martedì 21 dicembre 2010

Il Grande Vecio





Si è spento consumato dal tumore, in silenzio, come una candela che dopo aver illuminato il buio con la sua fiammella tremolante, si accorcia fino ad estinguersi. Enzo Bearzot è morto questa mattina a Milano.

Per caso mi trovavo sul sito repubblica.it quando c'è stato l'aggiornamento che mi ha provocato un colpo al cuore, quello che ha conservato intatto il ricordo di una notte estiva tra le più straordinarie che possa ricordare. Quando il calcio, quel calcio che non c'è più come oggi il "vecio", era capace di regalare emozioni intense, di sedurre come neppure una donna potrebbe e saprebbe fare.

Correva l'11 luglio 1982, il giorno dopo sarei dovuto partire per un lavoro stagionale, ma quella notte la volli vivere tutta intera. Rividi quella finale mondiale tre volte: prima con gli amici, poi nella piazza dove si stava festeggiando e trasmettendo su schermo gigante (i primi esperimenti) la ripetizione della gara e, infine a casa, quando la tv stava ritrasmettendo, ancora una volta, Italia-Germania.

Il mattino dopo, di buon'ora, saccheggiai l'edicola acquistando una copia di tutti i quotidiani disponibili. Preparai i bagagli per la partenza tra un resoconto e l'altro, già sapendo che sarebbe stata storia quella che stavo vivendo. Nella stazione di arrivo, tardo pomeriggio del 12 luglio, mi fermai davanti ad un chiosco ormai quasi vuoto, da dove raccattai un paio di testate residue, per completare la collezione.

Una ricognizione adesso dolorosa, impregnata di struggente malinconia e non nascondo che ho dovuto stringere forte gli occhi per non essere sopraffatto dall'emozione, quella che solo la morte di un uomo giusto è capace di provocare. Intervistato da Gianni Mura, tre anni fa in occasione del suo ottantesimo compleanno, che gli chiese - tra l'altro - come avrebbe voluto essere ricordato, così Enzo Bearzot rispose alla domanda conclusiva: "Come una persona perbene". Per questo lo piango.

Che la terra gli sia lieve.




Per ricordare Bearzot ho scelto un brano, tratto dal suo libro.



Come un’orchestra jazz

Quando penso ai miei azzurri mi viene facile il paragone con un complesso musicale, con un’orchestra di jazz. Sarà perchè a me piace il jazz, un tipo di musica che nasce dalla sofferenza, che deve essere eseguita con una intensa partecipazione emotiva, col cuore. Sarà perché sono un po’ fissato nel preferire una squadra vista come complesso affiatato e compatto piuttosto che un insieme di campioni, siano pure ammirevoli e talentosi. Il calcio non è diverso dalla musica, anche in campo contano l’affiatamento e il cuore, l’estro e la grinta: al momento giusto ci sta bene un «assolo», ma lo spartito devono conoscerlo bene tutti quelli dell’orchestra e alla fine gli applausi (o i fischi) vanno divisi fra tutti, in parti uguali.

A me tocca fare il direttore d’orchestra. Non so dire se ho le qualità giuste per un ruolo tanto delicato, posso solo dire che ce la metto tutta. Perché il calcio è una musica che mi suona sempre nelle vene e riesce a farmi sentire giovane, anche adesso che ho quasi sessant’anni, e mi piace fare il nonno, non troppo burbero, col mio nipotino Rodolfo. A quelli che ogni tanto mi chiedono se continuerò ad allenare la Nazionale, se resterò ancora a lungo in panchina o accetterò altri incarichi in azzurro o altrove, non so rispondere.

Posso solo dire che il calcio, con il Mundial o senza, fa ormai parte di me: e che nel mio lavoro posso accettare tante cose, anche spiacevoli, ma non sopporterò mai di modificare le mie caratteristiche naturali, il mio modo d’essere. Mi rendo conto, per come sono fatto, convinto sino alla testardaggine, di rischiare spesso l’isolamento: forse mi è indispensabile, forse è inevitabile, soprattutto quando si avvicina un appuntamento delicato come un Mondiale. Forse mi piacerebbe essere isolato senza essere solo: è possibile?

(pagg. 115-116)




Bearzot, Enzo. Il calcio mundial. 1. ed. Milano: Arnoldo Mondadori Editore, aprile 1986.



Qui
, invece, una biografia accurata con adeguato corredo fotografico.


 


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