Maurizio Gasparri ha la fissazione di Zapatero. Se parla di immigrazione, sostiene che Zapatero ha ordinato di sparare sui clandestini, se parla di crisi economica, ecco che Zapatero ha portato la Spagna sul baratro e ora chiede il sangue dei lavoratori. Insomma, Zapatero, coi suoi occhioni blu, chissà perché è l’orco della nostra destra. E infatti, dopo che Gasparri a “Otto e mezzo” aveva appena finito di straparlare del premier spagnolo, anche Lupi (Pdl) a “Ballarò” ha tirato in ballo il povero Zapatero, attribuendogli la colpa di ogni disgrazia iberica. Cosicché l’economista Boldrin, che è un tipo fumantino e forse pure filospagnolo, si è incaricato di smentire le palle della destra. Anzitutto ha spiegato che la Spagna ha sì più disoccupati dell’Italia, ma ha anche più occupati. E poi ha detto che il capo del governo spagnolo guadagna solo 90mila euro: una cifra di sicuro inferiore a quanto guadagnano sia Gasparri che Lupi, che sono infinitamente più dannosi e molesti.
La televisione unica dei vari Scodinzolini, per risparmiarci dispiaceri ci nasconde le notizie più gravi, truccandole. Fa paura la coerenza di questo governo: mentre il ministro della giustizia ad personam è impegnato allo spasimo per impedire che i magistrati operino e il popolo italiano conosca le notizie, il ministro della pubblica istruzione fa del suo peggio perché anche i bambini sappiano il meno possibile. Continua infatti la demolizione, pezzo per pezzo e mese per mese, della scuola e della conoscenza in genere. A tutti, ci pare, poteva venire in mente di accorciare l’anno scolastico, tranne che al ministro della pubblica istruzione, che ha arbitrariamente usurpato le funzioni della collega Brambilla, e perfino di Tremonti, per proporre inesistenti vantaggi per l’economia turistica a scapito degli scolari. Perciò, altro che scuse: ha fatto bene Bersani a dire che la Gelmini rompe i coglioni agli insegnanti. Non basta: li rompe anche ai bambini.
Ai lettori che vivono con preoccupazione la crisi economica vorremmo segnalare un dramma nel dramma. Quello di Elisabetta Gregoraci, moglie di Flavio Briatore e mamma del di lui erede, Falco Nathan. «Al mio piccolo manca lo yacht», è il grido di dolore che la donna ha affidato a un settimanale. «Da quando siamo stati costretti ad abbandonare la barca, il bambino piange spesso, non è più sereno come prima». Segue un racconto dettagliato e crudele: dopo la nascita del pargolo, la famiglia Briatore è costretta ad accamparsi su uno yacht con 12 persone di equipaggio e 63 metri di parquet. Una sistemazione di fortuna, in attesa che finiscano i lavori della nuova abitazione, che sorgerà in località defilata: Montecarlo. Ma ecco sopraggiungere i finanzieri a sirene spiegate, con l’accusa di contrabbando e frode fiscale. I profughi dello yacht devono scendere a terra e riparare in un attico di Londra, dove il clima è meno mite e il pavimento neanche ondeggia. Siamo sicuri che milioni di donne si immedesimeranno nell’incubo della signora Briatore. È tale il terrore che i loro figli possano soffrire il trauma della perdita dello yacht che hanno preferito abituarli fin da subito a condizioni di vita meno precarie: una culla ricavata nella stanzetta della nonna. Da parte nostra - oltre a offrire al piccolo Falco Nathan la più incondizionata solidarietà per i decenni a venire - ci domandiamo se la sua mamma abbia una minima percezione della realtà che la circonda. Ma forse sullo yacht si captava soltanto il Tg1.
Splinder (06/10/2007) Intervista a Gelli: "Guardo il Paese, leggo i giornali e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa""Giustizia, tv, ordine pubblico è finita proprio come dicevo io"dal nostro inviato CONCITA DE GREGORIOAREZZO - Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della miaLeggi ancora...
Testo integrale del "piano di rinascita democratica", della loggia P2, sequestrato a M. Grazia Gelli nel luglio 1982
PREMESSA 1) L' aggettivo democratico sta a significare che sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema 2) il piano tende invece a rivitalizzare il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gliLeggi ancora...
Quel bel volto di una donna determinata e dignitosa irrompe dal televisore mentre si è in tutt’altre faccende affaccendati. Le sue parole lacerano l’anima, le immagini devastano per la loro crudezza. Agghiacciante. Non riesco a capire bene cosa stia accadendo, si tratta di frammenti di quotidianità di una giornata all’epilogo. O forse capisco fin troppo bene, ma mi sembra tutto così inverosimile da rasentare l’allucinazione. E invece Mariarca Terracciano è vera, reale. Anzi era vera e reale. Il filmato il suo testamento. Quando i contorni si fanno più chiari la storia diventa pazzesca, soprattutto perché la tragedia avviene a Napoli, la città in cui la parte più oscurantista cade in deliquio alla vista del sangue (?) del santo Gennaro che si liquefa a intervalli regolari. E ne trarrebbe auspici di sventura laddove ciò non dovesse accadere. La superstizione ancora attecchisce, perché se il santo od uno qualsiasi esistessero il miracolo, quello vero, l’avrebbero fatto. Ormai solo un evento soprannaturale può salvare questo Paese che sta declinando ad una velocità impressionante e che deve contare un’altra vittima del lavoro, una donna, Mariarca (mi vien da pensare che il nome le sia stato attribuito per la devozione, dei genitori, verso la veneratissima Madonna dell’Arco, per la quale si allestisce un vero e proprio spettacolo di paganesimo puro. E anche materialista: si passa per elemosinare moneta sonante, perché si proclamerà pure che c’è la Divina Provvidenza, però meglio andare sul sicuro) che ha scelto di andare incontro alla morte dissanguandosi giorno per giorno. Probabilmente si stabilirà che non esiste correlazione tra il suo salasso, l’accredito tre giorni dopo dello stipendio, l’interruzione della clamorosa protesta e quindi il successivo malore che è stato fatale. Ma credo che sia assolutamente irrilevante, perché la responsabilità della sua morte deve gravare su coloro che hanno spolpato fino all’osso la bistecca della sanità napoletana e, più in generale, su una classe dirigente che ci sta espropriando di tutto con inesauribile voracità. Che con quei soldi siano dannati in eterno. Adriano Sofri ha scritto su “la Repubblica” di sabato scorso un ottimo commento, con molte considerazioni degne di interesse (e che condivido). Il quotidiano romano ha collocato la notizia in prima pagina, taglio medio, con la giusta rilevanza (la foto accompagna l’articolo che prosegue nelle pagine interne). Peccato però che sbagli, per due volte il cognome di Mariarca nelle didascalie sotto alle immagini tratte dal video, mentre nel resoconto viene scritto correttamente: Terracciano. Poi oggi, nell’edizione nazionale, non c’è più traccia, quasi a voler rimuovere un’immagine che sarà invece difficile dimenticare. Qui la pagina Facebook a lei dedicata.
Svenarsi per un diritto ADRIANO SOFRI
È successo a Napoli, dove il sangue fa miracoli. Ma non è una storia napoletana, non solo, almeno. Non è nemmeno una storia pazzesca. Vi sembrerà una pazzia se vi fermerete a titoli e sommari: «Si svena per il salario... Muore infermiera...». Poi però guardate quella registrazione su YouTube, e restate interdetti. Lei è così normale, le cose che dice e il tono con cui le dice sono così persuasive - e intanto quello che fa, attorniata da compagne e compagni di lavoro, è così insopportabile - che la domanda vera diventa questa: come siamo arrivati al punto in cui un atto pazzesco viene pensato e spiegato così ragionevolmente? La domanda era questa già prima che la morte della signora la togliesse dalle cronache locali e la rovesciasse sulle prime pagine. Ho letto, nei primi lanci di agenzia di ieri, che all´inizio della sua protesta Mariarca Terracciano aveva detto, mentre filmavano il suo salasso: «Lo stipendio è un diritto». Poi ho guardato il video. Aveva detto: «Secondo me, lo stipendio è un diritto della persona». Non è la stessa cosa. Certo, quel «secondo me» può essere stato del tutto gratuito, un intercalare come altri: però, riascoltato, vuol dire che un´ovvietà come «lo stipendio è un diritto» non è, o non è più, un´ovvietà, non è più un´enunciazione oggettiva, è diventata un´opinione. Secondo la signora Mariarca, 45 anni, infermiera alla ginecologia del San Paolo a Fuorigrotta, madre di due figli piccoli, lo stipendio è un diritto. Dunque secondo altri no. Anche togliersi ogni giorno 150 millilitri di sangue per rivendicare un diritto dovrebbe essere una pazzia, ovviamente, "oggettivamente". E lì invece c´era una lavoratrice che stava di fatto obiettando: Secondo me, buttare il sangue è un modo ragionevole di mostrare che c´è chi gioca con la pelle, con la vita di chi lavora. «Il sangue è vita», ha detto. Certo che si sente il colore di Napoli, l´Asl da diecimila dipendenti, la più numerosa d´Italia, le espressioni dialettali - «Buttare ‘o sangue, jettare ‘o sangue», che sono pressappoco sinonimi di lavorare - e proverbiali, «il lavoro fa buttare il sangue». E tuttavia il discorso di Mariarca T. non era dialettale. «Forse può sembrare quasi un atto di pazzia, però secondo me, è un atto che dimostri che stanno giocando sulla pelle e sulla salute di tutti quanti». (Vorrei sottolineare quel congiuntivo, «che dimostri»...). Non è dialettale, e - ripeto: prima e indipendentemente dalla commozione per la morte di questa signora, e la disputa incresciosa sulle sue cause cliniche - si lega a una sequela impressionante di eccessi di legittima difesa da parte di persone che le risorse tradizionali e nobili del mondo del lavoro non sanno più assicurare. «Sciopero», aveva chiamato con naturalezza i proprii salassi e il proprio digiuno l´infermiera. Non aveva certo messo in conto di morire - solo di dare il sangue. E intanto, da un capo all´altro dell´Italia, ci sono operai restati senza lavoro e salario e piccoli imprenditori non più in grado di far fronte alla responsabilità per i dipendenti e le famiglie, che si ammazzano, per disperazione, o per stanchezza, o magari, come tanto tempo fa, quando ci si vergognava della propria inadeguatezza e delle porcherie altrui, per vergogna. Operai e tecnici che si accampano sulle ciminiere e sui tetti hanno fatto parlare di "nuove forme di lotta", e magari c´è davvero qualcosa su cui fare affidamento, e non solo la corsa al rialzo per farsi vedere, per smettere di essere invisibili: anche Mariarca aveva girato il suo video per una televisione locale, e ora tutti lo guardano in rete, come si guarda un preannuncio, benché involontario, di morte. Ma queste lotte "estreme" sono più probabilmente una retrocessione che una promessa, e non a caso ricordano gesta di prigionieri sepolti vivi che si arrampicano sui tetti e sventolano lenzuoli e gridano al cielo. Operai provetti che vanno a stare nella galera dell´Asinara, l´isolamento in un´isola di punizione. Ieri su questo giornale due pagine raccontavano il Call Center di Incisa Valdarno - Toscana, dov´è bello vivere - in cui perfino un frustino serviva a galvanizzare la produttività dei lavoratori. «Lavoravo in nero - raccontava una ex-dipendente a Laura Montanari - per 600 euro e in certi casi anche 13 ore al giorno, mezz´ora di pausa e se chiedevi di andare in bagno a volte c´era da discutere. Eppure non mi è mai venuto in mente di andare al sindacato, di pensare che avevo dei diritti. Mi svegliavo la notte in preda all´ansia». Non le era venuto in mente che aveva dei diritti. Una frase terribile nella sua semplicità, che fa da complemento e da conferma all´altra di Mariarca: «Secondo me, lo stipendio è un diritto della persona». A lei era venuto in mente. (15 maggio 2010)
È la triste metafora dello sviluppo in salsa italiota: cemento, cemento e ancora cemento, come fosse manna nel deserto. Formidabile l’esempio di Domenico Finiguerra, eccellente sindaco di Cassinetta di Lugagnano che ha detto stop allo sfruttamento del suolo e di aree agricole, “altrimenti cosa ci mangeremo: le piastrelle?”, si chiedeva opportunamente sabato scorso intervenendo alla meritoria trasmissione di Rai Tre “Ambiente Italia”, massacrata dal palinsesto e anticipata adesso alle 12:50 del sabato. La colata di cemento, industria molto redditizia per le mafie, quella siciliana segnatamente, questa volta riguarda il Veneto, regione adesso governata dall’ex ministro per le Politiche agricole, uno dei meno peggio del bigoncio di Palazzo Chigi. Cosa sceglierà ora?
Asfalto e cemento tra Alpi e laguna di Ferruccio Sansa
Nella pianura tra Verona e Mantova non bastava l’idiozia della “new town” autostradale di VeMa, a desso ci si mette pure l’autodromo di Motorcity, manco fossimo all’epoca di Nuvolari ..
Chissà che cosa deciderà il Governatore “contadino”. Luca Zaia deve ancora mostrare la sua idea del nuovo Veneto, deve far capire se intende proseguire sulla strada del predecessore, che sarà pure ministro delle Politiche Agricole, ma ha cementificato la sua terra. Sulla scrivania di Zaia presto arriverà un progetto che cancellerà 460 ettari di campi e modificherà per sempre la campagna veronese: l’autodromo di Motorcity, un progetto lanciato anni fa dalle società di Chicco Gnutti e Gianpiero Fiorani… sì, proprio i furbetti del quartierino. L’autodromo sarà una delle più grandi opere del Veneto, insieme con il passante di Mestre e il Mose. Finora la Lega si è astenuta, ma adesso tocca a lei decidere. Siamo a Vigasio e Trevenzuolo, in provincia di Verona. A centocinquanta chilometri da Monza e Imola, due circuiti storici che in questo periodo non se la passano troppo bene. Già, l’industria automobilista è in crisi, la Formula 1 annaspa e punta sull’Asia dove girano soldi e fioriscono piste su isole artificiali. Ebbene, che cosa si fa in Veneto? Un autodromo lungo 5,2 chilometri per oltre un miliardo di investimento. Ma il punto è soprattutto un altro, andate a Vigasio per rendervene conto. A nord nelle giornate terse vedete le Alpi, a est il cielo sbianca verso la Laguna. Intorno è pianura a perdita d’occhio, quella terra spessa, scura che imbeve ogni cosa del suo colore. Siamo al confine tra Veneto e Lombardia, dove la Lega affonda le sue radici, rurali più che metropolitane. Ora, però, all’immagine che avete davanti sovrapponetene un’altra: quella del futuro autodromo elaborata nel “rendering” degli architetti (www.motorcityvr.it). Ecco, al posto della campagna comparirà il serpente d’asfalto della pista. Ma il grosso del progetto, e dell’affare, sta nel centro commerciale da 769 mila metri quadrati, nel parco tematico da 350 mila metri quadrati (il doppio della vicina Gardaland), nel polo tecnologico (268 mila metri quadrati), in alberghi, ristoranti e immancabili case. Poi caselli, strade e metropolitane. Insomma, cemento. “È un progetto colossale che rischia di stravolgere i nostri paesi, di Vigasio e Trevenzuolo, che saranno divorati da Motorcity, diventeranno un’appendice della pista”, sospira Cesare Nicolis. La sua storia racconta tante cose del Veneto di oggi che ha il record dei cantieri, ma anche dei comitati. Nicolis è un ex dirigente di banca, uno che sa maneggiare bilanci e che a 59 anni ha deciso di andare in pensione per dedicarsi alla sua terra. Nel suo archivio conserva migliaia di pagine con la strana vicenda Motorcity. Dall’inizio, quando si fece una gara tra i Comuni del Veneto per aggiudicare il progetto. Vinsero Vigasio e Trevenzuolo. È il luglio del 2004 quando Earchimede e Draco vengono indicate come società realizzatrici dell’opera. Dietro il progetto si intravvedono Emilio Gnutti, Hopa, la Popolare di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani e Unipol, insomma, i protagonisti delle scalate dell’estate 2005. Il sogno di Gnutti, che divide il cuore tra finanza e motori, si realizza. Intanto, però, il progetto cambia faccia: intorno alla pista crescono i palazzi. Il resto della storia è scritto nelle visure camerali di Motorcity: i furbetti vanno a gambe all’aria e così l’autodromo passa in altre mani. Oggi a tenere le redini sono le cooperative. Ma della società fanno parte anche enti locali. Perfino la Regione Veneto. Amministrazioni che con una mano firmano gli atti societari e con l’altra le autorizzazioni a costruire. E il progetto va avanti, nonostante i dubbi. Lo stesso Giancarlo Galan, allora Governatore, disse: “Quel progetto non mi convince”. Ma intanto la Regione dà via libera. Nonostante le ombre delle valutazioni di impatto ambientale. Carte che forse gli abitanti di Vigasio e Trevenzuolo non conoscono. La società realizzatrice promette che a Motorcity arriveranno fino a 106.483 persone nei giorni feriali; nei giorni festivi si toccheranno 180.995 presenze. Molti visitatori, soldi, certo, ma anche inquinamento. E nel giugno 2008 l’Arpav mette nero su bianco le sue cautele: “La valutazione dell’impatto riguardo al Pm10 appare fortemente sottostimata. Dalle nostre stime l’aumento di traffico – anche realizzando sistemi di trasporto come la metropolitana – comporta un aumento delle emissioni di sei volte”. Parliamo di particolato, di polveri sottili, quegli inquinanti che se finiscono nei polmoni provocano tumori. Che minacciano soprattutto anziani e bambini. Il progetto, però, va avanti. A trainarlo è la promessa dei posti di lavoro. Motorcity, sono certi gli investitori, “darà occupazione a 15 mila persone”. Possibile. Difficile dire se il calcolo tenga conto dei posti di lavoro che si perderebbero nell’agricoltura, oppure a Monza, Imola o Gardaland. La popolazione di Vigasio è divisa. E anche la politica. Il centrodestra è favorevole (nella società siedono anche ex amministratori del Pdl), mentre il centrosinistra è contrario. Beppe Grillo e i suoi meet up si sono battuti contro la pista. Alle elezioni di Vigasio, a marzo, vince il Pdl (41,4%), viene riconfermato il sindaco Daniela Contri che non ha mai fatto mistero delle sue simpatie per Motorcity (che tra l’altro risanerà le casse pubbliche con gli oneri di urbanizzazione): “È una grossa opportunità per il Comune e i proprietari dei terreni. Oggi c’è una distesa di granoturco, di polenta… tiriamo via la polenta… l’agricoltura non ha grandi prospettive”. Maurizio Fontanili, presidente della Provincia di Mantova (Pd), contro Motorcity invece sta combattendo da anni: “Siamo una delle zone più fertili d’Italia, qui si alleva il 17 per cento dei suini, si produce il 23 per cento di Grana Padano. Vi rendete conto dell’impatto che avrebbero sulla nostra terra centomila persone al giorno?”. Mantova, però, è in Lombardia. A pochi passi da Motorcity, ma oltre la linea invisibile che divide le regioni. Insomma, rischia di dover subire le decisioni prese a Venezia. Ora tutto è appeso a un ricorso al Tar presentato da Mantova. Alla linea che prenderà Zaia. Cesare Nicolis intanto si guarda intorno, guarda il paesaggio o forse immagina il panorama futuro, con i campanili della campagna veneta affiancati dalle torri dell’autodromo. (8 maggio 2010)
La Grecia e l’Italia, l’esercizio della memoria, un ometto suscettibile e rancoroso. La sintesi della personale rassegna stampa è racchiusa in questi confini. Barbara Spinelli, su “La Stampa” confeziona un commento con i fiocchi, analizzando l’attuale situazione greca al di fuori della stereotipizzata iconografia che accompagna le riflessioni sulla tragedia economica e sociale che non caratterizza solo la penisola ellenica, ma anche le peripatetiche sorti italiche. Due i link all’interno del suo articolo. Se trovare il primo collegamento è stato semplice, non altrettanto per il secondo che riguarda un’intervista d’annata (siamo nel 1998) al giudice Gherardo Colombo. Presente certamente in cartaceo nel personale archivio (ma dovrei scartabellare parecchio), ho invece faticato non poco per trovare la fonte originale, vale a dire il pezzo pubblicato sul “Corriere della Sera”. Ci sono siti che la citano, altri che la riportano integralmente, ma poiché mi fido solo di me stesso e sono un po’ sospettoso su eventuali rimaneggiamenti altrui, sono andato ad abbeverarmi alla fonte, vale a dire all’archivio del quotidiano milanese. Se condivido articoli devono essere conformi all’originale o rimandare ad esso. Nella circostanza ho anche deciso di pubblicare integralmente l’intervista di Giuseppe D’Avanzo. Le parole di Colombo, magistrato di punta di Mani Pulite, che già all’epoca suscitarono il tradizionale vespaio di polemiche, risuonano attualissime anche dodici anni dopo. Il vizio della memoria, insomma, va coltivato più che mai. Meglio essere recidivi. Oppure fare ammenda del passato, come dimostra l’ex Presidente della Repubblica Ciampi nell’intervista a “La Stampa”, quando riconosce il grave errore commesso allargando l’area euro. Ma è il mercato, bellezza, sono le delocalizzazioni e l’incremento spropositato dei profitti dei ricchi o dei ladri fiscali (chè non c’è differenza). E poi il video di Ascanio Celestini, moderno menestrello che con il suo fantastico apologo ha provocato l’ennesimo rigurgito censorio al papi, proprio mentre è impegnato con Veronica sul milione più milione meno da concedere. Quando si dice: “piove sul bagnato”. Buona lettura e serena incazzatura.
Atene e Roma società del ricatto BARBARA SPINELLI
Ci vorranno non mesi ma anni, perché la Grecia trovi la forza, in se stessa, di assumere il fardello molto pesante di sacrifici che il primo ministro George Papandreou ha presentato giovedì alle camere. Molti demoni dovrà combattere, molte tribolazioni le si accamperanno davanti man mano che si snoderà la via stretta del risanamento, e in cuor loro i greci l’hanno appreso, in queste settimane di prova: non sono tutti esterni, i demoni; non vengono tutti dal mercato o dalle agenzie di rating le minacce, i sospetti, gli assalti. I mali della Grecia sono in massima parte interni: sono parte della sua storia, dell’uso che è stato fatto di essa, delle memorie paralizzanti che l’impacchettano. Se la resistenza ad accettare la nuova austerità è così vasta, se il coraggio di Papandreou fatica a imporsi, è perché dietro di lui c’è un paese smagato, disunito, radicalmente sfiduciato. È una sfiducia che ha radici antiche e che risale all’impero ottomano, ma che non ha vissuto una catarsi nel dopoguerra. Lo Stato non ha tratto vigore dalla resistenza al nazifascismo, supinamente ha accettato per decenni di essere una guarnigione della Nato, ha consentito alla dilatazione di un potere militare abnorme: un potere che gli Stati Uniti hanno sfruttato a piacimento, nella guerra fredda. Fin dal dopoguerra Washington ha appoggiato costantemente le destre, non esitando a distruggere le energie della Resistenza e ad appoggiare la dittatura dei colonnelli fra il ’67 e il ’74. L’ingresso greco in Europa e nell’Euro non ha coinciso con uno Stato redento, e oggi i frutti avvelenati di quell’occasione mancata si toccano con mano. Nel giorno del grande esame lo Stato in bancarottanon c’è quella che Leopardi chiama una società stretta, addomesticatrice di egoismi e interessi particolari. Sono scettici e disillusi soprattutto i giovani, che hanno visto degradarsi ai vertici il senso dello Stato, dilagare una corruzione senza limiti, estendersi l’impunità di politici e partiti complici nella difesa dello status quo. I manifestanti ateniesi domandano questo, in sostanza: come fidarsi di uno Stato che non si è limitato a truccare bilanci ma ha tragicamente fallito la propria rigenerazione? Il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papachelas, afferma che per uscire dal marasma servono misure non solo economiche, ma politiche, civili. Quel che urge recuperare non è l’identità offesa della Nazione, come reclamano alcuni, ma la dirittura e l’equità dello Stato: «La sola vera cura è un emendamento costituzionale concordato fra i politici cheannulli l’immunità di cui godono ministri e parlamentari, la riduzione del numero dei parlamentari a 200, l’invio di farabutti ed evasori fiscali davanti alle corti o in carcere». Se la crisi vuol essere catarsi, devono emendarsi le scelte economiche ma anche le usanze della politica. Sullo stesso giornale, Nikos Xydakis chiede una «rinascita antropologica». È il motivo per cui sono tante le somiglianze tra Grecia e Italia, e degne di esser studiate. Negli ultimi giorni si è parlato di un rischio Italia, oltre che spagnolo e portoghese: in genere a torto, per quanto riguarda la nostra economia, il risparmio delle famiglie, la salute delle banche, il deficit dello Stato. Finanziariamente, Roma non vacilla come Atene. È vero anche che la Resistenza non è stata svilita e soppressa con l’aiuto delle forze alleate, come nella guerra civile greca. Nella nostra storia antica e recente abbiamo potuto contare su uomini e istituzioni profondamente fedeli alla res publica, e non siamo stati tormentati, come in Grecia, da una casta militare potenzialmente sovversiva. Ma se si guarda alla fiducia che i cittadini hanno nell’imperio della legge e nella cosa pubblica, le affinità sono impressionanti. Esiste anche in Italia una fondamentale diffidenza verso lo Stato, la legge. Alcune regioni a Sud sono dominate da mafie che di tale miscredenza si nutrono da un secolo. Esiste a Nord e a Milano un disprezzo delle istituzioni pubbliche, del civismo, della legalità, non meno annoso e intenso. Anche qui lo sforzo di rinascere tarda a mobilitarsi. Tarda a nascere una destra autentica, che con Fini fabbrichi futuro e riempia il temibile vuoto. Tarda a sinistra un rapporto non intimidito con il conflitto. Anche l’anniversario dell’unità d’Italia, lo prepariamo dolendoci più della scarsa identità comune che dell’incultura dello Stato. Si può certo vivacchiare senza cultura dello Stato, della legalità: sia i greci che gli italiani lo fanno da decenni. Ma quando arriva l’ora della prova, l’assenza di fiducia rischia di divenire un fatale cappio al collo per chi impone sacrifici. La gente semplicemente non segue, si sparpaglia, si scinde in mille corporazioni ingovernabili. Per aderire a sacrifici, la società deve pur sempre riconoscersi nello Stato risanatore: nella sua affidabilità, nella sua vocazione a mantenere la parola data, nella rettitudine dei suoi servitori. È la ragione per cui Daniel Cohn-Bendit, intervistato giovedì da la Repubblica, invita a riflettere sulla società e lo Stato ellenico, oltre che sull’economia: «Uno Stato in cui in Grecia non s’identifica nessuno o quasi nessuno. È sempre stato lo Stato degli altri, lo Stato dei ricchi e dei potenti, ognuno lo ha strumentalizzato per sé. È sempre apparso lo Stato dei corrotti, e la gente ha partecipato alla corruzione. Adesso bisogna cambiare tutto questo, ma ci vuole tempo». Il deputato europeo ammira Papandreou, e critica chi confonde i manifestanti ateniesi con i pochi estremisti che il 5 maggio hanno provocato la morte di tre impiegati della Marfin Egnatia Bank. Il lettore, ascoltando queste parole, avrà legittimamente l’impressione di sentir narrata anche l’Italia: la nascita di uno Stato contaminato dalla corruzione fin dall’inizio della Repubblica, il peso esercitato da potentati esterni interessati all’esistenza di uno Stato parallelo e incontrollato, i patti stretti dalla politica con l’illegalità e la malavita, la magra incidenza che ha avuto Mani Pulite nell’ultimo ventennio, l’impunità dei politici, la magistratura sabotata. Non diversamente dalla Grecia, l’Italia è decaduta fra il dopoguerra e oggi perché piano piano si è creato, fra i partiti, un pericoloso consenso in difesa dello status quo: status quo fondato sulla svalutazione dello Stato, della legalità. Viene in mente, più che attuale, l’allarme lanciato il 22 febbraio ‘98 dal giudice Gherardo Colombo, in un’intervista a Giuseppe D’Avanzo sul Corriere: il male, disse, era in Italia la diffusa società del ricatto, non affermatasi di recente ma fin da quando gli americani, pur di esser facilitati nello sbarco in Sicilia, chiesero aiuto alla mafia. È in quegli anni che «si è stabilito un rapporto di "quieto vivere" con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. (...) Il compromesso in Italia è stato sempre opaco e occulto. (...) Negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti». La democrazia degenera così, secondo l’ex magistrato di Mani Pulite: non a causa di una conflittualità troppo accesa e dai toni troppo alti, che sono anzi il suo sale. Le «nuove regole della Repubblica vanno organizzate non attorno al conflitto, ma attorno al compromesso». È quest’ultimo che va imbrigliato, assai più del conflitto.È straordinario come la crisi metta in luce proprio questa verità, apparentemente paradossale: se usciremo dalla crisi rinnovati, se sapremo radunare le forze in caso di tracolli, è perché avremo smosso gli opachi patti dello status quo. Non se difenderemo una democrazia fondata sulla discussione, la critica, il disvelarsi del nascosto e del sommerso. La crisi ha questo, di catartico. Porta alla luce difetti di fondo, politici e culturali più che finanziari. Suona il campanello: la ricreazione è finita. Dà nuovo senso ai tentativi di rigenerazione, anche quelli insabbiati e morti. La strada stretta consiste nel riconoscerlo. (9 maggio 2010)
L' INTERVISTA / Il pm del Pool: " La strada dell' Italia verso la " normalità " ? Per ora vedo farsi avanti solo il vecchio "
" Le riforme ispirate dalla società del ricatto "
L'INTERVISTA/ Il pm del Pool: "La strada dell'Italia verso la "normalità"? Per ora vedo farsi avanti solo il vecchio" "Le riforme ispirate dalla società del ricatto" Gherardo Colombo: vogliono ridimensionare la magistratura per proseguire nei patti occulti "Le tendenze della bozza Boato sono sulla strada del ritorno al passato" "Non lanciamo messaggi: il nostro riferimento è la legge" "L'amnistia equivale a oblio: gli accordi sottobanco trovano forza nelle cose non scoperte"
MILANO - C'è in Italia una "società del ricatto" frutto degli opachi compromessi degli ultimi venti anni della Repubblica. Una "società" ben viva, ben vegeta, assai vivace. Per nulla convinta di dover cedere il passo. Al contrario, obbligata - per garantirsi il futuro - a riprendere in mano il "gioco" della politica. Il pubblico ministero Gherardo Colombo non parla con impeto. Sceglie le parole, lentissimamente, una dopo l'altra, torturandosi i capelli pazzamente scarruffati. Il suo ragionamento non è rassicurante: la Bicamerale è figlia di quella "società del ricatto", come la chiama. Il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione è la sola strada a disposizione di quella "società" per occultare il passato. La conclusione del magistrato inquieta: "La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto". Gherardo Colombo occupa una stanza appartata nel lungo corridoio della Procura di Milano, lontano dall'elegante ufficio di Francesco Saverio Borrelli. Ogni angolo, nella sua stanza, e' intasato da faldoni giudiziari. Il pubblico ministero ha lo scrittoio assediato dalle "carte". Vi emerge a fatica soltanto il video del computer. La Bicamerale... "Se vuole parlare di Bicamerale bisogna fare un premessa...". Facciamo la premessa... "Le mie considerazioni non vogliono (come è ovvio) e non potrebbero (come è giusto) condizionare il lavoro del Parlamento nella riscrittura della seconda parte della Costituzione. Le mie sono soltanto osservazioni di carattere generale sul tema della giustizia e dei modi di amministrarla". Premessa fatta. Cominciamo. I lavori "costituenti" del Parlamento sono lo sforzo di ridefinire, con il rapporto tra i diritti dei cittadini e i poteri dello Stato, un orizzonte di pacificazione nazionale indicando valori e modi da tutti condivisi. È il percorso che, per dirla con una fortunata espressione di D'Alema, dovrebbe guidare l'Italia verso la "normalità". Domanda: lei condivide le ragioni di questo tentativo? "Io credo che sia giusto preparare e costruire la "normalità". Pur tuttavia non bisogna dimenticare la storia recente e passata. La ricerca della pacificazione non deve ignorare l'esistenza del conflitto". Lei ritiene necessario il conflitto? "Ritengo necessario che si consideri il conflitto. Le spiego il perché. Io credo che una società moderna e complessa debba vivere cercando l'armonia, ma tenendo conto dell'esistenza di contrapposizioni e rendendole evidenti. La trasparenza del conflitto è il presupposto essenziale per il suo superamento. Conflitti tra opposti mondi di valori, di interessi e opposti modi di organizzare la società, lo Stato, la rappresentanza. Al contrario, nella "normalità" che ci viene agitata sotto gli occhi, io vedo farsi avanti non il nuovo, ma il vecchio. Meglio, l'antico. Non il conflitto trasparente, ma il compromesso opaco". Perché il compromesso, a suo avviso, è necessariamente opaco? La "politica non è il luogo delle cose desiderabili, ma di quelle fattibili" diceva Aldo Moro. La politica è, per definizione, l'arte del possibile e, quindi, del compromesso. "Il compromesso in Italia è stato sempre opaco e occulto. Le dico di più, negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L'Italia la si può raccontare a partire da una parola...". Una parola sola? Quale? "Ricatto". Ricatto? "Mi spiego con qualche esempio. Dallo sbarco degli alleati in Sicilia, e dalla scelta di coinvolgere la mafia per facilitarlo, si è stabilito un rapporto di "quieto vivere" con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. È stato un accordo necessariamente occulto. E ancora più occulto e opaco è stato necessariamente il suo perpetuarsi. Cosa ha potuto produrre se non il ricatto? Il ricatto dei poteri criminali sulla politica. Un altro esempio di quel modo di governare il Paese con il compromesso, e poi con il ricatto, è il "caso Cirillo". Ricorda? Una parte della Dc si accorda con la camorra di Raffaele Cutolo per la liberazione dell'assessore Ciro Cirillo concedendo, in cambio, l'accesso della criminalità alle risorse pubbliche della ricostruzione post - sismica. E potrei continuare: i fondi neri dell'Iri; la P2...". Ma lei parla di un passato ormai remoto. "Lei dice?". Lei dice di no? "Io dico di no. Situazioni attuali, sintomo della stessa logica, se ne potrebbero trovare a decine. Io dico che nel metabolismo politico - sociale del Paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso. E un passaggio chiave di questa necessità della società politica è appunto la Bicamerale". Lei mi sta dicendo, se non capisco male, che la Bicamerale è la strada obbligata per chi, partecipe degli illeciti di ieri, oggi è obbligato a scegliere l'accordo perché non può permettersi un conflitto che, con quel passato, sarebbe troppo rischioso? "È detto in modo un po' brutale, ma è quel che penso. Ecco perché, a mio avviso, la Bicamerale deve anche affrontare la questione della giustizia. È evidente, infatti, che oggi molti appartenenti al potere giudiziario non rispondono alle regole del compromesso, e se le regole non valgono per tutti è come se non esistessero". Dell'oggi parliamo subito dopo, ma anche nel più recente passato, perbacco, la magistratura non mi è sembrata estranea a quel sistema che lei chiama "del ricatto". Anzi credo che la magistratura sia stata uno degli snodi di quella strategia. "Ieri anche la magistratura, salve eccezioni rese inoffensive, ha fatto parte di quella società del ricatto che è stata (e purtroppo è ancora) l'Italia. Le inchieste erano aperte o rapidamente finivano nel nulla per sostenere il ricatto della politica. Ricorda cosa accadde a Sarcinelli, capo della vigilanza della Banca d'Italia, arrestato quando si opponeva al salvataggio di Michele Sindona? E ricorda come morì Giorgio Ambrosoli?". E oggi? A suo avviso, oggi la magistratura è estranea alla "società del ricatto", per usare la sua espressione? "Oggi la magistratura è meno inserita in quella società. Magari fa degli errori. Magari scivola in qualche sconfinamento. Magari c'è chi è ancora omologo a quel sistema. Per questo, credo, quella "società" minaccia la sua indipendenza. Il problema è tutto lì. La magistratura è una variabile non coerente con il sistema consociativo. Per questo infastidisce, preoccupa, inquieta. Potere diffuso per antonomasia, può rompere in qualsiasi punto e imprevedibilmente il patto del silenzio, della complicità consociativa che il ricatto consiglia. Ecco la necessità di ridimensionare l'indipendenza del magistrato. Una magistratura meno indipendente, o addirittura dipendente, non riuscirebbe più a svolgere il controllo di legalità che le e' proprio". Le chiedo, ancora una volta in modo un po' brutale: lei crede che la bozza Boato che sarà discussa dal Parlamento abbia quest'obiettivo? "Questo non lo so, ma con franchezza posso dirle che il sistema di controllo dell'azione giudiziaria, ieri, passava attraverso le scelte dei capi dell'ufficio. La magistratura si è liberata da questo cappio e Mani Pulite è stata possibile". E domani? "Per domani le tendenze sono evidenti. L'aumento dei membri del Consiglio superiore nominati dal Parlamento, l'istituzione di un procuratore disciplinare (e cioè di controllo di ogni singolo magistrato) eletto dal Senato sono sulla strada di un ritorno al passato. Ovvero a un limitato esercizio di verifica dell'applicazione delle leggi. Diventerebbe problematica la possibilità di svelare le cause del ricatto. La strada da percorrere, a mio avviso, è un'altra: svelare tutti gli illeciti, indicare tutte le responsabilità. Solo così la nuova Costituzione non avrà come fondamento il ricatto. Solo così la società italiana potrà crescere tra trasparenti conflitti e non accompagnata da occulti accordi". Lei parla di "ricatto", eppure avevamo ricavato l'impressione che Mani Pulite avesse disarticolato il sistema della corruzione... "Disarticolato? Vuole scherzare? Noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta. Se avessimo disarticolato qualcosa, dinanzi alle difficoltà di vedere evase le nostre rogatorie internazionali, il ministro di Grazia e Giustizia si sarebbe mosso, avrebbe investito il suo collega degli Affari esteri. Il ministro degli Esteri avrebbe sollecitato i governi stranieri. E invece...". E invece? "È storia d'oggi. Dopo un anno di impasse, è la sortita del procuratore confederale Carla Del Ponte a smuovere qualcosa o almeno la promessa di qualcosa. No, ahimè, abbiamo toccato soltanto la superficie. Chi non è stato toccato dall'azione della magistratura e ha scheletri nell'armadio si sente non protetto, debole perché ricattabile. La società del ricatto trova la sua forza, appunto, su ciò che non e' stato scoperto". C'e' chi accusa: Mani Pulite ha colpito soltanto una parte del sistema politico (Dc, Psi) non testando colpevolmente - per interesse, convenienza, appartenenza politica o culturale - le responsabilità di altri (Pci - Pds). C'è chi dirà: Colombo e, con Colombo il pool, invia un messaggio a D'Alema: "Attento, se passa la riforma verremo a cercare gli scheletri nel tuo armadio e sappiamo che ci sono". "Un discorso di questo genere si basa su una serie di premesse false. Per lo meno tre. Primo, che noi non abbiamo approfondito con la stessa attenzione tutte le responsabilità, da una parte e dall'altra. Secondo, che la Procura di Milano ha la possibilità di scegliere i temi e le persone da indagare indipendentemente dall'esistenza di una notizia di reato. Terzo, che non siamo indipendenti. Una volta si diceva da questa o quella forza politica. Oggi si dice dalla nostra voglia di potere, dai nostri interessi personali". Bene, è vero, le premesse di quell'accusa possono essere queste. Lei che risponde? "Che noi abbiamo approfondito tutte le responsabilità, da una parte e dall'altra, è dimostrabile anche documentalmente. Può muovere l'obiezione che le mie parole siano una minaccia solo chi pensa che noi abbiamo delle cose nel cassetto e le sviluppiamo o meno a seconda di quel che succede intorno. Via, la falsità delle premesse non consentirebbe di affrontare la critica e tuttavia qualche cosa voglio aggiungere". Aggiunga. "Il nostro riferimento esclusivo è la legge. Pensi quanti, quante volte, e con quali mezzi hanno tentato di dimostrare il contrario senza riuscirci. Le vicende e le soluzioni della Bicamerale, come di qualsiasi altra sede al di fuori di quella giudiziaria, non hanno la capacità di influire sul nostro lavoro. Voglio dire che tutto ciò è assolutamente indifferente rispetto all'amministrazione della giustizia". Non le pare che l'amnistia possa essere una soluzione all'esigenza di rimuovere le cause del ricatto? In fondo, se il ricatto si basa sul timore della punizione degli illeciti commessi in passato, che cosa ci potrebbe essere di meglio adesso che evitare la loro punibilità attraverso un generalizzato provvedimento di clemenza? "Non credo che la forza del ricatto stia nel timore di essere puniti, quanto nella paura di essere scoperti. Per quanto si sia perso il senso dell'onore, i rapporti tra l'opinione pubblica continuano a funzionare con riferimento più alla responsabilità che alla punibilità. E allora le cose non cambierebbero molto, soprattutto in un Paese come il nostro dove la pena, salvi gli emarginati, è applicata eccezionalmente. Per dire, la maggioranza dei reati di cui ci occupiamo cadrà in prescrizione. L'amnistia equivale a oblio: produce occultamento del conflitto e diventa generatrice del ricatto. Se vuole, ricominciamo da capo". No, per carità, fermiamoci qui. Può bastare, grazie. Giuseppe D’Avanzo (22 febbraio 1998)
INTERVISTA Ciampi: "Che errore allargare l'euro" Parla l'ex capo dello Stato di MARCELLO SORGI
Presidente Ciampi, ma uno come lei che l’euro l’ha fatto con le sue mani, da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio e da Presidente della Repubblica, si aspettava una crisi così forte e improvvisa della moneta comune? «Potrei risponderle di no, o almeno non di queste dimensioni. Ma se ripenso ai giorni in cui l’euro fu deciso, devo essere sincero: ci eravamo ripromessi, tutti quanti i rappresentanti dei Paesi dell’Unione Europea che avevano deciso di dar vita al sistema della moneta unica, di adoperarci per un più forte coordinamento delle politiche economiche dei governi. Avevamo la sensazione, chiarissima, che non sarebbe bastato il rispetto di ciascuno di noi per la disciplina che avevamo scelto, il famoso tre per cento del rapporto tra Pil e debito pubblico imposto da Maastricht. Occorreva anche continuare il lavoro comune per far sì che insieme con il comportamento virtuoso dei singoli, necessario per restare all’interno del sistema, si facesse strada una forma di collaborazione più intensa e continuativa, dalla quale l’Unione Europea nel suo complesso sarebbe uscita rafforzata». Fino ad approdare a quell’unione politica, e federale, agli Stati Uniti d’Europa, che in quell’epoca era lecito sognare e che invece nel tempo si sono rivelati un obiettivo molto più difficile da raggiungere? «L’auspicio era questo. Anche se a Bruxelles, quando l’euro fu varato, si parlava solo di moneta unica e di coordinamento delle politiche economiche. C’era un nesso evidente tra la decisione di entrare in un’epoca nuova, superando le difficoltà, e anche qualche diffidenza, che fino all’ultimo rischiavano di compromettere tutto, e l’impegno a fare in modo che il legame tra i diversi partners fondato sulla moneta unica si sviluppasse con comportamenti coerenti, dei quali tutti dovevano essere al contempo responsabili e garanti. È esattamente questo che è mancato o non è andato come si sperava. Ed è per questo che oggi ci troviamo a fronteggiare questa brutta crisi». C'è qualcuno più colpevole degli altri? In altre parole, condivide ciò che dice chi, come il suo successore al ministero del Tesoro Visco, sostiene che la Grecia, al tavolo delle trattative, raccontò qualche balla, e qualcuno se n’era pure accorto, ma si decise di passarci sopra lo stesso? «È vero che l’istruttoria fu molto severa per il primo gruppo di Paesi candidati, compresi noi italiani, che dovemmo fare una delle manovre più dure della storia dal Dopoguerra, per entrare nei requisiti richiesti dal sistema. E che invece al momento dell’allargamento ci fu meno severità: in questo senso, non solo la Grecia ma anche altri Paesi era chiaro che entravano firmando una serie di obblighi che dovevano rispettare e di tappe successive che nel tempo non hanno raggiunto. Proprio perché molti di noi dovettero affrontare sacrifici importanti, oggi dovremmo chiederci se sarebbe stato meglio non essere di manica larga. E se questa è la domanda, la risposta è senz’altro sì. Il rigore avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti». Sta dicendo che l’ampliamento del numero dei Paesi entrati nell’euro è stato un errore? «Credo di sì. Sarebbe stato un rischio calcolato se, come le dicevo prima, insieme con l’euro fosse andato avanti il rafforzamento della collaborazione e del coordinamento in fatto di politiche economiche. Cosa che purtroppo non è avvenuta con le conseguenze che vediamo». Presidente Ciampi, quanto pesa secondo lei il progressivo indebolimento della rete di rapporti tra i partners dell'Unione? Nei dodici anni di cui parliamo, dal ’98 ad oggi, è inutile nascondersi che l'Europa ha stentato: la Costituzione europea è nata male, è stata subito abbattuta dai referendum che dovevano ratificarla, e ha dovuto essere ridimensionata drasticamente. Il sentimento di coesione della Comunità, anche se è difficile misurarlo, sembra spesso travolto da egoismi e particolarità perfino sub-nazionali. «Se parliamo di politica, non c'è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro. È duro ammetterlo, e lo faccio con amarezza. Ma l'Europa come obiettivo non può restare solo un sogno degli europeisti». Quanto hanno giocato i rapporti personali tra uomini di governo, all'epoca eccellenti, e adesso, non sempre, e non solo per ciò che riguarda noi, meno buoni? «Posso dirle com’erano i rapporti ai miei tempi. Alla fine di un percorso difficile come quello che avevamo fatto, ad esempio, con Theo Waigel e Hans Tietmeyer, i nostri autorevoli interlocutori tedeschi, c’era anche amicizia, oltre che rispetto. Con quelli di oggi non so. Ma al dunque, anche i partners più dubbiosi dovranno rendersi conto di non aver alcuna convenienza a tornare indietro». Questo vale anche per l’euro? «Certamente. Ed è la ragione per cui, malgrado tutto, sono ottimista». Lei non crede che, batti e ribatti, oggi la Grecia, domani la Spagna e il Portogallo e dopodomani, Dio non voglia, l’Italia, la speculazione possa averla vinta? «Non lo credo. La speculazione è un fatto che bisogna sempre aver presente. È come una scommessa: chi la fa, certo, spera di vincere, ma intanto guadagna già solo giocandola. Il sistema ha tutti gli strumenti per combattere la speculazione: tanto per cominciare, penso alla Bce. Ma anche i governi, guardi quel che sta accadendo, è come se tutto quel che è mancato finora, d’improvviso fosse diventato evidente. Anche i meno convinti, sanno che l’ingresso nell’euro ha significato per tutti un punto di non ritorno. Siamo come su un aereo che è appena decollato: l’unica cosa da non fare è cercare di riprendere terra. E se possibile, dobbiamo cercare di volare più alto». (9 maggio 2010)
ASCANIO CELESTINI: “I POLITICI VIVONO IN UNA REALTÀ PARALLELA, PIENA DI PRIVILEGI”. Il “cantastorie” finito nel mirino per il suo monologo sul premier di Malcom Pagani “La mia finalità non è far ridere. Non lo è mai stata. Non sono un comico, narro storie. Sul piccolo Paese e sul partito dei mafiosi mi ero già speso. Chi mi attacca è disattento, pensi che in 4 o 5 racconti sul tema, il piccolo presidente muore anche. È abbastanza semplice pensare all'Italia o a Berlusconi, ma in realtà io non immagino quei personaggi. Non li nomino mai. A me interessa parlare del potere in sé. Che poi Berlusconi e Fini recitino una parte, che l'opposizione sia quasi completamente assente e molte ambiti della Nazione conoscano la deriva, fa parte dei meccanismi del dominio”. Nonno carrettiere, nonna contadina. Padre restauratore, madre parrucchiera. Da sempre, Ascanio Celestini naviga felicemente dalla parte di un umile torto. L’aggressione al monologo inscenato da Serena Dandini, lo lascia indifferente. È sabato. Festa in famiglia. Moglie, figlia, normalità. Celestini, l'apologo morale su Tony corrotto e Tony mafioso, ha fatto arrabbiare Berlusconi. Bersani, Fini, d'Alema, Berlusconi... “Figure che non mi interessano. Fanno parte tutti di uno stesso copione. Zavattini consigliava agli sceneggiatori di prendere l'autobus per raccontare una storia, se stai nell'auto blu è chiaro che la tua unica preoccupazione sia aumentare lo stipendio di chi ti è vicino”. Sembravano furibondi... “Io credo che loro si stupiscano sinceramente quando qualcuno mette in discussione i loro privilegi perché non li considerano più neanche tali.Bisognerebbe rovesciare la loro vita completamente, con questo non sostengo che D'Alema non debba più andare in barca, ma forse un tram ogni tanto lo dovrebbe prendere”. La politica si indigna perché è lontana dalla realtà? “Prenda il caso Atesia, nonostante fosse un laboratorio di precarietà a cielo aperto e il più grande call center italiano, ha conosciuto solo indifferenza. Nessuno ha voluto metterci le mani. Non la politica, né i sindacati. Si sono affacciati soltanto quelli di base, persone normali considerate folli. Atesia è sulla Tuscolana. Scajola abita al Colosseo. Cosa vuole che gli freghi del destino di quelle persone?”. Lei ha un’estrazione popolare... “Ma non è necessario avere natali umili per calarsi nella realtà. Prenda la Resistenza. Molto ho imparato dalla lotta partigiana. Dall'incontro con persone di buona famiglia come Carla Capponi o Mario Fiorentini che abitavano a Roma, in pieno centro. Fiorentini, che parlava francese con la sua compagna che era alsaziana, a un certo si trovò armato nella periferia di Roma a Centocelle o al Mandrione”. Uno choc... “Scoprirono all'improvviso l'esistenza del popolo. I nostri politici a un incontro che disveli un ambito diverso, non pensano proprio. Quelli più informati conoscono i dati, qualcuno di sinistra in periferia è andato a raccogliere i voti. Ma in verità non sanno nulla. Hanno mai fatto i precari da Ikea? Hanno mai sudato da McDonald’s?”. Perché McDonald’s? “Una mia amica che ci lavorava mi spiegava: 'Io devo fare sorrisi differenti a persone diverse. Bambini, anziani, immigrati. Me lo chiede il mio direttore’. Capisce come siamo messi?”. Balliamo sul Titanic? “Il vero rischio è che non ti ascolti nessuno. Puoi dire quello che vuoi, tanto domani si parla di altro. Si discute solo di ciò che è in agenda. Ma chi la gestisce, inevitabilmente decide tutto. Dei favori fatti a Scajola o delle inclinazioni personali di Marrazzo, mi importa zero. Io voglio sapere come procede la questione del nucleare. I problemi del Lazio sono la discarica di Malagrotta, l'aeroporto di Ciampino, chiuso nel '60 perché non reggeva un milione di presenze e poi riaperto, fino ai sette milioni di oggi. Non sono troppe? Ad Albano costruiscono un inceneritore e non hanno l'acqua potabile”. E i mezzi di comunicazione? “Di alcuni politici si dice che sono comunicatori. No, sono solo ruffiani. Comunicare quando uno parla e l'altra ascolta per decenni non è comunicazione. Neanche dittatura che sarebbe una banalità, ma quando per 40 anni ascolti e basta, dire la tua non è più un'opzione percorribile”. Se li tratta così, ne rade al suolo la vanità... “È sproporzionata ma è per questo che diventano interessanti. Si avvicinano ai prototipi del Re Sole. Di loro, paradossalmente abbiamo anche bisogno. Senza Re Sole non avremmo avuto la rivoluzione francese, né parlato di eguaglianza, libertà o fratellanza. Li dobbiamo pure ringraziare. Però quando vivi l'arroganza del potere nel tuo paese in modo così smaccato, fa impressione.Si tranquillizzino. In fondo, facciamo solo letteratura”. Per appianare i conflitti, si parla di anniversari. L’Unità d’Italia, ad esempio... “A Berlusconi è scappata la mano. Ha voluto elogiare i 150 anni della Repubblica. Sono gaffes inoffensive che però illuminano sulla reale conoscenza della storia. L'Italia è un paese molto particolare. Abbiamo avuto 150 anni di lotta armata, ma oggi ci presentano un quadretto comico: Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele e Garibaldi. Quattro persone che non sono mai state sedute insieme a un tavolo. Mazzini è morto da terrorista e in clandestinità. Una rivoluzione? Ma figurarsi, per quella ci vuole consapevolezza. Noi al massimo possiamo fare la guerra civile”. Il berlusconismo è un ventennio in minore? “Enzensberger diceva che ai tempi della Seconda guerra mondiale non credeva di vivere in quell’epoca. Non dobbiamo cambiare Berlusconi, ma il nostro modo di fare le cose. Tra 30 o tra 300 anni, forse diranno che il decennio che stiamo vivendo in fondo ce lo siamo cercati. Non credo che il paese sia stato sequestrato da qualcuno, ma abbandonato da qualcun altro”. Cosa ci ha fregati? “Il benessere. Acqua calda, frigoriferi, frullatori. Prenda la tv. È fascista per definizione. Mi fanno ridere quelli che dicono: ‘ho buttato la televisione’ senza capire che hanno gettato solo un oggetto. Per risalire dovremmo fare una seria analisi del nostro nazismo quotidiano. Abbiamo fatto finta che i treni per Auschwitz non passassero più, ma invece quelli camminano tutti i giorni. Passano nelle scarpe fatte da un bambino a un euro in India, attraverso il cibo che mangiamo. Ci hanno messo la lavatrice, spostato le tante Auschwitz contemporanee dall'altra parte del mondo e alla fine, stringendo, ci hanno bloccato. Chi è che vuole fare la rivoluzione se ha la possibilità di farsi una doccia?”. (9 Maggio 2010)
Mi riaffaccio con molta discrezione e viro sull’attualità. L’altra attualità, quella che mi riguarda, è tutt’altro che esaurita e suscita perplessità, oltre che amarezza ed inquietudine. Faccio finta di andare avanti, ma sono il primo a sapere che non è vero. Forse occorrerebbe diventare sul serio quello che non si è. Forse, se mi applicassi un po’, potrei conseguire qualche magro risultato, effimero e dunque inconcludente. Ci penserò. In fondo domani è un altro giorno e le cose attorno stanno cambiando a velocità impensabili. Il papi è sempre protagonista, i servi che lo circondano sembrano aumentare e solo con una centrale nucleare ad Arcore e il Vaticano in Groenlandia, che non c’entra molto, ma risulta indigesto come il papi, potremo liberarcene. Giovanni Valentini, su “la Repubblica” di sabato scorso, ha scritto un pezzo interessante su come venga considerata la tv di Stato dal tesserato P2 (n° 1816). Lo condivido.
Se la Rai diventa una potenza atomica Giovanni Valentini
Mentre il presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Sergio Zavoli dichiara che «la credibilità della Rai è crollata, perché non si rispettano autonomia e qualità», il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi le infligge il colpo mortale annunciando una campagna pubblicitaria a favore dell´energia nucleare sulla tv di Stato a colpi di spot. Reduce dall´incontro con il suo amico Putin, ultimo esemplare di comunista autentico in circolazione, il nostro premier non esita così a dissipare l´autonomia residua della televisione pubblica, certificandone la subalternità strumentale alla politica del governo nell´indifferenza o addirittura con l´acquiescenza dei dirigenti di viale Mazzini. Quello di Berlusconi è un ragionamento inquietante nella sua banale semplicità: il progetto del ministro Scajola - già, proprio quello degli 80 assegni "neri" per un valore di 900 mila euro utilizzati per pagare più della metà di una casa al Colosseo per la figlia - prevede di iniziare i lavori della prima centrale nucleare in Italia entro tre anni. Ma, avverte lo stesso presidente del Consiglio, «prima di individuare il luogo in cui realizzare una centrale nucleare, bisogna che cambi l´opinione pubblica italiana». Da qui, la fulminante idea degli spot sulle reti della Rai per «fare una vasta opera di convincimento». L´energia, dunque, come un fustino da lavatrice o una confezione di pannolini. Paghi uno e prendi due. Magari con i punti fedeltà, i bollini premio o lo sconto convenienza. Una campagna pubblicitaria, più che di informazione e persuasione, che fa torto innanzitutto alla vera pubblicità, onesta, trasparente, corretta e veritiera. Come quelle per le creme miracolose che promettono di far crescere i capelli, i muscoli o il pene. C´è tutta la cultura politica - si fa per dire - di Berlusconi in questo annuncio. Il presidente del Consiglio non chiede al servizio pubblico di dedicare alla questione energetica i talk show televisivi, i programmi di approfondimento, trasmissioni d´inchiesta o eventualmente di confronto e di dibattito. No, pretende d´imporre la logica della propaganda governativa, come ai tempi infausti del Minculpop, il Ministero della cultura popolare di marca fascista. Un lavaggio del cervello, insomma, a livello di massa. La televisione pubblica come megafono del potere. La tv di Stato come tv di regime. La Rai come succursale o dépendance di Palazzo Chigi. Si dirà, magari, che così è sempre stato. Ma francamente la degenerazione del servizio pubblico non era mai arrivata fino a questo punto di totale subalternità e asservimento alla politica. Tanto più che - ricordiamolo sempre - il capo del governo è anche il principale concorrente della Rai, il suo competitor diretto sul mercato degli ascolti e della pubblicità. E quindi, il maggior beneficiario della crisi che attanaglia l´azienda di viale Mazzini. Il governo di un Paese civile e democratico non può, tuttavia, affrontare legittimamente una scelta fondamentale come quella energetica a colpi di spot, di slogan, di effetti speciali. Se fosse vero - come dice Berlusconi - che oggi il 54% degli italiani considera necessario il ritorno all´energia atomica, che cosa ne facciamo del restante 46%? Li esentiamo dal canone d´abbonamento alla Rai? Oppure, li dirottiamo tutti sulle reti Mediaset? La questione in realtà è troppo seria e importante per essere risolta con una campagna pubblicitaria. Qui non si tratta di vendere un prodotto commerciale o di "piazzare" una merce. Si tratta piuttosto di discutere apertamente, dati e cifre alla mano, per confrontare pareri e opinioni diverse attraverso il contraddittorio più ampio. La decisione evidentemente non può essere rimessa al ministro Scajola, già troppo occupato a maneggiare assegni di provenienza quantomeno sospetta. Nel 1987 fu un referendum abrogativo a respingere a larga maggioranza la scelta nucleare. Giusto o sbagliato che fosse quel responso, al momento rappresenta tuttora la volontà popolare. E per ribaltarla, occorre semmai una consultazione pubblica libera dalle suggestioni e dagli imbonimenti propagandistici del regime televisivo. Ammesso che i lavori per la costruzione della prima centrale inizino davvero entro tre anni, ce ne vorranno almeno altri dieci per realizzarla. Nel frattempo, rischieremo di perdere la "chance" delle fonti rinnovabili, aggravando ulteriormente la nostra dipendenza energetica che vale per il petrolio, per il gas o per il carbone come pure per l´uranio. E intanto la Rai continuerà ad andare alla deriva, o naufragherà definitivamente, tra i diktat, gli spot e gli slogan governativi. (1 maggio 2010)