martedì 13 novembre 2007

In morte di gente perbene


"La mia partita migliore è stata la finale del '58 contro il Brasile"; "Ma signor Liedholm, avete perso 5 a 2!";"Sì, ma io sono uscito sull'1 a 0 per noi".


Quando decise di venire a giocare in Italia, la leggenda vuole che disse al padre «Tranquillo papà, un anno, massimo due e poi torno». Era il 1949 e Nils Liedholm, allora 25enne calciatore svedese, fresco vincitore con la sua nazionale dei Giochi olimpici di Londra del 1948, ignorava che nel nostro paese ci sarebbe rimasto quasi sessant’anni, fino alla sua morte avvenuta otto giorni fa a Cuccaro Monferrato dove era proprietario di un’affermata azienda vinicola. In Italia, nelle fila del Milan, giocò fino al 1961 dando vita, con Gren e Nordhal, al mitico Gre-No-Li un trio meraviglioso che permise ai rossoneri di vincere 4 scudetti e 2 Coppe Latine. Ritiratosi dall’attività agonistica allenò, oltre ad altre squadre, lo stesso Milan che condusse allo scudetto della “stella” (il decimo) e la Roma di un’annata indimenticabile, quella del 1982-83 con Conti, Falcao e Pruzzo che vinse il campionato. Per ragioni anagrafiche non l’ho visto direttamente all’opera, ma chi c’era racconta che, soprattutto con Schiaffino, esisteva un’intesa formidabile. Calcio d’epoca, calcio di altri tempi più che mai rimpianto adesso. La copertina del Tg La7 del 5 novembre, attribuita a Darwin Pastorin, è stata commovente e mi piace proporla qui.


Addio Nils Liedholm, che ti sia lieve la terra.


Addio maestro di calcio e di ironia, artista sublime di quando il pallone era la domenica della buona gente, anche per chi lo giocava.


Negli anni 50, che allegria quel Milan. Gre-no-li, musica di gol e spettacolo, di giocate maestose, Gren-Nordahl-Liedholm, per quattro scudetti rossoneri, per un football che era estetica e bellezza, sogno e fantasia.


Liedholm segnava, giocando a testa alta, guardando le nuvole e le stelle. Disse un giorno: ‘sbagliai un passaggio, non succedeva da due anni e tutto lo stadio fece un oohhh di meraviglia’.


Da allenatore portò il Milan a conquistare nel 1979 il decimo scudetto, quello della stella, nel 1983 la Roma a vincere il suo secondo titolo. Da Rivera a Falçao, da Tosetto ‘il Keegan della brianza’ al bomber Pruzzo, ma il vero campione era lui, sulla panchina: il ‘Barone’ dai gesti educati, dalle frasi sospese. Il suo modulo di gioco assomigliava alla sua vita: elegante e imprevedibile.


Il primo album delle figurine panini aveva Liedholm in copertina. Cominciava l'avventura e non poteva che esserci lui, il fuoriclasse venuto dal nord, ma dal cuore meridionale.


Addio Barone, e grazie. Grazie per la meraviglia, per il sorriso, per quel tempo che ora è memoria e rimpianto, nostalgia sottile.


 


Per una di quelle curiose coincidenze che regolano il destino in quello stesso 5 novembre si è registrato un altro lutto nel mondo dello sport: la scomparsa di un’altra persona del mai troppo rimpianto passato, un signore napoletano d’altri tempi che giocava non con i piedi, ma con una voce rassicurante che timbrò centinaia di domeniche di tante generazioni di appassionati di calcio. Roberto Bortoluzzi era un giornalista così discreto da essere solo e semplicemente una voce, rarissime le sue apparizioni in video. E altrettanto arduo trovare frammenti audio sul web. Da brivido riascoltare la mitica sigla e quell’incipit stampato indelebilmente nel cuore: “Gentili ascoltatori, buon giorno. Dallo studio centrale Roberto Bortoluzzi”. Così iniziava una trasmissione storica per la Rai, quel celeberrimo “Tutto il calcio minuto per minuto” che vantava altri principi del microfono come Enrico Ameri e Sandro Ciotti. La celebrazione delle radio a transistor come cordone ombelicale con gli stadi italiani, i rumori di fondo, una voce che interrompeva il radiocronista di turno per segnalare il gol e, devastante per me, quella domenica del 1973, il 20 maggio, quando la notizia che diede Enrico Ameri con consumata e apposita teatralità (non citò per prima la squadra che giocava in casa) mi raggelò: Milan 0 (pausa)-Verona 3. E lo scudetto, che sembrava una formalità, volò a Torino sulle maglie bianconere della Juventus.


 


Giorni tristissimi, questi di inizio novembre, perché il 6 ci ha lasciato un maestro di giornalismo: Enzo Biagi.


“Credo che la libertà sia uno dei beni che gli uomini dovrebbero apprezzare di più. La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà”. Mi sembra la frase che meglio condensi la sua vita, rovinata dall’editto bulgaro di un ometto, ultimo oltraggio non solo al giornalista, ma anche alla persona perbene che era Enzo Biagi. Eppure il programma “Annozero” della scorsa settimana, a lui dedicato, non mi è piaciuto molto, a parte l’emozione di ascoltare “Bella ciao”, cosa che capita rarissimamente, visto che ormai la Resistenza e la guerra partigiana sono state indegnamente additate al pubblico ludibrio (tra i più zelanti Giancarlo Pansa) e rimosse dalla memoria collettiva (di una parte). Perché sarebbe stato molto meglio esemplificare cos’era il giornalismo interpretato da Biagi. La trasmissione “Il Fatto”, il programma migliore dei primi 50 anni della Rai, come decretato dai telespettatori nel 2004, andò ininterrottamente in onda, nello spazio dove adesso galleggiano insulsi “pacchi” e altri residui organici, per sette anni: dal 1995 al 2002. Un totale di 884 puntate di cui poco più della metà (440) consultabili in archivio, come informa il sito http://www.ilfatto.rai.it/. Non ci voleva poi molto a rimandare in onda quelle più significative. Ognuna durava appena 5 minuti e quante avrebbero potuto trovare posto in “Anno zero”, al posto della cronica logorrea che si è spalmata su buona parte della serata.


In fondo, la differenza tra Enzo Biagi e gli altri la si può cogliere proprio nella capacità di realizzare ottimo giornalismo televisivo con tempi ridotti all’osso, senza effetti speciali e facendo, appunto, parlare i fatti. E le persone che avevano qualcosa da dire e non libri o serate o cd da promuovere, come i tempi cosiddetti “moderni” impongono, dove la marchetta è stata elevata a filosofia di vita e l’ignoranza assurta a valore assoluto e indiscutibile.


 

4 commenti:

  1. stefanomassanovembre 15, 2007

    Nils ...un gentiluomo...stef

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  2. stef, mio caro amico! Certo, condivido: uno degli ultimi gentiluomini rimasti in un ambiente che non è più in grado di ospitarne. Ciao!

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  3. Anch'io avrei voluto rivedere, ad Anno Zero, qualche pezzo de "Il Fatto". Peccato! Comunque è un bene che abbiano dedicato la trasmissione a Biagi.

    La caratteristica di Biagi era proprio quella di non elaborare lunghi discorsi, ma di arrivare al nucleo delle questioni. Era un uomo concreto.

    E aveva anche un altro pregio, a mio modesto avviso: non era un'invasato, un sottomesso a qualche catechismo di partito. Biagi era un uomo di sinistra, ma non aderiva acriticamente a catechismi o vangeli di partito, e perciò evitava di dire alcune sciocchezze di cui invece molti altri, sempre di sinistra, si riempiono la bocca.

    Che riposi in pace.

    Romina

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  4. AARGH! Ho commesso un errore gravissimo: volevo scrivere "un invasato", ovviamente SENZA apostrofo, ma a quest'ora, e dopo aver scritto tutto il giorno, sono cotta!

    Chiedo venia, mi vergogno di me stessa.

    Romina

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