È cominciato tutto con un incipit che mette i brividi, assieme ai presupposti per la realizzazione di un sogno, esattamente 45 anni dopo lo storico discorso di Martin Luther King che, quel sogno, vagheggiava. Qui si fa la Storia e questa volta anche noi ne saremo testimoni, per oscurare la mediocrità sconfortante dei cosiddetti leader e dei fantomatici statisti del cortile di casa che, uniti, rappresentano il nulla (visto a “Blob” il servo Fede interrompere il servizio dagli Usa, perché stava per parlare in diretta l'ometto B., tessera P2 n°1816).
Vai Barack Obama, fino alla vittoria. Che tutti gli dei possano assisterti.
«Grazie, Iowa. Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato, che avevamo aspettative troppo alte. Dicevano anche che questo Paese è troppo diviso, disilluso per unirsi intorno a un medesimo obiettivo. Invece, in questa notte di gennaio, in questo momento cruciale della Storia, voi avete fatto ciò che gli scettici dicevano fosse impossibile. Avete fatto ciò che l'America intera può fare in questo nuovo anno, il
E questa è la cronaca del bel pezzo di Mario Calabresi.
Il quarantenne nero che trascina i bianchi
La colonna sonora era la stessa del giorno in cui annunciò agli americani che si sarebbe candidato alla presidenza degli Stati Uniti: «City of Blinding Lights» degli U2. Anche la temperatura era la stessa: 11 gradi sotto zero. Ma sul palco, in mezzo a migliaia di giovani in delirio, non è salito il giovane idealista naif amante delle sfide impossibili, ma l'uomo del cambiamento, capace di spazzare via la potente macchina elettorale dei Clinton e l'organizzazione capillare costruita dai sindacati di John Edwards. Improvvisamente tutto il resto è sembrato vecchio: Bill Clinton magro e rauco con i suoi capelli bianchi, Hillary che parla di esperienza e si fa accompagnare dalla madre quasi novantenne, l'America di Bush, di Rudy Giuliani e dell'11 settembre. Tutto improvvisamente superato da un quarantenne nero che riesce a galvanizzare uno Stato di agricoltori, con l'età media più alta d'America e in cui i bianchi di origine tedesca, danese o irlandese sono il 92 per cento.
Barack Obama aveva messo la cravatta e nonostante avesse scelto un tono più sobrio e più composto del solito è riuscito a far esplodere i suoi sostenitori: «Abbiamo realizzato quello che i cinici definivano una sfida impossibile e abbiamo dimostrato che la speranza non è cieco ottimismo, ma coraggio di combattere». Lo spettacolo dell'arena di Des Moines, con i ragazzini neri che imprimevano il ritmo alla folla picchiando sui tamburi, era di una potenza acustica e visiva impressionante, come l'onda che dalla capitale dell'Iowa si è diffusa in tutta l'America. Il messaggio è stato chiaro: la scommessa di superare il colore della pelle e le appartenenze è riuscita: «Mio padre veniva dal Kenya, mia madre dal Kansas, e la mia è una storia che può accadere solo negli Stati Uniti. Per questo vi dico: possiamo cambiare questo Paese, le persone normali possono fare cose straordinarie». E straordinaria è stata la partecipazione al voto, quasi raddoppiata, cifre da record assoluto.
Barack Obama ha vinto con i giovani, che non l'hanno tradito, con le donne che lo hanno preferito a Hillary, con gli indipendenti che hanno rotto gli indugi e si sono schierati e perfino con una fetta di elettori repubblicani che hanno saltato il confine. Nella notte di mercoledì l'America profonda è stata capace di fare una rivoluzione. La strada è lunga, i Clinton esperti e potenti, i repubblicani agguerriti, ma il messaggio è chiaro: l'unico nero americano ad avere un seggio nel Senato di Washington, esattamente alle spalle di quello che fu di John Kennedy, ha tutte le carte in regola e ha passato l'esame per diventare l'uomo più potente del mondo.
Il profumo della svolta era chiaro sentendo parlare le famiglie che in fila indiana, nei vialetti scavati in mezzo alla neve, andavano ai caucus. L'atmosfera era serena, tanto che l'immagine ricordava più la gente che va a messa la notte di Natale che non il pellegrinaggio ad un'assemblea elettorale. «Andremo a votare per Obama perché c'è bisogno di cambiamento e questo non ce lo può dare una dinastia: mio figlio da quando è nato non ha mai visto un presidente che non si chiamasse Bush o Clinton. E ha 18 anni: è ora di voltare pagina» ci racconta Kathy, che con il marito gestisce un'azienda agricola. Il loro sentimento è sintetizzabile con una parola ripetuta parecchio in questi giorni: "clintonfatigue". La stanchezza verso i Clinton. Da una parte Bill è l'asso nella manica di Hillary - al comizio finale dell'ex first lady molte nostalgiche sostenitrici avevano la spilla della campagna del 1996 - dall'altra è una presenza che parla di passato. Allyson, una ragazza nera che sostiene Obama, ha discusso animatamente con le amiche che le dicevano di preferire la Clinton : «Ma come potete: dobbiamo votare per il nostro futuro, non con la testa girata agli Anni Novanta, non è un voto sul passato ma sulla vita che ci aspetta».
Hanno votato 220mila persone ai caucus democratici, un record assoluto: 100mila in più di quattro anni fa. Lo storico deputato di Des Moines, l'anziano Leonard Boswell, è convinto che la sua gente di campagna guardi al mondo molto più di quanto si possa immaginare e ci dice: «Siamo preoccupati di ricostruire la nostra credibilità e la nostra immagine». Anche Spencer e Chris, che sono compagni di banco all'ultimo anno di liceo e voteranno a novembre per la prima volta, sono usciti di casa spinti dalla stessa molla: «Dobbiamo dare un messaggio nuovo al resto del mondo e a tutto il nostro Paese e la scelta di un afro-americano è la più simbolica possibile». Quasi il cinquanta per cento dei partecipanti ai caucus democratici erano al loro primo voto, come Spencer e Chris, e quattro su cinque hanno scelto Obama. Quattro anni fa nella palestra della scuola media Merril, di fronte all'Art Museum dove una donna malinconica dipinta da Hopper scruta i visitatori da sotto il cappello, erano in 360. Questa volta si presentano in 554 e per registrarli tutti si inizia con tre quarti d'ora di ritardo.
Siamo in uno dei più grandi caucus di tutto lo Stato e qui in piccolo si produrranno sotto i nostri occhi esattamente le dinamiche che hanno portato al risultato finale: primo Obama, secondo Edwards, terza Clinton. La composizione sociale del distretto elettorale sembrerebbe favorevole a Hillary, come lo era sulla carta quella dell'Iowa: ceto medio borghese con un'età superiore ai quarant'anni. Tutti bianchi. Nel settore di Obama ci sono quasi 300 persone, soltanto quattro sono nere, tre donne e un uomo e tutte le età sono rappresentate. Il capitano dell'assemblea, l'avvocato Jeffery Goetz, è raggiante mentre fa la conta dei presenti: «È una serata storica, l'hanno presa davvero sul serio». Il duello dialettico tra gli elettori, raggruppati negli angoli della palestra a seconda del candidato che hanno scelto, gira intorno alla preferenza tra esperienza e carisma, tra testa e cuore. La rappresentante della campagna di Hillary, Sally Pederson, cerca di convincere gli indecisi: «È lei la più preparata per combattere i repubblicani e guidare il Paese: dovete scegliere l'esperienza, qualcuno che conosca la Casa Bianca e sia eleggibile». Guarda alle donne che sostengono i candidati minori, cerca di convincerle, ma la folla di Obama grida incessante: «Vi vogliamo con noi, vi vogliamo con noi». E la maggioranza delle mamme con i bambini in braccio, delle signore con i capelli raccolti e molti chili di troppo, sorridendo si fa convincere più dal cuore e dalla voglia di fare qualcosa di inaspettato. Ogni migrazione verso il canestro sotto cui c'è il grande cartello con la scritta «Hope», speranza, simbolo di Barack Obama, viene sottolineata dagli applausi.
Alle nove la partita non ha più storia, quando le tre signore dall'aria compita, che tutto il quartiere conosceva come repubblicane, fanno la loro scelta per il senatore nero significa che è finita davvero. Il capitano fa la conta: Clinton 120, Edwards 131, Obama 289. La palestra esplode. I ragazzi con le spillette pacifiste corrono al comizio con Barack e lui non li delude: «Il tempo del cambiamento è arrivato: sarò il presidente che riporterà a casa i soldati dall'Iraq, che garantirà la sanità a tutti gli americani e metterà fine ai regali fiscali alle grandi multinazionali». La festa continua nella notte, ma Obama sa che questo è solo l'inizio. Hillary è già volata nel New Hampshire, le sue forze in campo sono intatte e i sondaggi ancora la assistono, Edwards è sfinito e se mollasse potrebbe passare il voto dei sindacati ai Clinton. Chiede ai ragazzi di continuare, di prendere treni e aerei e trasferirsi sull'Atlantico, di non fermarsi, il suo momento di grazia potrebbe trasformarsi in un attimo nel sogno di una notte d'inverno: «Bisogna ripetere tutto ogni settimana fino a novembre e solo tra un anno, quando il nuovo presidente giurerà davanti al Campidoglio, allora potrete guardare indietro e ricordarvi che tutto è iniziato qui».
la Repubblica (5 gennaio 2008)