Cis per le perizie sull'esplosivo. Cominciati gli interrogatori dei colleghi di Borsellino: fra i primi ad essere sentiti il procuratore Giammanco e altri tre sostituti. Ascoltati soprattutto per ricostruire le ultime indagini di Borsellino, in particolare quelle sui pentiti. Per il resto, continua il balletto sulla ricostruzione dell'attentato: adesso si torna all'ipotesi dell'auto imbottita di esplosivo, e non a quella di un borsone al tritolo piazzato sotto un'auto in sosta. Di certo c'è che Paolo Borsellino sapeva d'essere in gravissimo pericolo. Una prima segnalazione era già arrivata ai primi di luglio, parlava di un carico di esplosivo in viaggio per la Sicilia, destinato proprio a lui. Lo stesso Borsellino però non aveva dato gran peso all'informativa, gli sembrò una delle tante minacce di morte. Poi, la settimana scorsa, è accaduto qualcosa: con tutta probabilità un secondo segnale. Stavolta fortissimo, attendibile, dettagliato. E Borsellino capisce che la sua vita è ormai appesa a un filo. Lo confida, appena qualche ora prima di saltare in aria, a Giuseppe Tricoli a casa del quale aveva pranzato. Gli rivela appunto che quel tritolo è pronto. Tricoli ricorda anche che l'amico Paolo gli disse di aver informato moglie e figli del tunnel nero ormai vicinissimo. E il giorno prima dell'"appuntamento" con la morte, il procuratore aggiunto di Palermo entra nella chiesetta di Santa Luisa de Marillac - dove si celebreranno i suoi funerali - e si inginocchia. Prega, poi si confessa per l'ultima volta. Ma che fine hanno fatto quelle segnalazioni, le informative che annunciavano la strage? In via D'Amelio non è mai scattata la zona rimozione antibomba. Si alza, incontrollabile, il solito balletto di smentite e di polemiche. LA TALPA - C'è un traditore? Per rispondere il pool del procuratore Giovanni Tinebra sta cercando di risolvere un rebus. Paolo Borsellino era già stato in via D'Amelio, sabato pomeriggio, esattamente ventiquattro ore prima dell' attentato. Era andato, ancora una volta, a trovare la madre, che stava aspettando una visita medica domiciliare. Il medico poi telefonò, spostando all'indomani l'appuntamento. Ma perché il commando non entrò in azione quel giorno, quando Borsellino spuntò nella strada della morte? E' una domanda cruciale per le indagini. La risposta: perché il commando non aveva ricevuto l'informazione giusta, l'input di morte arrivò invece il giorno successivo. Sembra difficile ipotizzare infatti uno scenario diverso, cioè che il commando abbia agito senza disporre di infiltrati. In questo caso i killer avrebbero dovuto seguire i movimenti del magistrato, disporre di una base operativa nella zona. Assolutamente pronti, allora, a premere il bottone all'arrivo del bersaglio prescelto, in qualunque momento. C'è poi un altro particolare: da un paio di settimane il giudice non andava a trovare la madre. I killer, allora, sarebbero dovuti rimanere per una quindicina di giorni nascosti in zona. Troppi. LE INTERCETTAZIONI - Ma si parla anche di telefoni sotto controllo, come ha ipotizzato ieri lo stesso ministro Mancino. Dal cellulare di Paolo Borsellino potrebbe essere partita la telefonata che preannunciava alla madre il suo arrivo. Con uno "scanner", si possono intercettare i telefonini, ma soltanto in circostanze fortuite. Per questo la pista non viene giudicata molto attendibile, anche se gli esperti stanno ricostruendo tutto il traffico e le telefonate effettuate dal magistrato. La stessa operazione compiuta sul telefonino di Giovanni Falcone. Ma anche qui torna l'altra ipotesi, quella che cioè Borsellino sia stato semplicemente pedinato. Il giudice era abbastanza abitudinario, di rado saltava la visita domenicale alla madre. LA PROTEZIONE - Resta ancora senza una spiegazione ufficiale quel mancato divieto di sosta antibomba nella strada della strage. Ayala ha confermato: quella via era al secondo posto nella scala delle zone a rischio di Palermo, da quindici giorni si parlava invano di far scattare misure adeguate. Borsellino, al ritorno da un viaggio in Germania, dove a Mannheim ai primi di luglio aveva sentito un pentito, raccontava - assai impressionato - delle misure di protezione predisposte dai tedeschi: otto vetture lo avevano tutelato, con un macchina "apripista", era stato registrato sotto falso nome in albergo e i suoi telefoni tenuti sotto controllo dalla polizia. LA PISTA TEDESCA - Proprio in Germania sarebbe tornato per continuare gli interrogatori di un pentito di Agrigento che stava raccontando i retroscena dei delitti Livatino, Guazzelli, Saetta. Ma altri tre collaboratori si "confidavano" con il procuratore aggiunto. Nomi ora forse bruciati, dopo le "confidavano" con il procuratore aggiunto. Nomi ora forse bruciati, dopo le indiscrezioni finite sui giornali, fra la grande rabbia dei giudici. C'è un grosso trafficante di droga che sta parlando della rotta orientale dell'eroina, ma anche un ex esponente della "alta finanza" milanese che parla del denaro sporco e del riciclaggio.
si continui a lottare per la verità. la mafia è stato solo il braccio armato. Dov’è la sua agenda?
RispondiEliminaLa verità è che la mafia-camorra-n'drangheta sono ormai diventate struttura integrata e indispensabile del nostro sistema economico e quindi politico.
RispondiEliminaComincio a dubitare che ce ne libereremo mai...
Carissimo..il blog è sempre interessantissimo e prezioso per informazione, tuttavia la pagina si carica molto a fatica impallando spesso il pc.. consiglio post più brevi se possibile, o con scadenza settimanale in modo da non averne troppi da caricare.
Anche io ho visto quella trasmissione e ne sono rimasta amareggiata. Il chiaro disincanto con cui esponeva i fatti Gratteri era crudamente reale.
RispondiEliminaUn saluto,
AnnA