martedì 29 agosto 2006

Il fantasma del passato


È ricomparsa nella mia vita alle 23:14 del 17 agosto. Era giovedì, l’ultima notte della mia vacanza e, per tale motivo, avrei appreso della sua riapparizione soltanto nel tardo pomeriggio del giorno dopo. Ma “lei” già c’era e attendeva un segnale.


Rientrato a casa, ho riacceso il cellulare, che avevo tenuto quasi sempre spento e ho cominciato a scorrere i messaggi recapitati. All’inizio non ho fatto proprio caso al numero mostrato dal display (da tempo avevo cancellato il suo nome dalla rubrica) leggendo con sorpresa quanto c’era scritto. Solo alla fine e grazie alla firma mi sono reso conto di ciò che era accaduto e ho riletto, questa volta con maggiore attenzione. “Ciao... È da molto che volevo sapere di te. Stai bene? Potrò sentirti al telefono? Rispondimi, ti prego... Ciao”.


Chi mi segue dall’inizio o, comunque, è risalito ai primi post, sa cosa abbia significato nella mia vita questa donna. Lo stesso blog è nato sulla scorta dei residui di una storia strappata. Con il nome, ormai marchio di fabbrica (brand si usa ordinariamente definirlo). Anche per questo motivo non l’ho mai modificato, pur non rispecchiando più il mio stato d’animo.


Ricordo l’intensità di certi scritti qui pubblicati, la rabbiosa dolcezza, la devastante malinconia, l’atroce nostalgia per un tempo che non sarebbe più tornato. Penso, anche, che non servissero a dissimulare l’irragionevole speranza di un prodigio, come fosse un ritorno alla vita.


Leggevo quelle parole e altro ancora mi veniva in mente, ma su tutto svettava il sapore della vittoria. Sì, pregustavo la mia rivincita centellinando parola dopo parola. La sua attesa, la sua speranza, quasi la sua implorazione, erano state per molto tempo mie appiccicose compagne di viaggio, tanto indesiderate quanto inevitabili. Ma adesso non era più cosi, adesso il copione si era capovolto e detenevo io il potere di decidere, di eliminare quella fastidiosa appendice, oppure farmi desiderare, elargire una parte di me come fosse la benevola concessione di un sovrano che, dall’alto del suo trono, guarda verso il basso, commiserando le sorti del popolino.


In altre circostanze, penso anche solo a un anno fa, sarebbe stata fulminea la reazione, dopo aver fantasticato l’irraggiungibile e mi sarei prostrato, avrei accolto con insperato e rinnovato desiderio questo importante segnale. Avrei fatto di ogni altra considerazione maturata, compresa la legittima dignità personale, un’ unica fascina da disperdere nel vento dell’emotività. Ma ora no, ora era troppo tardi per “lei”.


Due anni fa, alla fine di agosto, si era registrata l’ultima amarissima e anche drammatica telefonata. Risale all’8 dicembre 2003 l’ultimo incontro. Può esserci qualcosa in comune ormai? E poi ero appena rientrato dalla mia vacanza, mi sentivo tonificato e sicuro, perciò le ho concesso un: “Telefona alle 21:00, ciao”. E all’ora indicata sul display del cellulare riappariva quel numero, una volta familiare e poi la sua voce che mi sembrava tanto diversa da come la ricordavo.


Cercavo, perciò, di intuire il suo stato d’animo. La facevo parlare, senza soffocarla con domande legittime ed evitando l’interrogativo più ovvio. Aggiornamenti rapidi. Doveva trovarsi in un locale pubblico a giudicare dal sottofondo di voci e risate che si levavano spontaneamente. E intanto provavo a “sentire” pure il mio di stato d’animo. La voce non appariva incrinata, il cuore placidamente continuava a battere, l’emozione certo apparteneva a lei. Perché l’impressione che dovevo fornire era quella del vincitore, anche se poi sotto alcuni aspetti non era vero. Perciò il lavoro tutto bene, la salute tenuta efficacemente sotto controllo, in famiglia la tranquillità dominava e i sentimenti - pensavo al blog - per nulla silenti, anzi assai vivacetti. E “lei”, ad ogni riposta: ”bene, bene”, mentre la stavo “massacrando” e, indirettamente, le facevo capire l’errore che aveva commesso e che anche lei aveva capito, attraverso – per esempio - le insistenti domande della figlia che le chiedeva spesso notizie, mentre “lei” si era inventata la scusa di aver perso il mio numero. Poi c’era il ricordo di chi, nel suo giro, anche avendomi incontrato una sola volta si rammentava, mandava i saluti, per la sua stupefazione.


Che differenza nei toni rispetto a quelli adoperati nelle ultime volte, quando la frattura si andava allargando ogni giorno di più. Quanta malinconia mi pareva di cogliere nella descrizione della sua vita, delle sue giornate da divorziata (adesso), che non chatta più, che ha avuto una convivenza durata un anno con una persona “matura” (e intendeva dire rispetto a me +7), termine pronunciato con un certo imbarazzo. Poi l’uomo si era trasferito, per motivi di lavoro, così adesso si tengono in contatto telefonico, incontrandosi un paio di volte al mese. E, anche se non l’ha detto, si capiva benissimo che non avrà lunga durata questo legame. Il tono era triste, quasi rassegnato all’ineluttabile, anche perché aggiungeva valutazioni negative sugli uomini conosciuti, i quali l’avevano delusa profondamente (e immagino anche ferita). Io invece...


Di me conservava un ricordo particolare, quasi appartenessi ad un altro pianeta e se avesse potuto sbilanciarsi forse si sarebbe anche sfogata. Da un anno, peraltro, intendeva telefonarmi, poi avendo trovato il cellulare spento non si era permessa di andare oltre.


Reso audace da una resa pressoché totale, nonché corroborato dalla mia vacanza le proponevo, quasi sfidandola: “Ti piacerebbe incontrarmi?”. Non si aspettava una simile proposta (o forse proprio a questo voleva arrivare?) e vacillava, chiedeva tempo.


Dopo averla salutata mi rendevo conto che l’idea prospettata non si sarebbe rivelata una buona idea, almeno da parte mia. Ripercorrevo le fasi più salienti di quel progressivo e lacerante distacco, tornavo con la mente a quando, dopo il silenzio di uno-due giorni, giungeva un suo messaggio che trovava una rapida risposta, sempre con un interrogativo, per prolungare l’anomala conversazione. Come quella volta che m’informò che in mezzo ad un libro aveva trovato una rosa blu, regalo dei tempi felici. “Un buon segno, un auspicio da cogliere”, avevo aggiunto esultando. E cercando poi un espediente allettante per stimolarla, andare avanti, verificare le sue intenzioni. Vanamente.


Allo stesso modo era naufragata una mia proposta di rivederla ancora, in quel mese di gennaio 2004 che aveva tracciato una linea netta di demarcazione. Confusione e indecisione si erano miscelate per confluire nella lapidaria frase: “Vorrei, ma non posso”.


No, non la incontrerò. In fondo, ciò che avevo inseguito senza successo in passato adesso era stato raggiunto, pur se la mia curiosità sui motivi della sua riapparizione, dopo tanto tempo, resterà probabilmente inappagata.


 

martedì 22 agosto 2006

Le emozioni dell'estate


Seduto nell’angolo di un caffé sto pensando a lei, mentre sorseggio un frappé alla banana e osservo due ragazzi appena entrati che si sono accomodati al tavolino, si stringono la mano e poi fanno cin cin con il bicchiere di succo di frutta. Ecco cosa mi sono dimenticato: di ripetere questo gesto benaugurante con E. alla fine, perché la prima sera, a cena, era stato spontaneo.


La prima e l’ultima volta si incrociano in dissolvenza.


Da poco più di un’ora ci siamo salutati, nel solito schifoso modo che le partenze propongono. E pensare che, appena pochi giorni prima, ritenevo che questo momento sarebbe equivalso ad una liberazione, molto freddo e privo di partecipazione. Ci sono state ventiquattr’ore in cui la fragile navicella ha rischiato di affondare. Stava imbarcando acqua da tutte le parti. Ogni brandello di conversazione era solo occasione di interminabili discussioni: il mio orgoglio contro le sue testarde convinzioni. “Cerchiamo di non farci del male fino a venerdì”- avevo concluso  “e poi staremo meglio”. Davvero?


Non ci siamo più fatti del male (anzi), però siamo stati peggio quando l’ora fatale è sopraggiunta. Quella delle ultime cose. E, si è così consapevoli dell’ineluttabilità del momento, che una stanchezza mentale cala come un pesante colpo di maglio su entrambi. Il risveglio, la reazione meglio ancora, quando la realtà che si chiama treno è tangibile. L’Eurostar fermo da tempo sul binario e allora tanto vale salirci, quasi a stabilire il primo iato. Uno status che muta.


E. parte ed io resto. E. mi raccomanda di non piangere, mentre il suo fazzoletto è a portata di mano, io fragilmente d’acciaio annuisco, mentre la voce già s’incrina. Lei lo percepisce, così affondo il viso tra i suoi capelli ramati. Una lacrima sfugge al mio controllo. I suoi freni inibitori hanno già ceduto da qualche minuto. È curioso ripetere che non si sta piangendo, mentre si torce il fazzoletto tra le mani. Ancora più curioso, poi, il fatto che questa constatazione non si può rivolgere all’altra persona. Il tempo delle parole è finito, ormai. Siamo già ai ricordi, alla memoria. Condivisa, eppure remota, nei sapori e negli odori.


Cosa recuperare da una bella vacanza? Cosa resta di giornate liete, seppur con il tempo mutevole, a tratti come il carattere di E., ma pronte (e pronta) poi a mostrare un raggio di sole? Cosa conferisce valore alla vacanza? I luoghi o la persona che si ha avuto accanto? E può esser lei la lente di ingrandimento per raccogliere ed esaminare i frammenti della memoria? Se, infine, mi limitassi ad affermare che una vacanza viene esaltata dall’ambiente e sublimata dalla donna che era con me? Allora nessun luogo sarà mai lontano dal cuore.



L’alto Metauro è terra di origini antiche, posta nel cuore dell’Appennino umbro-tosco-marchigiano, bagnata dallo storico fiume cantato dal Tasso, che conobbe una splendida stagione durante l’Umanesimo e il Rnascimento, quando entrò a far parte del ducato dei Montefeltro. E non poteva essere diversamente in una zona che aveva strette relazioni con Borgo Sansepolcro (Piero della Francesca) e Urbino (città natale di Raffaello). A Borgo Pace (nome omen, nella foto) la nostra isola felix.


La tradizione racconta che a Borgo Pace si svolsero le prime trattative di pacificazione del secondo triumvirato romano tra Marco Antonio e Ottaviano. Da qui il nome così rassicurante di una località incantevole, dove i torrenti Auro e Meta si congiungono per formare il Metauro. Prorompente la bellezza dei luoghi che sprofondano nel verde, in cui l’uomo e la natura sono in perfetta simbiosi.


Le case di pietra ne sono l’emblema. Assieme alle carbonaie, una sorta di capanne di legna accatastata con foro in alto a far da canna fumaria, che rammentano per certi tratti le tende degli indiani nativi, dove però i cumuli fumanti di tronchi bruceranno per produrre carbone.


Mi accorgo che comprimere le immagini, i ricordi giorno dopo giorno è impresa ardua. E allora solo un breve cenno ad Urbino ("Alle pendici dell'Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città di Urbino." Baldassarre Castiglione 1478-1529),patrimonio mondiale dell’umanità, imponente nella maestosità delle costruzioni, Palazzo Ducale in primo luogo, reggia del duca Federico da Montefeltro,gioiello architettonico di rara bellezza. “Città ideale” del Rinascimento (rimando opportunamente alla dotta dissertazione di Ziby sull’argomento).Mercatello sul Metauro, dove un intatto ponte romanico sul fiume lascia incantati.Sant’Angelo in Vado, capitale del tartufo bianco pregiato, con le affascinanti viuzze medioevali e il ticket per entrare nelle chiese.Urbania, città della ceramica. L’antica Casteldurante, il nome a cui gli abitanti sono rimasti affezionati tanto da essere nomati durantini.Gubbio, oscenamente violentata dai turisti.Sansepolcro, straordinaria città d’arte e di tradizioni.



E poi un tragitto fiabesco, in terre forse abitate anche da elfi e fate, che si sviluppa dal santuario de La Verna fino all’eremo di Camaldoli. Da San Francesco a San Benedetto La giornata più ricca di sensazioni,dapprima naturali legate al progressivo avvitarsi sui tornanti fino a salire ai 1129 metri de La Verna, tra boschi sempre più fitti,dove il tempo restava sospeso,impenetrabili per lunghi periodi i raggi solari,la temperatura fresca e la miracolosa visione in un lampo: un cerbiatto che attraversa la strada per raggiungere sul lato opposto il suo compagno. Fotografia impressa nei nostri occhi. Un mondo a parte.



Intensamente suggestiva la monumentale foresta su per il Monte Penna, largamente dispensatrice di brividi, confermati poi da un curioso frate (?) giornalista, custode del Museo interno, il quale ammoniva sui pericoli di simili percorsi che ogni anno reclamano almeno una vittima (per la cronaca ancora nessuno in questo 2006), mentre si stupiva e, forse inalberava, quando gli facevamo notare che sul cartellino posto da lui sul registro dei visitatori (“Non è necessaria la data”) la “e” era senza accento.



Ma accanto alle visite, diciamo così istituzionali, l’eco che riecheggia è quella della serenità.





Sereno è scorgere una pieve lungo il percorso, fermarsi, scendere e incrociare una ragazza. La costruzione è privata, informa, mentre il laghetto artificiale per la pesca sportiva è chiuso. “Poi c’è il fiume” – aggiunge – “e nient’altro”. Ma il “nient’altro” della nostra interlocutrice è, invece, straordinariamente meraviglioso. Imbocchiamo il viottolo di campagna, ci sediamo sul greto del torrente, gettiamo in acqua pezzetti di legno per vedere se riescono a superare, con l’aiuto della corrente, una piccola ansa. Nessuno parla. Attorno, come rassicurante coperta, ci avvolge il rumore della natura: lo scorrere dell’acqua e lo stormire rapsodico delle foglie. Per Lucio Battisti sarebbero “Emozioni”. Lo sono anche per noi. Il “nient’altro” è tutto.


Sereno è intravedere un’abbazia o quel che ne resta, entrare in una chiesa di campagna, eretta in puro stile romanico, avventurarsi nella cripta sottostante. Assediati ancora dal silenzio e poi l’incanto di un viso dolcissimo nella statua di una madonna.


Sereno è il profumo del carbone e poi una nuova carbonaia ormai pronta con l’omino, piccolo, il volto annerito dal fumo, il quale spiega pazientemente come siano necessari due giorni per ammucchiare la legna, dopo averla tagliata in precedenza nei boschi e il doppio del tempo per trasformare i tronchi in carbone. Che i giovani non hanno più intenzione di proseguire il lavoro che ha dato rassicurante benessere ai loro nonni e genitori, perché si tratta di un’attività dura, faticosa e che richiede pazienza. Tutto mi ricorda un romanzo breve di Carlo Cassola, “Il taglio del bosco”.


Sereno è bagnarsi i piedi nelle cascatelle di acqua sulfurea e neppure avvertire che la temperatura è fredda. Forse è il cuore che scalda, forse l’idea che vivere in un altro modo è davvero possibile.


Sereno è alzare la testa al cielo e seguire con gli occhi, contorcendo il collo, i ghirigori delle rondini al tramonto, eseguiti con armoniosa bellezza ed eleganza. Si chiamano, s’inseguono, volano a stormi e poi, isolate, salgono (fin dove può salire una rondine?) per scendere quindi all’improvviso. Una danza ubriacante.


Sereno è ascoltare il vecchietto egubino che, con simpatica cadenza umbra, si rammarica per le chiese chiuse a causa di mani troppo leste, che racconta con l’entusiasmo di un bambino la storia di Francesco e del lupo e poi indica quale strada seguire per ammirare la cittadina dall’alto.



Sereno è valicare un passo appenninico al mattino, mentre la nebbia sale, provare inquietudine (ma l’autista è provetta, da nove), vivere un senso di isolamento e poi scendere verso il basso, mentre le montagne si allargano e la pianura si mostra in tutta la sua estensione.



Sereno è decidere di fermarsi, per mangiare un gelato, tra un grumo di case e scoprire che la gelateria è anche bar e poi bottega e chissà cos’altro ancora, che la mansueta signora, dai tratti gentili, lamenta il lento e progressivo decadere del comune, che si riduce ad una quarantina di anziani abitanti d’inverno, perché i giovani sono emigrati in città vicine. Eppure, nelle poche abitazioni circostanti, i giardini vivono l’animazione festante dei bambini. C’è pure un edificio che racchiude scuola materna ed elementare. E forse sono anche queste speranze di vita.



Sereno è addentrarsi nelle strette e ripide stradine di un borgo, stravolto fuori le mura da un cantiere edile eccessivo (la giunta è di sinistra, ma il partito del mattone non fa distinzioni), incrociare una vispa vecchina (95 anni) che ci indica la strada per salire alla torre dentata. Gli anni non sembrano pesarle, è rimasta vedova da poco, dopo 70 anni di matrimonio. Anzi, si scusa per averci fermato e disturbato. Tanti auguri, nonnina.


Si va verso la torre, purtroppo chiusa. Un altro vecchietto (85 anni) ci racconta dei tedeschi che volevano farla saltare per aria, ma in tal modo avrebbero pure fatto esplodere l’intero paesino e di come lui li avesse, invece, convinti ad accettare che fossero gli stessi abitanti ad abbattere la struttura per evitare danni ingenti. Poi la ricostruzione e la sorpresa di scoprire che la torre, originariamente, era merlata e non con le tegole sul tetto e subito il ripristino. La vecchia campana, invece, era ormai fuori uso. Al proposito la leggenda vuole che suonò il giorno della scoperta dell’America.



Sereno è addentrarsi tra i rovi, strappare le more e mangiarle per ritrovarsi poi con le gambe irritate da punture e graffi, ma il dolore è così lieve che si sperimenta ancora ogni volta che capita.



Sereno è annusare il finocchietto selvatico, la lavanda, scoprire in un parco le piante officinali, aromi dell’infanzia lontana, le belle favole del passato che più non torna.



Sereno è scoprire un vecchio lavatoio, con acqua corrente freschissima che fuoriesce da due canali e che, chissà perché, nessuno pensa di sfruttare al meglio. Il manufatto è in stato di evidente abbandono, la data (1860?) incisa all’ingresso non è completamente leggibile. Però la gramigna non ha ancora invaso completamente l’interno dove una vasca centrale racconta le mille storie di donne che là si radunavano per strofinare i panni sulla pietra levigata. Nelle tre pareti attorno emergono gli alloggiamenti per le ceste o i canestri.



Sereno è pernottare in una camera che sembra quella di una bambola, con il calore e il colore delle pareti, dove è totalmente assente il freddo anonimato della stanze d’albergo. Stona (e disturba) solo la presenza immancabile del televisore, ma basta non accenderlo. Alla sveglia, anche se in ritardo, è deputato il gallo (chiaramente non ci sono più i galli di una volta e ora fanno il minimo sindacale di ore). Il sonno è invece accompagnato dalla colonna sonora del torrente che scorre proprio dietro l’edificio.



Ci tornerò (forse). Insieme (speriamo).


 


 


 

mercoledì 9 agosto 2006

Ferie d'agosto


 


Era d’estate. E in quel tempo il piazzale dell’oratorio mutava aspetto. Bandite le eterne e inossidabili partite di calcio che avevano riempito ogni pomeriggio invernale, si dava spazio ad altri giochi. E, se le serate erano destinate alla pallavolo, uno sport nuovo che si stava affermando, nei pomeriggi ci si organizzava diversamente. In attesa che il prete e i ragazzi più grandi allestissero la puntuale rassegna di giochi dell’estate, una sorta di olimpiade, veniva collocato all’aperto (in zona d’ombra) il tavolo da ping-pong (il termine tennistavolo era troppo sofisticato oltre che essere ignoto per alcuni).


All’insegna del “chi prima arriva prima gioca”, un principio in teoria democratico, vanificato in pratica, si generavano quasi sempre simpatiche “controversie” (o volendo anche discorsi sui massimi sistemi) su chi per primo avesse afferrato le racchette di legno (come al Palio di Siena tutto era ammesso). Mentre immancabilmente il solito furbo s’impadroniva della bianca pallina di celluloide.


Ora, considerato che in tre era improbabile poter giocare, iniziava l'opera di persuasione che, in genere, vedeva cedere il possessore provvisorio della preziosa sfera, anche per gli argomenti “convincenti” adoperati o solo prospettati dagli altri contendenti in attesa.


Le cose funzionavano così. Colui che vinceva (un solo set, ai 21 o 25, batteva chi faceva il punto, inseguiva negli ampi spazi la pallina chi lo subiva)) continuava ad libitum, vale a dire fino a quando perdeva. E così vi erano interregni che duravano lo spazio di una gara (già alla seconda il re veniva detronizzato) e altre sovranità più lunghe, talvolta l’intero pomeriggio o quasi. In genere, come a voler seguire un copione collaudato, i primi che si affrontavano erano i più scarsi (analogamente ai preliminari di Coppa), talvolta al limite dell’inguardabile. Allora gli “apprezzamenti” coloriti si sprecavano, talché l’incauto crollava e la partita si concludeva in una manciata di minuti.


Quindi entravano in scena le primedonne che, consapevoli del ruolo, scaglionavano le loro apparizioni. A quel punto era un duello tra titani e la qualità, di conseguenza, lievitava.


C’era però un inconveniente, perché nel frattempo il pomeriggio si era dilatato e cominciava a fare capolino qualche “adulto” (al ragazzino di 11, 12 anni dell’epoca, un 18enne o 20enne appariva tale) che invariabilmente osservava: “Adesso diamo due tiri noi, tanto voi altri state qui tutto il giorno”. A questo punto la trattativa veniva gestita dai più autorevoli fra i coetanei, dove l’autorevolezza si basava sulla capacità di essere protagonisti su quel tavolo verde. Peraltro non faceva neppure difetto una malcelata punta d’orgolio. Battersi con un “adulto” e, segnatamente, sconfiggerlo aumentava le quotazioni nel gruppo, permetteva di scalare posizioni e vivere di rendita per un po' di tempo. Facile perciò capire come la soddisfazione personale non fosse da poco.


Certo che poi gli “adulti” imponevano, pardon applicavano, leggi proprie (“ad personas”) e così se arrivava la sconfitta non la riconoscevano (anni dopo questo comportamento avrebbe ricordato qualcuno: corsi e ricorsi della Storia, come si può ben vedere), si rifiutavano di abbandonare il campo, anzi – visto che lo sfidante era “caldo” e dunque la sua vittoria contava poco o niente - chiedevano e ottenevano (chiaro) la rivincita.


Qualche altro, invece, insoddisfatto per la sconfitta, perché non ancora rodato, non si arrendeva e invitava a giocare uno dei propri coetanei. Indubbiamente, in tal modo, diventavano loro i protagonisti, sebbene in alcuni l’incapacità e la goffaggine fossero palesi. Forse per questo motivo non duravano molto quelle esibizioni e, in meno di un’ora e senza colpo ferire, o meglio subire, il controllo del territorio era ristabilito con buona pace di tutti.


Ma intanto era arrivata l’ora di cena e le contese si concludevano di comune accordo. Si tornava così a casa: c’era da preparare la serata.


 


Dopo aver condiviso questo ricordo di tante estati fa (il sottoscritto è stato re pongistico di molti pomeriggi) chiudo questo blog e vado in ferie per alcuni giorni. Quanto ne abbia necessità lo sapete bene.


Buone vacanze anche a voi e un abbraccio collettivo di lietezza, stima e affetto.


giovedì 3 agosto 2006

85 morti e 200 feriti. Perchè?


 



mercoledì 24 luglio 2002


Stragi: 50 senatori presentano ddl

per abolire segreto di Stato.

Il primo firmatario è il sen.


Walter Vitali, ex sindaco di Bologna


Testo del  disegno di Legge



"Disposizione concernenti la non opponibilità del segreto di Stato nel corso di procedimenti penali relativi a delitti di strage e terrorismo"



Onorevoli Senatori! - La proposta di legge intende attribuire alla magistratura la pienezza dei suoi poteri di indagine, di accertamento e di decisione nei processi penali concernenti i fatti criminosi maggiormente pericolosi per l'ordine democratico.


I servizi di sicurezza, istituiti e regolati dalla legge n. 801 del 1977, sono organi che hanno il dovere di riferire non all'autorità giudiziaria ma a quella governativa. L'articolo 12 di tale legge, al primo comma, stabilisce poi che "Sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello Stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato".

Il secondo comma stabilisce, però, che "In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell'ordine costituzionale".

Unico effettivo responsabile, per legge, della gestione del segreto politico è il Presidente del Consiglio dei ministri. E' una responsabilità politica di fronte al Parlamento, molto carica di discrezionalità in quanto i confini del segreto di Stato sono ovviamente affidati alla valutazione, appunto, della massima autorità politica di governo; ed è una valutazione non ancorata a princìpi geometrici, ma alle contingenze, alle situazioni concrete, al contesto volta a volta diverso: per cui lo stesso fatto può talvolta apparire dannoso, se diffuso, e tal'altra innocuo; talvolta eversivo, tal'altra non eversivo.

Questa discrezionalità politica, prerogativa del vertice del potere esecutivo, irriducibile in precisi schemi giuridici definitori, è connaturata alla materia del segreto politico, all'istituto stesso del "segreto politico".

L'esperienza vissuta dal nostro Paese, da sempre, e con particolare frequenza negli ultimi decenni, ha però dimostrato che la prerogativa governativa nella gestione politica del segreto di Stato è entrata in conflitto con l'esercizio della funzione giurisdizionale in una serie di casi processuali originati da gravissimi delitti politici: casi, per lo più, tuttora irrisolti, e la mancata soluzione dei quali viene addebitata anche alla opposizione del segreto di Stato (o del suo equivalente nominale, antecedentemente alla legge n. 801 del 1977) di fronte alle richieste dell'autorità giudiziaria procedente.

La proposta di legge che presentiamo muove dalla necessità che il segreto di Stato non venga mai opposto alla magistratura, in nessuna fase del processo e in nessuna forma, quando si tratti dei reati compresi nelle due categorie indicate nell'articolo 1 che la compone.

La premessa logica di questo assunto e della proposta di legge è assolutamente semplice. I delitti in ordine ai quali sarà inopponibile alla magistratura il segreto di Stato, appartengono tutti alla categoria dei "fatti eversivi dell'ordine costituzionale": quei fatti che, secondo la legge vigente, non possono essere oggetto di segreto.

Riteniamo, infatti, che non vi sia ormai possibilità di dubbio sulla capacità di ognuno dei delitti cui si riferisce la proposta di legge di costituire potenziale eversione del sistema democratico. Accanto ai "classici" delitti di strage, questa connotazione compete anche ai delitti di terrorismo: all'uno ed all'altro il legislatore ha dedicato in questi ultimi tempi reiterata e preoccupata attenzione, imposta appunto dalla loro specifica pericolosità politica.

Nessuno degli interessi alla cui tutela è predisposto il segreto di Stato è superiore all'interesse che la giustizia proceda e che si raggiunga il massimo possibile di verità nelle indagini e nei processi relativi a questi reati; anzi, la potenzialità eversiva di essi fa sì che gli stessi interessi ai quali si riferisce il segreto di Stato ottengano la massima garanzia di tutela non dalla opposizione, ma - al contrario - dalla non opposizione del segreto alla magistratura.

Nella situazione considerata, diventa dunque inammissibile la legittimità di un filtro politico preventivo affidato al Presidente del Consiglio dei ministri: il segreto coprirebbe fatti (inerenti ai delitti considerati dalla proposta di legge) che per definizione sono eversivi dell'ordine costituzionale.

Con la proposta di legge si vuole eliminare radicalmente anche ogni questione concernente la valutazione della pertinenza processuale delle notizie, dei documenti, eccetera, richiesti dall'autorità giudiziaria procedente.

Vi sono state, infatti, occasioni in cui il segreto politico è stato opposto perché il suo depositario ha ritenuto la irrilevanza, ai fini di giustizia, dell'oggetto richiesto dall'autorità giudiziaria. E, nel difendere in tali casi l'opposizione del segreto, si è anche adoperato l'argomento che i meccanismi di controllo governativo-parlamentari previsti dalla legge n. 801 del 1977 sul funzionamento e l'operato dei servizi di sicurezza, e così pure la responsabilizzazione politica, al riguardo, del Presidente del Consiglio dei ministri, costituiscono sufficiente garanzia che quanto viene taciuto all'autorità giudiziaria è sicuramente estraneo e indifferente alla ricerca processuale della verità.

Questo argomento non può essere condiviso, e non solo perché indimenticate esperienze dimostrano, al contrario, che esiste sempre la possibilità di sottrarre alla giustizia, con l'opposizione del segreto, elementi di grande rilievo processuale. Va tenuto presente, infatti, che i meccanismi di controllo governativo-parlamentari previsti dalla legge vigente funzionano pur sempre in un circuito "chiuso", controllato dall'autorità politica suprema nella migliore delle ipotesi, ma controllato - nella peggiore, non irreale ipotesi - dagli organi preposti ai servizi di sicurezza, i quali possono sottrarsi, di fatto, al controllo effettivo dello stesso Presidente del Consiglio dei ministri: con la conseguenza, dunque, che i meccanismi di controllo rischiano di girare a vuoto, in tutto o in parte, perché le informazioni in base alle quali vengono giustificate la irrilevanza processuale di quanto richiede l'autorità giudiziaria e la conseguente opposizione del segreto, possono essere carenti, incomplete e deformate. Neppure il Comitato parlamentare contemplato dalla legge ha la possibilità di correggere, in relazione al caso concreto, l'eventuale vizio del circuito alla cui generale sorveglianza esso è preposto.

Vi è poi un'ulteriore ragione. Anche nella migliore delle ipotesi, anche a ritenere cioè che nessuna disfunzione, o un fatto più grave, sia intervenuta, non si comprende come il Presidente del Consiglio dei ministri, il Comitato interministeriale ed il Comitato parlamentare siano in grado di farsi e di esprimere una fondata opinione circa la rilevanza o l'irrilevanza processuale di un segmento d'indagine che essi non possono che esaminare isolatamente dal contesto complessivo, il quale è conosciuto soltanto dall'autorità giudiziaria procedente. A quest'ultima, dunque, e non ad altri organi o autorità, spetta di valutare ciò che serve e ciò che non serve ai fini di giustizia. Attribuire ad altri tale giudizio significa sovrapporre l'incompetenza alla competenza.

Infine, la difesa delle prerogative della giustizia affidate alla sola autorità giudiziaria è imposta da una ragione d'indole ancora superiore al livello tecnico; una regione, questa sì, suprema.

Nei procedimenti penali relativi ai fatti che la stessa legislazione riconosce come i più pericolosi per il sistema democratico, e che troppo spesso hanno causato enormi lutti e determinato gravissime tensioni politiche, non è tollerabile che lo Stato si divida in due: da una parte la giustizia che con estrema fatica cerca la verità, dall'altra il Governo che anche solo sembri nasconderla. E' intollerabile, infatti, anche il mero sospetto che mentre sulla scena la giustizia brancola nel buio, vi sia dietro le quinte un avversario parimenti istituzionale che la verità conosce ed impedisce legalmente di renderla nota.

Infine, va sottolineato che la proposta di legge precisa come il segreto di Stato, nella materia in oggetto, non possa essere opposto "in alcuna forma": con ciò si fa riferimento, oltre alle norme della procedura penale in tema di sequestro e di esame testimoniali, anche ad ogni altro strumento processuale il cui uso possa implicare, comunque, la necessità di accedere agli "atti", ai "documenti", alle "notizie", alle "attività" e ad "ogni altra cosa" che secondo il citato articolo 12 della legge n. 801 del 1977 sono coperti dal segreto di Stato (e seguiteranno ad esserlo per tutto quanto non è considerato nella proposta di legge).




 DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. Dopo l'articolo 15 della legge 24 ottobre 1977, n. 801, è inserito il seguente:

"Art. 15-bis. 1. Il segreto di Stato non può essere opposto in alcuna forma nel corso di procedimenti penali relativi:

a) ai reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico;

b) ai delitti di strage previsti dagli articoli 285 e 422 del codice penale".




































doctit020724_1.gif (10802 byte)