sabato 15 dicembre 2012

I falsi problemi del mercato del lavoro


I falsi problemi del mercato del lavoro

Mario Sai

Il governo Monti motiva i suoi interventi di "riforma" (dalla previdenza al mercato del lavoro) con la necessità di affrontare la questione giovanile, che deriverebbe dalla netta separazione che si è venuta formando tra "garantiti" (i lavoratori sindacalizzati) e "non garantiti" (i giovani precari o i nuovi lavoratori autonomi). In questo contesto la questione dell'art. 18 viene considerata contemporaneamente "marginale" (interessa pochi casi) e "decisiva" (perché senza flessibilità in uscita non si creerebbero nuovi ingressi al lavoro).
Non sono vere né l'una, né l'altra cosa. I lavoratori privati protetti con il reintegro nel posto del lavoro in caso di licenziamenti senza giusta causa sono dieci milioni. La norma ha un'indubbia efficacia generale dimostrata proprio dallo scarso contenzioso che genera. Invece il processo di sostituzione giovani-anziani è in Italia in corso da tempo. Lo dimostra il tasso di occupazione delle persone tra i 60 e i 64 anni: e da noi è al 20 per cento contro una media europea del 30 per cento.
Dove ci sono più anziani al lavoro, come in Germania dove sono quasi il 40 per cento degli occupati, il tasso di disoccupazione si ferma al 5,5 per cento e quello giovanile è al 7,8 per cento, il più basso in Europa. In Italia l'espulsione dei lavoratori anziani va insieme con un tasso di disoccupazione alto (oltre il 9 per cento); l'aumento dei giovani disoccupati (al 31 per cento); un tasso di inattività femminile da record (il 48,9 per cento).
Lo sciopero generale proclamato dalla Cgil avrà tanta forza nel contrastare le politiche del Governo non solo se cresceranno le lotte unitarie nei luoghi di lavoro ma se si creerà anche un vasto fronte di mobilitazione politico-sociale e culturale fondato sul convincimento che la condizione di giovani e anziani, di subordinati e autonomi, di stabili e precari deriva da cause comuni e solo con un programma comune può essere affrontata.
L'Italia è un Paese senza un'idea di sviluppo, senza una politica industriale, senza un piano energetico. Mentre il Governo Berlusconi si trastullava con il nucleare, la Cina è diventata il primo produttore mondiale di infrastrutture per lo sviluppo sostenibile, dai pannelli fotovoltaici all'eolico.
I bassi salari concorrono, con il calo degli investimenti pubblici e dei consumi privati, alla contrazione del nostro mercato interno. La struttura produttiva è scarsamente innovativa: questa è la vera causa della perdita di competitività delle nostre merci e servizi sui mercati globali. Tutto ciò sta alla base della crescente separazione tra competenze formate dalla scuola e dall'università ed occasioni di lavoro sempre più segnate da scarso contenuto professionale e modesto riconoscimento salariale.
L'esplosione del lavoro autonomo è una risposta a questa contraddizione: l'Italia con oltre tre milioni e mezzo di lavoratori in proprio, di cui il 40 per cento è tra i 15 ed i 39 anni è al primo posto in Europa.
Il processo di svalorizzazione economica e sociale del lavoro colpisce tutti, partite Iva e salariati. Le imprese hanno la necessità di chiedere ai lavoratori, a cominciare dagli operai, più autonomia e responsabilità, più capacità di ideazione e di soluzione di problemi, per realizzare la total quality. Questa richiesta di "partecipazione" mette in crisi la capacità di governo dell'impresa per cui può essere concessa a gruppi limitati di dipendenti, quelli centrali per le sue strategie. Per gli altri deve valere l'obbedienza alla gerarchia, la precarietà, la dispersione nel mondo frantumato dell'indotto.
Le ridotte dimensioni delle imprese italiane sono derivate, proprio, dall'applicazione particolarmente intensa dell'organizzazione del lavoro toyotista, basata sulla esternalizzazione massiccia di parti dell'attività produttiva verso le piccole imprese. Se esse sono fattore di rallentamento della competitività del Paese, ciò non ha a che fare con il vincolo dell'art. 18. Il punto di arrivo di questo processo è una società senza mobilità sociale e senza speranza di futuro. Si è prodotto un blocco che può produrre pericolose distorsioni nel percorso di vita e nelle prospettive di lavoro delle nuove generazioni.
Oggi esiste un "welfare" familiare che sostiene i tanti che perdono lavoro, in larga misura garantito da un sistema pensionistico che, però, sta perdendo potere d'acquisto (lo Spi-Cgil calcola un 30 per cento in meno il 15 anni). L'80 per cento dei giovani con meno di trent'anni vive in famiglia e un 10 per cento vi rimane fino a quarantaquattro anni.
La trappola dell'assistenza crea perdita di identità e depressione; fa oscillare tra rabbia e opportunismo, su cui si impiantano culture consolatorie che proclamano il pieno diritto all'appagamento immediato e assoluto di ogni esigenza, a quel "godimento" che Massimo Recalcati analizza nemico del "desiderio" di cambiamento, che ha bisogno di tempo e di senso del limite. Soprattutto cresce la velenosa cultura neo-liberista del conflitto intergenerazionale, che punta a mettere sotto accusa le conquiste sociali del passato, presentando le generazioni anziane come garantite da privilegi non più sostenibili a danno di una condizione giovanile fatta di precarietà e marginalità.
Ad un Paese che si ribella il Governo tenta di rispondere mettendo, nell'applicazione di regole e tutele, di nuovo i lavoratori privati contro i lavoratori pubblici; i giovani neo-assunti contro gli anziani stabili. Non è nel mercato del lavoro che sta il problema, sta nella macchina dell'accumulazione e nel modo in cui sono disciplinati i rapporti di lavoro, creati i bisogni, destrutturate le relazioni sociali e creata la "falsa coscienza" che tiene individui e comunità separati in mondi paralleli senza un progetto comune di cambiamento.
Cresce, però, la consapevolezza di quanto il capitalismo sia incapace di valorizzarsi attraverso la produzione di quei beni e servizi che sono basilari per il benessere delle persone e di come, invece, siano necessari investimenti pubblici orientati da una programmazione economica partecipata ed un grande Piano del lavoro.

(19 aprile 2012)

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