domenica 3 aprile 2011

Tanto tuonò...


Non ci vuole molto a trovare in archivio articoli e commenti sulla devastazione ambientale. E se da una parte è positivo, perchè significa che l'argomento è dibattuto, dall'altra invece appare sconsolante la constatazione che in periodi diversi l'allarme è stato sempre lanciato, ma l'impermeabiltà criminale lo ha fatto scivolare in secondo piano, come affare di poco conto, prerogativa di manipoli di velleitari sospinti da smania di protagonismo.

Come mai accada tutto ciò è ben spiegato nei vari pezzi proposti, partendo dal titolo del primo articolo, per proseguire con le amare considerazioni di Giovanni Valentini e l'articolata risposta di Umberto Galimberti ad un lettore che si pone angoscianti quesiti sulla Madre Terra, per concludere – infine – con un altro commento, ancora tratto, come il precedente, da "D" di Repubblica.

Consideravo, mentre li passavo in rassegna, che si agisce (quando si agisce in questo Paese) sempre sotto la spinta dell'emotività, delle lacrime del dopo, mai in seguito alla lungimiranza della prevenzione. Per assurdo potrebbe persino apparire fuori luogo un post sui disastri naturali, mentre altri sono gli argomenti di attualità, spesso un'attualità e un'emergenza posticce. Ma fino a quando continueremo a delegare alle associazioni ambientaliste il compito di affrontare tali problemi, l'irreversibile processo di autodistruzione proseguirà, senza neppure poter proferire il classico e usurato: "Piove, governo ladro".



 







Nessuno considera l' emergenza clima una delle priorità



 



ROMA (a.c.) - Il luglio più caldo degli ultimi 600 anni è destinato a ripetersi? La crescita della temperatura sta rilanciando le preoccupazioni sull'intensificarsi dell'effetto serra che potrebbe provocare un mutamento climatico disastroso. Ma non tutti sono d'accordo sulla certezza del trend atmosferico. "Sull'andamento dei primi sei mesi dell'anno ha pesato il fenomeno del Nino, una corrente oceanica d'acqua calda che parte dall'America centrale", commenta il fisico Guido Visconti. "L'evento è finito nella tarda primavera e ha contribuito in misura notevole al semestre record". El Nino dunque non può aver influenzato la temperatura eccezionalmente alta di questo luglio. " È vero. La perturbazione oceanica è solo uno degli elementi che bisogna tener presenti per interpretare questo periodo climatico. Indubbiamente gli anni Ottanta e Novanta sono stati eccezionalmente caldi. Tuttavia io non ritengo che questo sia sufficiente per affermare che siamo in presenza di un incremento dell'effetto serra prodotto dall'uomo. Per saperlo occorrerà aspettare". Dunque consiglia di aspettare prima di agire? "Al contrario. Ritengo che sia necessario impegnarsi subito in una serie di azioni di risanamento ambientale che comportano un sicuro beneficio e che costituiscono al tempo stesso un'assicurazione contro l'intensificazione dell'effetto serra. Penso ad esempio al traffico che rappresenta un problema importante di salute nelle città e che costituisce anche un contributo significativo all'aumento della concentrazione di gas serra". Ma è possibile che la scienza non riesca a dire una parola definitiva sulla questione effetto serra? "Si potrebbe, ma costa. Bisognerebbe organizzare un programma di rilevamento satellitare per misurare con precisione il bilancio energetico dell'atmosfera. Purtroppo né l'agenzia spaziale italiana né il ministro della Ricerca scientifica sembrano considerare questa questione una priorità". Ritiene preoccupante il rischio sanitario creato dall'aumento dell'ozono? "È un elemento che contribuisce ad aggravare la situazione delle città. L'ozono attacca il sistema respiratorio e può creare problemi soprattutto ad anziani e bambini".

(25 luglio 1998)















 













L'ANALISI



Il territorio abbandonato



di GIOVANNI VALENTINI



NON PIOVEVA così da quarant'anni, secondo le imperturbabili statistiche della meteorologia nazionale, nelle Marche flagellate dal maltempo. E di fronte alla tempesta di acqua, neve e vento che imperversa da un capo all'altro dello Stivale, è forte la tentazione di ricorrere ancora una volta al cinismo di un vecchio proverbio popolare, per dire che da quarant'anni non avevamo un governo tanto incline all'appropriazione indebita e al consumo del territorio.

Ma in realtà questa è solo l'ultima puntata, in ordine di tempo, di una storia infinita che purtroppo dura da sempre e ormai ha trasformato la nostra beneamata penisola nel Malpaese più sinistrato e vulnerabile d'Europa. Auguriamoci che, prima o poi, arrivi a un epilogo ragionevole.

Non c'è disastro o calamità naturale infatti che possano essere relegati nella dimensione biblica della fatalità, senza chiamare in causa le responsabilità o quantomeno le corresponsabilità dell'uomo, l'uomo di governo e l'uomo della strada, il potente e il cittadino comune. Vittime, feriti e dispersi; frane, smottamenti e alluvioni; danni e rovine non sono altro che il triste risultato del combinato disposto tra la furia degli elementi e l'inerzia o l'incuria degli esseri umani. Tutto è, fuorché emergenza: cioè eventualità imprevista e imprevedibile, caso fortuito, accidente della storia.

Non sorprende perciò più di tanto neppure la notizia che in Indonesia la ricostruzione post-terremoto sia proceduta più rapidamente che all'Aquila. Nonostante la retorica dei trionfalismi governativi, qualcuno avrebbe potuto meravigliarsi semmai del contrario.

C'è sempre la mano dell'uomo, il suo intervento, la sua assenza o comunque la sua complicità, nel dissesto del territorio che aggrava gli effetti e le conseguenze dei fenomeni naturali. Vale a dire il consumo eccessivo del suolo, l'alterazione diffusa dell'assetto idro-geologico, la cementificazione selvaggia delle coste, l'abusivismo e quant'altro. Quando le colline o le montagne franano a valle, molto spesso il fenomeno dipende dal disboscamento incontrollato che taglia gli alberi e distrugge la "rete" sotterranea delle radici. Quando i fiumi esondano, allagando le campagne e mietendo vittime, la causa più frequente è la deviazione degli alvei originari o la trasformazione artificiale degli argini. E così via, di scempio in scempio.

Manca una politica organica del territorio, difetta la prevenzione, si dispensano di tanto in tanto sanatorie o condoni: e allora sì, il governo è veramente "ladro", perché sottrae alla collettività e alle generazioni future un patrimonio irriproducibile. Ma manca perfino l'ordinaria manutenzione, quella che tocca innanzitutto allo Stato, agli organismi centrali e alle amministrazioni locali. E spetta però anche al privato cittadino: all'agricoltore, al proprietario, all'inquilino o al singolo condomino, a ciascuno di noi insomma nel proprio habitat vitale, per promuovere quella che Salvatore Settis chiama "azione popolare" nel libro intitolato Paesaggio, Costituzione, Cemento, invocando una battaglia per l'ambiente contro il degrado civile.

Politica del territorio significa, innanzitutto, governo e gestione del territorio. Cura, controllo, progettazione, pianificazione. Ma, ancor prima, significa cultura del territorio: cioè conoscenza e rispetto. Consapevolezza di un bene comune, di un'appartenenza e di un'identità. E quindi, difesa della natura, dell'ambiente, del paesaggio.

Un fango materiale e un fango virtuale minacciano oggi di sommergere l'Italia. Il fango prodotto dal maltempo, dall'acqua e dalla terra. E il fango prodotto dal malcostume dilagante, dall'affarismo e dall'edonismo sfrenato. Vanno fermati entrambi, in ragione della responsabilità e della solidarietà.

La convivenza di una comunità nazionale si fonda necessariamente sull'etica civile. Questa riguarda l'ambiente in senso stretto e l'ambiente in senso lato, la società e la politica. Non c'è legge elettorale, consenso popolare o federalismo municipale che possa surrogare o sostituire un tale valore costitutivo. È proprio attraverso la devastazione del territorio che rischia di passare fatalmente la disgregazione del Paese.

(3 marzo 2011)




 



 









Risponde UMBERTO GALIMBERTI



L'USURA DELLA TERRA



Non abbiamo ancora una morale capace di farsi carico degli enti di natura



 



La notizia è fresca (dal sito del Corriere della Sera) ma non una novità: una regione pari a due volte la superficie della Spagna è stata devastata in Amazzonia, polmone verde dell'intero pianeta. Per me, convinto ecologista/ambientalista, una notizia del genere rappresenta, ogni qualvolta viene palesata dai media, una mazzata psicologica che lascia il segno. Felicemente sposato con due meravigliosi bambini e un lavoro a tempo indeterminato che mi soddisfa (di questi tempi avere tali fortune non è da tutti), potrei vivere placidamente il mio status senza tanti patemi. Ma così non è, non voglio che sia così! Quando questi scempi ambientali diventano notizia fruibile a tutti (anche se purtroppo nella realtà penso che essi siano compiuti ogni giorno in qualche remota parte del pianeta o neanche tanto remota: vedi Campania) io cado in una sorta di depressione che mi toglie il sonno la notte (e non è un modo di dire).

Penso che un uomo per essere veramente sereno debba guardare, oltre al proprio orticello, anche al di là dello steccato che circonda questo ristretto orizzonte; il sottoscritto guardando oltre, prova un'angoscia indicibile e una sensazione di inadeguatezza. Potrei essere in pace con la mia coscienza affermando che faccio tutto ciò che è in mio potere fare: tenere comportamenti ecologicamente corretti, fare donazioni ad associazioni ambientaliste (WWF, Greenpeace), insegnare ai figli ad avere rispetto della natura e a fruire dei beni a nostra disposizione con parsimonia.

Che altro fare? Il mio demone sarebbe quello di dedicarmi animo e corpo alla causa ecologica, cercando di fare qualcosa in prima persona ma non è facile. Mi dia lei un consiglio su come approcciare questa mia lacerazione che tanto mi angoscia.



Non siamo più in grado di guardare alla terra come al soggiorno dell'uomo. Il nostro sguardo, soprattutto oggi nell'età della tecnica, percepisce la terra solo come materia prima da utilizzare e da impiegare per i fini che l'uomo si propone. Ma da dove viene questo modo di guardare la terra? Non dalla grecità, perché questa cultura concepiva la natura come un ordine immutabile da cui trarre le leggi per la costruzione della città e il buon governo dell'anima "secondo natura". A ricordarcelo è Platone: «Non pensare o uomo meschino che questa terra sia stata fatta per te. Tu piuttosto sarai giusto se ti aggiusti all'universa armonia» (Leggi, 903c).

Diversa invece è la concezione della tradizione giudaico-cristiana, secondo la quale Iddio consegna la natura nelle mani dell'uomo, affinché questi «domini sopra i pesci del mare, gli uccelli del cielo, gli animali domestici, le fiere della terra» (Genesi, 1,26). Questa cultura del dominio percorre l'intera storia dell'Occidente e ne caratterizza non solo la morale cristiana, ma anche quella kantiana, che potremmo definire "laica" in quanto costruita sui soli presupposti razionali. Ebbene proprio Kant dice che «l'uomo è da trattare sempre come un fine e mai come un mezzo». Esortazione da sottoscrivere senz'altro, che però, opportunamente considerata, lascia intendere che, a eccezione dell'uomo, tutto può essere considerato un "mezzo".

La domanda che a questo punto si pone è: oggi l'aria è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? L'acqua è un mezzo o un fine da tutelare? E le foreste, gli animali, l'atmosfera, la biosfera che cosa sono? Solo mezzi o a loro volta sono diventati fini da salvaguardare.

Il problema è che le morali coniate in Occidente, sia sul versante religioso, sia sul versante laico, si limitano a regolare i rapporti tra gli uomini, senza farsi il minimo carico degli enti di natura. Naturalmente esortazioni in questo senso non mancano, sia da parte del mondo religioso che del mondo laico. Ma perché una morale possa funzionare è necessario che le sue norme vengano interiorizzate psicologicamente, mentre constatiamo che questa interiorizzazione psicologica funziona per i reati sessuali, gli omicidi, i furti, le rapine dove scatta subito riprovazione e indignazione, che invece latitano se si inquinano le acque, se si devasta il territorio, se si riempie l'aria di anidride carbonica e via dicendo.

Finché non riusciremo a praticare una morale che si faccia carico degli enti di natura, insieme alla terra finiremo col mettere a rischio anche l'esperimento umano.


(15 gennaio 2011)



 



 



Cose che non vanno più di moda di GIACOMO PAPI



 



IL PAESAGGIO



La terra indurita dal cemento, si rammollisce e si sfalda



Piove da un mese, forse di più. Piove sul mare, piove in campagna, si bagna il tailleur di Mara Carfagna. Immagino l'acqua che scorre in discesa per la penisola, trasformando ovunque la terra in melma. Il fango da metafora mediatica (vedi: macchina del) è diventato, in questi giorni di pioggia, la nostra condizione geografica, la descrizione letterale di un crollo già in atto che assomiglia a uno sciogliersi più che a uno schianto. L'alluvione ha decretato la fine del miracolo del Nord Est presentandogli il conto di trent'anni di ininterrotta cementificazione, l'acqua ha fatto rimbombare nel nostro immaginario l'eco del fuoco che duemila anni fa travolse Pompei. In Italia la terra sembra farsi liquida. Dal sottosuolo a Pianura come a Milano, emergono rifiuti e veleni fino a ieri sepolti appena al di sotto della crosta terrestre. A Brescia, per diciassette giorni, cinque immigrati hanno preso pioggia in cima a una gru e all'Aquila le macerie sono diventate poltiglia. È uno sconquasso di crolli e di frane in una luce grigio-verdastra. I politici in tv assomigliano a rospi e a ranocchi, come i re nelle maledizioni delle fiabe.

Qualche anno fa, durante un altro nubifragio, ho incontrato il poeta Andrea Zanzotto nella sua casa di Pieve di Soligo in provincia di Treviso. A un certo punto indicò oltre la finestra: «Sono le colline del prosecco, le spostano perché siano più esposte al sole. È il tentativo di riplasmare un fantasma di paesaggio che non esiste più». Disse anche: «La Lega aveva qualche ragione in anni lontani, ma oggi è espressione del ceto che ha prodotto questa distruzione collegata alla necessità di aumentare posti di lavoro e ormai accettata anche dalle vittime». Sua moglie Marisa raccontò allora di quando, pochi giorni prima, il caporeparto di un supermercato Bennet era rimasto schiacciato da un muletto e la direzione aveva impiegato tre ore per chiudere, lasciando i clienti a passare con il carrello di fianco al cadavere coperto da un lenzuolo. Il poeta mi parlò del paesaggio della lingua, distrutto da coloro che si vantano di proteggerlo: «II dialetto Veneto sui manifesti della Lega è un risotto pieno di arcaismi, questi non sanno proprio niente, altro che Goldoni, Ruzante e Noventa». E si mise a declamare insieme alla moglie alcuni versi proprio di Giacomo Noventa: «Soldi, soldi, soldi, vegna i soldi,/ mi vui vederme e comprar,/ comprar tanto vin che basti,/ 'na nazion a imbriagar». Parlò della ricchezza e della memoria della miseria: «In questa specie di mescolanza grottesca di magnati dal giorno alla notte, iniziata con il franchising di Benetton, capita di leggere titoli di giornali come "II re del Pinguino di Treviso va in Cina". La globalizzazione diventa mondializzazione, il mito resta quello americano dell'efficienza». Concluse: «Ma dietro l'efficienza c'è solo la morte».

È in tutta la provincia italiana, non solo nel Nord Est, che il paesaggio è devastato da milioni di rotonde, villette e centri commerciali. La terra indurita dal cemento si rammollisce e si sfalda, consegnandoci il presagio dì un'alluvione imminente. Scrisse Jules Les Jour, il geniale regista francese famoso per la sua inconcludenza: «Farò un musical alla Man Ray intitolato Crying in the rain fatto soltanto di facce di gente che piange sotto la pioggia scrosciante. Bisogna rendere invisibili le lacrime per mostrare il dolore».

Mentre scrivo piove ancora. È il 24 novembre. D uscirà il 4 dicembre. Forse sarà un giorno di sole.

(4 dicembre 2010)



 



 



 



 



 



 



 


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