martedì 12 aprile 2011

I migranti della costa accanto












Dapprima vennero gli ambulanti, subito sprezzantemente definiti “vu' cumprà”. Li identificarono come marocchini, sebbene provenienti da Paesi diversi, ma marocchini continuarono ad essere nello stupido immaginario popolare. Quindi toccò agli albanesi che presto divennero sinonimo di deliquenti i quali passarono il testimone ingombrante agli slavi e da loro ai rumeni.

Adesso è il momento dei tunisini e che insieme a loro sbarchino anche somali, eritrei, libici poco importa. I tunisini sono i “nuovi” clandestini che hanno conquistato la ribalta, sono gli extracomunitari che ci invadono, nuovo strumento nella mani della letale propaganda legaiola, protagonisti dei telegiornali. Tanti volti, senza un nome, perché sono clandestini, extracomunitari, tunisini, cioè validi per tutti gli usi. Dimenticando così che si tratta di migranti, di persone. Se s'iniziasse, invece, ad adoperare definizioni più rispettose della realtà e, soprattutto, della loro dignità?

Anche di fronte al loro sangue che arrossa il mar Mediterraneo, alle tragedie senza fine che si consumano nelle acque che circondano Lampedusa, alla mattanza che non suscita neanche indignazione, se non quella di rito, che non si nega a nessuno, tanto non costa niente. Perché non abbiamo nessun merito ad essere nati nel Nord del mondo e ce ne dimentichiamo sempre.Con la consueta sensibilità che lo contraddistingue, Gian Antonio Stella ha scritto sul “Corriere della Sera” del 31 marzo un commento su cui riflettere e questo prima della strage del 6 aprile scorso in cui sono morti 250 migranti. A seguire un altrettanto interessante contributo di Adriano Sofri su “la Repubblica” del 2 aprile.



 







 





Noi e gli altri



Le tragedie e le parole da misurare



di Gian Antonio Stella



Ci volevano quei morti, quel bambino annegato con altri dieci poveretti nelle acque del canale di Sicilia per ricordarci che la fuga dall'Africa non è «solo» un problema nostro? Il naufragio di quel gommone carico di disperati, l'ennesima «carretta del mare» affondata nel Mediterraneo, è un monito angosciante.

Per tutti noi ma soprattutto per chi in questi giorni ha dato l'idea di curarsi esclusivamente dei guai interni creati dall'ondata di immigrati, dei rapporti con l'Europa che se ne lava le mani, dei rischi politici ed elettorali, della necessità di distinguere tra profughi e i clandestini.

C'erano eritrei e nigeriani, par di capire, su quel gommone. Cercavano di venire qui perché fuggivano «solo» dalla fame o anche, viste le tensioni etniche e le guerre tribali e religiose che sconvolgono i loro Paesi, dalle persecuzioni politiche? Erano profughi da accogliere (sia pure di malavoglia) o clandestini da ributtare sbrigativamente sulla loro sponda? Certo, non possiamo accoglierli tutti. Lo scrive nel libro «Ero straniero e mi avete ospitato», col dolore di chi vorrebbe poter fare di più, anche un uomo santo come padre Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose: «Occorre riconoscere che esistono dei limiti nell'accoglienza: non i limiti dettati dall'egoismo di chi si asserraglia nel proprio benessere e chiude gli occhi e il cuore davanti al proprio simile che soffre, ma i limiti imposti da una reale capacità di fare spazio agli altri, limiti oggettivi, magari dilatabili con un serio impegno e una precisa volontà, ma pur sempre limiti».

In astratto c'è chi dirà che non è giusto. Che ogni uomo ha diritto a emigrare, sognare, cercarsi un suo angolo del mondo, partire per «catàr fortuna», come dicevano i nostri nonni che se ne andarono da un Veneto poverissimo diretti in America, in Brasile o in Transilvania «a menar la carioleta / ché l'Italia povareta / no' l'ha bezzi da pagar».

Forse cristianamente occorrerebbe aggiungere la parola «purtroppo»: non possiamo accoglierli tutti, purtroppo. Ma così è: non possiamo. Come scrive padre Bianchi, «siamo consapevoli (..) che quasi mai il pane va verso i poveri e quasi sempre i poveri vanno verso il pane, così come siamo sempre più coscienti della radicale uguaglianza di tutti gli esseri umani di fronte a Dio e dell'universalità dei loro diritti, ma questo non significa praticare un'accoglienza passiva, acritica e illimitata degli immigrati».

Proprio per questo, però, proprio perché siamo chiamati in questi giorni a prendere decisioni durissime sulla pelle di migliaia di persone che si sono imbarcate inseguendo un sogno come milioni e milioni di italiani di una volta, dobbiamo misurare le parole. Pesarle bene. Per rispetto verso tutti quei nostri emigranti che furono clandestini. Per decenza morale verso chi, come ieri, perde la vita in questi viaggi infernali. Ma più ancora, se volete, per buon senso. Si può gestire un problema come l'emergenza umanitaria di questi giorni, aggravata dalla scelta di tanti Paesi europei di lasciarci soli alle prese con l'ondata, solo se viene messa al bando ogni parola che puzzi anche lontanamente di razzismo.

Non abbiamo altra scelta che riportare a casa loro gli immigrati che non hanno diritto allo status di profugo per motivi politici, religiosi, sessuali? Possiamo farlo solo se non aggiungiamo al rifiuto, che già vivono come una ferita, l'insulto, il disprezzo, l'odio. Messo alle strette, un Paese già in pesanti difficoltà può essere costretto a rimpatriare chi ha cercato di immigrare «solo» per motivi economici? Certo non può chiamarlo «bingo bongo» o «marocchino di merda». Né dirgli «foera di ball».

Non solo perché il rapporto dell'Onu sulle migrazioni del 2009 dice che chi lascia oggi il Terzo mondo per venire in Occidente vede in media «un incremento pari a 15 volte nel reddito, un raddoppio dei tassi di iscrizione alle scuole e una diminuzione pari a 16 volte nella mortalità infantile»: cosa che spingerebbe chiunque di noi, al posto loro, con la crisi paurosa che affonda l'Africa abbandonata al suo destino, a tentare l'avventura. Ma perché il dialetto lombardo usato per quella battutaccia è lo stesso dei pavesi che emigrarono nella pampa argentina, dei valtellinesi finiti nel Queensland, dei bresciani vittime con liguri e piemontesi del massacro di Aigues Mortes dov'erano accusati di «rubare il lavoro» ai francesi nelle saline della Camargue, dei bergamaschi finiti addirittura nelle miniere degli inglesi nel Karnataka, nell'India meridionale.

L'Italia, si dice, non è un Paese razzista. Certo, abbiamo meno problemi di quanti ne abbiano i Paesi che facevano parte del blocco comunista, dove il crollo della tragica illusione dell'assoluta eguaglianza fra gli uomini è stata seguita da rivendicazioni identitarie spesso dichiaratamente razziste se non addirittura neonaziste. E la stessa Lega Nord guidata dall'autore della spropositata battuta dell'altro ieri può rivendicare di aver dato prova in tante realtà locali, ad esempio Treviso, d'uno spirito di accoglienza e integrazione che contano più di tante sparate xenofobe. Di più: è leghista Sandy Cane (cognome inglese: si pronuncia «kein») la quale, a dispetto degli sfoghi dei malpancisti sul forum di radio Padania, è stata eletta a Viggiù primo sindaco italiano di pelle nera, con tanto di fazzolettino verde d'ordinanza.

I rigurgiti di odio razzista online, però, ci dicono che dobbiamo stare attenti. Tanto più che veniamo da una storia di orrori. In particolare nei confronti dei libici e degli africani. Ce lo ricordano foto famose e tremende, come quelle dei lager nel deserto della Sirte dove morirono a decine di migliaia vecchi, donne e figlioletti. O quella della fucilazione di un gruppo di civili tra i quali c'era un bambino. Siamo quindi chiamati a maggiori responsabilità.

Di più: i problemi crescenti alla frontiera di Ventimiglia, dove la Francia guidata con piglio muscolare dal figlio di un immigrato ungherese respinge bruscamente quanti cercano di entrare, ci ricorda un altro pezzo della nostra storia. Come ha dimostrato definitivamente con migliaia di documenti nel libro «Il cammino della speranza», lo studioso Sandro Rinauro, «gli italiani hanno detenuto a lungo il primato dell'esodo clandestino». Anche in Francia. Un solo esempio: «Secondo il direttore dell'Office national d'immigration Pierre Bideberry tra il 1946 e il 1966 ben il 90 per cento dei familiari degli immigrati italiani era entrato «per migrazione spontanea», ossia non autorizzata. Ed era proprio lì, a Ventimiglia, spiegano la professoressa Simonetta Tombaccini nel saggio «La frontière bafouée» (La frontiera beffata) o i reportage di Tommaso Besozzi, che tanti italiani cercavano di raggiungere illegalmente la Francia. Anche a costo di rischiare la vita al Passo del Diavolo. Come toccò a decine di poveretti volati nel vuoto «come fenicotteri». L'ultimo dei «nostri» a cadere lì, dove in questi giorni si avventurano i maghrebini, si chiamava Mario Trambusti, aveva poco più di vent'anni, veniva da Bagno di Ripoli. Si sfracellò la mattina di Capodanno del 1962.

(31 marzo 2011)



 













Se io fossi un tunisino



di ADRIANO SOFRI



METTIAMO che io sia un tunisino di vent'anni su uno spiazzo di Lampedusa. Aspetto di essere imbarcato ma sotto il maestrale il mare urla e biancheggia. La polizia ci ha tolto, uno per uno, le cinture dei calzoni e i lacci delle scarpe. (Dove le metteranno? Ce le restituiranno?).

Perché ce le tolgono? Come potremmo minacciarli con i lacci da scarpa? Forse vogliono impedirci di impiccarci. Ma allora sta per succedere qualcosa di così terribile che vorremo suicidarci? In ogni caso, è davvero umiliante essere spogliati dei lacci e restare coi pantaloni in mano.

Mettiamo che io sia un poliziotto di vent'anni e stia ritirando lacci e cinture a questi tunisini, ragazzi per lo più, che continuano a dire "Italia Italia" e "Libertà libertà". Mi hanno mandato qua - avrei voluto venirci in vacanza - e da 48 ore stiamo occupandoci, senza dormire e mangiando male, di questi disgraziati che non mangiano e non dormono. Pare che, una volta salpati, li porteremo indietro a loro insaputa in Tunisia. Sarà per questo che gli leviamo cinture e lacci, perché non si impicchino per disperazione. Ma se si immagina che possano farlo, che cos'altro si deve aspettarsi che facciano?

Mettiamo che io sia un abitante di Lampedusa, non so, un pescatore. Non ho niente, davvero, contro questi spiaggiati. Le loro facce mi sono familiari, con tanti di loro ho parlato. So quanti se ne perdono in questo mare di annegati. So che vengono a cercare l'Italia, l'Europa, e l'Europa e l'Italia li fermano qui, a Lampedusa, e la mia isola diventa una zattera alla deriva che affonda sotto il peso dei suoi naufraghi, e nessuno vuole soccorrerla.

Mettiamo che io sia io. Mi è facile (all'inizio, almeno) mettermi nei panni di un ragazzo tunisino o di un poliziotto in trasferta a Lampedusa. Nei panni miei, mi chiedo costernato come siamo arrivati a questo punto. Dopotutto, sono sì e no due mesi. Si è gridato all'invasione, all'Europa indifferente, e si è lasciato che l'alta marea di persone sommergesse Lampedusa, giorno dietro giorno, fino a devastarne la vita quotidiana, e abbandonando all'indecenza i nuovi arrivati. Dapprincipio mi sono detto, ci siamo detti in tanti, che era la scelta deliberata e allegra di un governo alle prese con un mare di guai: era così infatti, e poi la Libia e il Giappone sarebbero arrivati di rincalzo a far da palo a un governo che intanto borseggiava il processo breve e qualche altra porcheria d'interesse privato. Fino al giorno in cui il gioco si è svelato teatralmente sulla doppia scena della visita del capo del governo a Lampedusa, un'esibizione con pochi eguali nella storia del caudillismo contemporaneo, e del parlamento, un parlamento senza eguali nella democrazia contemporanea. Ma intanto si capiva che il cinismo grossolano di quel calcolo si andava ritorcendo giorno dietro giorno contro i suoi autori, e che prendeva il sopravvento la loro insipienza. Hanno detto di tutto - che li pagheremo perché tornino indietro, che gli faremo un campo di tende perché restino nell'isola, che li manderemo a casa della Merkel, che li riporteremo manu militari al loro paese, nolenti loro e il loro governo e le loro acque territoriali: e fatto niente.

Il maestrale ha regalato una dilazione di forza maggiore. Ma le scadenze sempre più solenni e ultimative del capo e dei suoi uomini - 24 ore, 48, 60, e tutto sarà risolto! - suonavano vecchie, e mostravano la sostanza. C'è una moltitudine di rifiuti da smaltire, come a Napoli, come all'Aquila. Monnezza a Napoli, terremotati all'Aquila, rifiuti extracomunitari a Lampedusa: e la stessa soluzione, spazzarli qua e là, alla rinfusa, con le cattive o con le buone - le buone, una villa trattata su e-bay, un nobel o un casinò a Chiaiano o Lampedusa o Manduria. Quanto alle cattive, basta un tipo addolcito dalla malattia che biascica "Fuori dalle palle!", e l'intendenza seguirà. Così la vergogna travolge gli argini, sommerge prima i piani alti, poi i mediani, infine anche i piani bassi e gli scantinati.

In questa combinazione di trivialità, incapacità e inumanità non è facile dire che cosa bisognerebbe fare. È più facile farlo. O almeno, qualcuno lo fa. Ieri monsignor Crociata ha comunicato per conto della Cei che "come Chiesa italiana attraverso le diocesi e le strutture della Caritas, abbiamo individuato 2.500 posti disponibili per accogliere altrettanti immigrati in 93 diocesi italiane". Il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi, ha sventato l'ukaz ministeriale che concentrava e recintava nella palude di Coltano (Pisa) centinaia di migranti così da avventarli contro la gente del posto e, capolavoro, i residenti rom, offrendo di ospitare lo stesso numero di persone in strutture di località diverse e in gruppi di poche decine, e "senza filo spinato". Immagino che iniziative così ce ne siano tante e ignorate, a compensare gli smaglianti rifiuti di autorità varie di ogni latitudine - e specialmente delle più alte. Andrebbero censite e messe a frutto, tanto più di fronte alla disfatta di un modo di governo che si nutre propagandisticamente dell'emergenza e nell'emergenza vera soccombe.

Mettiamo dunque che io sia io, nei miei panni, e ciascuno di noi si metta nei suoi panni personali. La cosa ci riguarda? O pretendiamo che la nostra condizione di individui ci esoneri (e ci impoverisca) di una parte di responsabilità? Ci sono tutti questi esseri umani che si mettono in viaggio avventurosamente e dolorosamente in cerca di una vita migliore, che somigli un poco di più alla nostra.

Vedete, ogni discorso sull'immigrazione, sui profughi e sui viaggiatori (i "clandestini"!) che non rinunci del tutto alla nostalgia per una fraternità umana, viene tacciato subito di buonismo, cioè di una bontà di maniera. E messo a tacere dalla frase definitiva: "Prenditeli a casa tua!" La frase è cattivista, ma ha una sua utilità, e non è affatto imbattibile. Non solo perché ci sono molte persone che se li prendono, "a casa propria". Ma mi interessa che cosa fanno gli altri, che cosa facciamo noi altri. Avere una casa propria, e "una stanza tutta per sé", è ancora un gran privilegio sul nostro pianeta, ma è anche una condizione preziosa di libertà e di civiltà. I privilegi, anche quelli che non implicano una soperchieria diretta sulla povertà altrui, sono a rischio. I nostri pezzi grossi si riempiono la bocca di parole tolte al loro contesto reale. Berlusconi ieri, Dio lo perdoni e non lo sentano a Sendai, ammoniva sullo "tsunami umano" che ci sta travolgendo; e in Tunisia sono entrati 200 mila profughi dalla Libia. Così è per la parola "invasione": "È una vera e propria invasione!". No, naturalmente. Non è un'invasione vera e propria. Ma le invasioni succedono davvero, sono successe al tramonto di altri imperi, e quando succedono, abbiano una ragione o no (se la fanno, una ragione), entrano senza bussare.

Finché dura, assottigliandosi, l'età del nostro privilegio, piuttosto che gridare "Fuori dalle palle!", conviene versare il nostro modesto contributo supplementare per l'usufrutto del metro quadrato che ci è toccato in sorte. Se non siamo tipi da spartire il mantello col povero che trema, e anzi per tenercelo, il mantello, regalargli un cappotto in saldo, prima che gli venga un'altra idea. Spendere qualche energia e qualche soldo in aiuti, prima di rovinarsi in guardie giurate. Ho detto che conviene: se poi ci riuscisse di farlo con una specie di gioia, sarebbe fantastico.

(2 aprile 2011)


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