La
Grecia siamo noi
Guido
Viale
A
due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle sue finanze (ma
gli interessati, in Germania e alla Bce, lo sapevano da tempo: erano
stati loro a nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla
cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi) presenta l'aspetto
di un paese bombardato: un'economia in dissesto; aziende chiuse;
salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al
collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti;
ospedali senza farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse
iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora
anche una città in fiamme.
Ma
a bombardare il paese non è stata la Luftwaffe, bensì il debito
contratto e confermato dai suoi governanti di ieri e di oggi
nell'interesse della finanza internazionale. Con la conseguenza che,
a differenza di un paese uscito da una guerra, in Grecia non c'è in
vista alcuna "ricostruzione", o "rinascita",
"ripresa"; ma solo un fallimento ormai certo - e dato per
certo da tutti gli economisti che l'avevano negato fino a pochi
giorni o mesi fa - procrastinato solo per portare a termine il
saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che
detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi
però c'entrano eccome.
All'origine
di quel debito, oltre alla corruzione e all'evasione fiscale, ci sono
le Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l'acquisto
di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e
Germania come contropartita della "benevolenza" europea,
per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil.
Quattro
fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò, o
Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano
strettamente Grecia e Italia. Ma non solo.
Nel
pacchetto, il quinto in due anni, delle misure imposte alla Grecia -
liberalizzazioni di tariffe, mercati e lavoro, privatizzazioni dei
servizi pubblici, blocco delle assunzioni, definanziamento di scuole,
ospedali, Università, servizi sociali - c'è pari pari il programma
del governo Monti (anch'esso cucinato da Bce e Commissione europea).
La Grecia è solo un anno più avanti di noi sulla strada del
disastro e Monti è il Papademos italico incaricato di accompagnarvi
l'Italia spacciandosi per il suo salvatore e garantendone il
saccheggio.
Aggiungi
il patto di stabilità (Fiscal Compact) che impone di riportare il
debito di entrambi i paesi, ormai chiaramente in recessione, al 60
per cento del PIL in regime di parità di bilancio, e avrete i
termini di una politica senza ritorno imposta da una classe al potere
senza un'idea di futuro che non sia la propria perpetuazione. Per
loro contano solo i bilanci: tutto il resto crepi!
Quando
l'Unione europea avrà tagliato gli ormeggi alla Grecia per
abbandonarla alla deriva, avrà messo il vascello in condizioni di
non poter più navigare per decine di anni.
Nessuno
degli economisti entusiasti degli "sforzi" di Monti ha la
minima idea di come si possano raggiungere gli obiettivi del Fiscal
Compact. E allora? Il fatto è che per loro "non c'è
alternativa"; perché non sanno immaginare un futuro diverso dal
presente: all'Università non lo hanno studiato e non si sono dotati
di strumenti per concepirlo (tranne che per le loro carriere). "Non
esiste un piano B per la Grecia, ha detto Draghi. Ma nemmeno per
l'Italia. Per questo Monti non è la soluzione, ma il problema.
Ma
un "piano B" per l'Europa va messo a punto, e in fretta;
perché quello "A" è un strada senza uscita; e non si fa
politica, né opposizione, senza un'idea sul da farsi appena il
contesto la renda plausibile. E quel momento potrebbe essere vicino,
perché il mondo sta cambiando in fretta.
Ma
l'Italia non è la Grecia, ripetono i supporter di Monti. E perché
mai? Perché l'Italia ha un tessuto industriale robusto e perché è
"troppo grande per fallire". Due tesi per lo meno parziali.
Neanche la Grecia era priva di un tessuto industriale, anche se
fragile, che le manovre deflattive imposte dalla Troika hanno mandato
in pezzi. Una vicenda attraverso cui erano già passati anni fa - e
per decenni - molti paesi dell'America Latina presi per la gola dal
FMI.
Quanto
all'Italia, un inventario dei danni prodotti dal ventennio
berlusconiano, non solo sullo "spirito pubblico" - e non è
poco - ma anche sul tessuto industriale non è ancora stato fatto. Ma
accanto ad alcune medie imprese che si sono ristrutturate ed
esportano, tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e
Fincantieri) sono alle corde e nel tessuto industriale residuo chiude
una fabbrica al giorno.
"Non
si produce più niente" ripetono coloro che guardano la realtà
senza lenti deformanti. Ma non è che tra un mese o tra un anno (o
anche due) quelle fabbriche riapriranno, gli operai ritorneranno al
loro posto di lavoro e le aziende riprenderanno a produrre come
prima.
Un
enorme patrimonio di esperienze, di professionalità, di knowhow, di
attitudine all'innovazione e al lavoro di gruppo viene disperso e
scompare per sempre. Né ci sono in vista iniziative imprenditoriali
in grado di mettere al lavoro, avviandole dal nulla, nuove
produzioni, nuovi addetti e risorse gestionali in grado di riempire
quei vuoti.
E
quanto agli investimenti stranieri, sono bloccati dall'articolo 18,
dalla mancanza di infrastrutture come il Tav Torino Lione, dalle
tasse troppo alte che nessuno paga, o dalla corruzione e dalla
burocrazia che il governo Monti si è tirato in casa? BCE e governo
Monti sono destinati a imprimere una accelerazione decisiva al lungo
declino dell'economia italiana.
In
secondo luogo, se l'Italia è troppo grande per fallire, è anche -
come ci viene ripetuto spesso -"troppo grande per essere
salvata". Qui sta la sua forza e la sua debolezza. La debolezza
è quel continuo richiamo a fare "i compiti a casa"
(un'espressione da deficienti) e a "cavarsela da sola"
(sulla base, però, dei diktat di altri). Un compito impossibile, che
i governi greci hanno già provato a svolgere nonostante la sua
palese assurdità.
La
forza sta nel fatto che se il governo Italiano non sarà in grado di
azzerare il deficit e dimezzare il debito, o anche solo di
rifinanziarlo, perché il suo PIL precipita, "salta" anche
l'euro - il che, forse, è già stato messo in conto. O verrà messo
in conto tra poco - ma salta anche, probabilmente, l'Unione europea e
con essa l'economia di mezzo mondo. E forse anche quella dell'altra
metà. Non siamo più negli anni '30, quando la partita si giocava
tra cinque o sei Stati. Il circuito finanziario ha ormai coperto e
avviluppato l'intero pianeta.
Un
piano B per l'Europa deve innanzitutto evitare un default disordinato
(come ormai viene chiamata la prossima bancarotta degli Stati a
rischio di insolvenza; e non sono pochi) e promuovere un "concordato
preventivo": cioè un accordo che dimezzi in modo selettivo i
debiti pubblici che non possono essere ripagati o che ne sterilizzi
(con una moratoria delle scadenze) una buona metà. Il che
trasferirebbe l'insolvenza sulle banche, costringendo anche la BCE e
gli Stati più forti e arroganti a correre in loro soccorso: con
nazionalizzazioni, "bad bank" e separando finalmente il
credito commerciale dal pozzo senza fondo degli investimenti
speculativi. Quanti più saranno gli Stati a rischio che si impegnano
su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla.
Certamente,
sia che l'euro venga conservato, sia che si torni alle vecchie
divise, il caos economico che incombe sul paese e sull'Europa è
spaventoso; ma non minore di quello in cui ci sta trascinando il
tentativo di rinviare giorno per giorno una resa dei conti. In tempi
di crisi valutaria, ciò con cui bisognerà fare i conti, a livello
nazionale e locale, saranno gli approvvigionamenti: innanzitutto
quelli energetici e alimentari.
L'unica
risorsa a cui attingere a piene mani nel giro di pochi mesi e pochi
anni sono risparmio ed efficienza energetica. La condizione di paese
bombardato apparirà allora in tutta evidenza: spente le luminarie
che non servono per vedere ma per farsi vedere; auto ferme e mezzi
pubblici strapieni (scarseggerà il carburante); orari cambiati per
garantire il pieno utilizzo dei mezzi durante tutto l'arco della
giornata; conversione in tempi rapidi - come all'inizio di una guerra
- delle fabbriche compatibili con la produzione di impianti per le
fonti rinnovabili o di cogenerazione, di mezzi di trasporto
collettivi o condivisi a basso consumo; interventi sugli edifici per
eliminarne la dispersione energetica. ecc. Giusto quello che si
sarebbe dovuto fare - e ancora potrebbe essere fatto - in questi
anni, con esiti economici certo migliori.
Lo
stesso vale per l'approvvigionamento alimentare: occorrerà
restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con
un'agricoltura meno dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno
dipendente da derrate importate: una operazione da mettere in
cantiere con una nuova leva di giovani da avviare a un'attività ad
alta intensità di innovazione e di lavoro che potrebbe cambiare
l'aspetto del paese.
Analogamente
occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul
ciclo di vita dei materiali (risorse e rifiuti), su scuola,
università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e
producono occupazione di qualità. Ma soprattutto ci vorrà una
revisione generale degli acquisti quotidiani: spesa condivisa,
rapporti diretti con il produttore e Km0 (i GAS), riduzione degli
imballaggi e del superfluo, ricorso all'usato e alla riparazione e
alla condivisione dei beni: tutti campi in cui il sostegno di
un'amministrazione locale conta molto.
E
tante altre cose simili su cui occorre riflettere: sono tutti
interventi da concepire, programmare e gestire a livello locale - con
la partecipazione diretta della cittadinanza attiva - che potranno
essere agevolati anche da un circuito parallelo di monete garantite
dalle autorità locali, come era avvenuto con successo in molti paesi
occidentali - compresa la Germania nazista - durante la grande crisi
degli anni '30.
Fantascienza?
Forse; comunque un programma meno irrealistico dell'idea di affidare
alla liberalizzazione dei servizi e dei rapporti di lavoro la ripresa
di una crescita che sottragga l'Italia al cappio del debito; e magari
anche alla crisi ambientale - ah! questa sconosciuta! - che investe
il pianeta.
(17
febbraio 2012)
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