martedì 20 novembre 2007

Una volta sono stato felice


Ho incontrato la seduzione on line e così sono andato a dormire alle 2. Il fascino mi ha avvinto alla sedia con robuste funi di seta, senza farmi male, ma con carezze che scaldavano il cuore e lo facevano palpitare. Perduto in una dimensione senza spazio e senza tempo, ho vagato nelle sterminate praterie del ricordo, a volte correndo, talaltre fermandomi a rifiatare e riflettere. Troppe emozioni, troppo densamente pesante la nube della nostalgia, da farmi oscillare e cadere sulle fragili gambe del rimpianto per il tempo passato, per “la favola bella che ieri m'illuse”, che oggi vorrei m’illudesse ancora.


Galeotta è stata una foto, una bella foto in bianco e nero, che ho trovato nel blog di gennaroromei (e che ho riprodotto all’inizio). Presumo raffiguri un derby di Milano degli anni ’60, illuminato dalla luce solare e non da quella ormai abituale (purtroppo) dei riflettori. Più arduo risalire al punteggio, non altrettanto rimanere folgorati di fronte a quell’immagine d’incomparabile bellezza. Perché a causa di quegli imperscrutabili percorsi, che la mente compie a ritroso, mi sono ritrovato a convergere dapprima verso un colore, il rosa, approdando di conseguenza ad una testata. Non quella più ovvia però.


Credo sia opportuno ricapitolare per quanti non hanno familiarità con le mie digressioni mentali.


Ci fu un tempo una pubblicazione settimanale che mi tenne subito compagnia non appena imparai a leggere e scrivere (grazie al maestro Alberto Manzi). Si chiamava “Il Corriere dei Piccoli”. Non potevo sapere che era una costola del primo quotidiano italiano, cioè il “Corriere della sera” che a sua volta generava un periodico illustrato: “La Domenica del Corriere”. Sul “mio” giornalino, in edicola mi sembra il giovedì, non mancava mai una pagina dedicata allo sport, una pagina rosa come il colore de “La Gazzetta dello Sport” e al centro della stessa una foto, in bianco e nero, suggestiva come quella incrociata sul web. E da lì è stato immediato il collegamento con la stordente nostalgia per quella pagina, per quelle pagine di una testata storica come fu “Il Corriere dei Piccoli”.


Durissimo contrastare il dispiacere, ancor oggi, per essermi dovuto disfare, moltissimi anni fa, di intere annate (prima metà degli anni ’60). Ma nell’epoca di Internet esistono modesti palliativi capaci di filtrare questo rammarico e così la ricerca mi ha portato a rivedere fogli di incredibile suggestione, da lasciare senza fiato per la sorpresa della scoperta, un po’ come da bambini si restava meravigliati per i regali trovati sotto l’albero la mattina del 25 dicembre.


È strano come i ricordi che si conservano risultino poi inevitabilmente deformati dal passare degli anni. I vari eserciti di soldatini che a me sembravano tantissimi, i ciclisti, i giochi da tavolo con il classico dado da costruire e poi loro: i calciatori. E quella doppia copertina che, nel giugno del 1964, volle celebrare in tal modo le due degne protagoniste della stagione agonistica, vale a dire Bologna e Inter, avversarie all’Olimpico di Roma dove si contesero lo scudetto nell’unico spareggio della storia dei campionati italiani (2 a 0 per i felsinei).


Quella doppia copertina, ricordo, oh come lo ricordo bene, costituì un preciso punto di partenza per un nuovo gioco. Cartoncino bristol bianco e le pagine del “Corrierino” incollate sopra. I disegni, assai verosimili, dei giocatori avevano alla base una linguetta con i loro nomi. Una volta ritagliati, quella linguetta veniva ripiegata e incollata su un cerchietto di cartone dipinto di verde: il colore del campo di gioco. Ecco così sfornati gli antesignani del “subbuteo”, pronti per essere schierati sul tavolo per confrontarsi in innumerevoli sfide. Ricordo, oh come lo ricordo, che quella prima volta li schierai tutti sul casalingo “prato”: 28 calciatori. In effetti mi sembravano tanti, ma cosa ne potevo sapere io, a quel tempo, che si giocava in undici per squadra? E poi era così bello non lasciar da parte nessuno…


Le partite sono proseguite nel mare calmo della fantasia fanciullesca, nelle acque ormai placide del ricordo. Ne ho viste sfilare di squadre, quelle che conservavo con amore nelle scatole delle scarpe. E mentre stavo per addormentarmi m’è parso che, per un attimo, quella foto in bianco e nero si animasse, che il boato della folla stesse prorompendo dall’immagine. Palpiti del cuore accompagnavano il ricordo e lo placavano al tempo stesso. Emozioni di una notte affascinante che mi aveva restituito, per poche ore, la favola che ogni infanzia felice può raccontare. E poi il buio.


 

martedì 13 novembre 2007

In morte di gente perbene


"La mia partita migliore è stata la finale del '58 contro il Brasile"; "Ma signor Liedholm, avete perso 5 a 2!";"Sì, ma io sono uscito sull'1 a 0 per noi".


Quando decise di venire a giocare in Italia, la leggenda vuole che disse al padre «Tranquillo papà, un anno, massimo due e poi torno». Era il 1949 e Nils Liedholm, allora 25enne calciatore svedese, fresco vincitore con la sua nazionale dei Giochi olimpici di Londra del 1948, ignorava che nel nostro paese ci sarebbe rimasto quasi sessant’anni, fino alla sua morte avvenuta otto giorni fa a Cuccaro Monferrato dove era proprietario di un’affermata azienda vinicola. In Italia, nelle fila del Milan, giocò fino al 1961 dando vita, con Gren e Nordhal, al mitico Gre-No-Li un trio meraviglioso che permise ai rossoneri di vincere 4 scudetti e 2 Coppe Latine. Ritiratosi dall’attività agonistica allenò, oltre ad altre squadre, lo stesso Milan che condusse allo scudetto della “stella” (il decimo) e la Roma di un’annata indimenticabile, quella del 1982-83 con Conti, Falcao e Pruzzo che vinse il campionato. Per ragioni anagrafiche non l’ho visto direttamente all’opera, ma chi c’era racconta che, soprattutto con Schiaffino, esisteva un’intesa formidabile. Calcio d’epoca, calcio di altri tempi più che mai rimpianto adesso. La copertina del Tg La7 del 5 novembre, attribuita a Darwin Pastorin, è stata commovente e mi piace proporla qui.


Addio Nils Liedholm, che ti sia lieve la terra.


Addio maestro di calcio e di ironia, artista sublime di quando il pallone era la domenica della buona gente, anche per chi lo giocava.


Negli anni 50, che allegria quel Milan. Gre-no-li, musica di gol e spettacolo, di giocate maestose, Gren-Nordahl-Liedholm, per quattro scudetti rossoneri, per un football che era estetica e bellezza, sogno e fantasia.


Liedholm segnava, giocando a testa alta, guardando le nuvole e le stelle. Disse un giorno: ‘sbagliai un passaggio, non succedeva da due anni e tutto lo stadio fece un oohhh di meraviglia’.


Da allenatore portò il Milan a conquistare nel 1979 il decimo scudetto, quello della stella, nel 1983 la Roma a vincere il suo secondo titolo. Da Rivera a Falçao, da Tosetto ‘il Keegan della brianza’ al bomber Pruzzo, ma il vero campione era lui, sulla panchina: il ‘Barone’ dai gesti educati, dalle frasi sospese. Il suo modulo di gioco assomigliava alla sua vita: elegante e imprevedibile.


Il primo album delle figurine panini aveva Liedholm in copertina. Cominciava l'avventura e non poteva che esserci lui, il fuoriclasse venuto dal nord, ma dal cuore meridionale.


Addio Barone, e grazie. Grazie per la meraviglia, per il sorriso, per quel tempo che ora è memoria e rimpianto, nostalgia sottile.


 


Per una di quelle curiose coincidenze che regolano il destino in quello stesso 5 novembre si è registrato un altro lutto nel mondo dello sport: la scomparsa di un’altra persona del mai troppo rimpianto passato, un signore napoletano d’altri tempi che giocava non con i piedi, ma con una voce rassicurante che timbrò centinaia di domeniche di tante generazioni di appassionati di calcio. Roberto Bortoluzzi era un giornalista così discreto da essere solo e semplicemente una voce, rarissime le sue apparizioni in video. E altrettanto arduo trovare frammenti audio sul web. Da brivido riascoltare la mitica sigla e quell’incipit stampato indelebilmente nel cuore: “Gentili ascoltatori, buon giorno. Dallo studio centrale Roberto Bortoluzzi”. Così iniziava una trasmissione storica per la Rai, quel celeberrimo “Tutto il calcio minuto per minuto” che vantava altri principi del microfono come Enrico Ameri e Sandro Ciotti. La celebrazione delle radio a transistor come cordone ombelicale con gli stadi italiani, i rumori di fondo, una voce che interrompeva il radiocronista di turno per segnalare il gol e, devastante per me, quella domenica del 1973, il 20 maggio, quando la notizia che diede Enrico Ameri con consumata e apposita teatralità (non citò per prima la squadra che giocava in casa) mi raggelò: Milan 0 (pausa)-Verona 3. E lo scudetto, che sembrava una formalità, volò a Torino sulle maglie bianconere della Juventus.


 


Giorni tristissimi, questi di inizio novembre, perché il 6 ci ha lasciato un maestro di giornalismo: Enzo Biagi.


“Credo che la libertà sia uno dei beni che gli uomini dovrebbero apprezzare di più. La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà”. Mi sembra la frase che meglio condensi la sua vita, rovinata dall’editto bulgaro di un ometto, ultimo oltraggio non solo al giornalista, ma anche alla persona perbene che era Enzo Biagi. Eppure il programma “Annozero” della scorsa settimana, a lui dedicato, non mi è piaciuto molto, a parte l’emozione di ascoltare “Bella ciao”, cosa che capita rarissimamente, visto che ormai la Resistenza e la guerra partigiana sono state indegnamente additate al pubblico ludibrio (tra i più zelanti Giancarlo Pansa) e rimosse dalla memoria collettiva (di una parte). Perché sarebbe stato molto meglio esemplificare cos’era il giornalismo interpretato da Biagi. La trasmissione “Il Fatto”, il programma migliore dei primi 50 anni della Rai, come decretato dai telespettatori nel 2004, andò ininterrottamente in onda, nello spazio dove adesso galleggiano insulsi “pacchi” e altri residui organici, per sette anni: dal 1995 al 2002. Un totale di 884 puntate di cui poco più della metà (440) consultabili in archivio, come informa il sito http://www.ilfatto.rai.it/. Non ci voleva poi molto a rimandare in onda quelle più significative. Ognuna durava appena 5 minuti e quante avrebbero potuto trovare posto in “Anno zero”, al posto della cronica logorrea che si è spalmata su buona parte della serata.


In fondo, la differenza tra Enzo Biagi e gli altri la si può cogliere proprio nella capacità di realizzare ottimo giornalismo televisivo con tempi ridotti all’osso, senza effetti speciali e facendo, appunto, parlare i fatti. E le persone che avevano qualcosa da dire e non libri o serate o cd da promuovere, come i tempi cosiddetti “moderni” impongono, dove la marchetta è stata elevata a filosofia di vita e l’ignoranza assurta a valore assoluto e indiscutibile.


 

lunedì 5 novembre 2007

Raggio di sole


Giorni grevi di violenza e brutalità che devastano la normale quotidianità. Quando vivere sembra persino un privilegio, immersi nel magma mediatico che fa irrompere storie cupe e tragiche, dispiega l’assurdità di morti globali (una famiglia di Senigallia, in provincia di Ancona, sterminata in un incidente stradale in Egitto, un bimbo di sette anni sarà costretto a sopravvivere senza genitori, fratello e nonni. Poi chi vede in questo un disegno divino (uno scarabocchio semmai) avrà la bontà di spiegarlo al bambino e magari anche a me).


Notizie filtrate dai sentimenti, dall’affetto e dall’esistenza di E., ormai entrata nel cuore, nella mente, nell' ordinaria permanenza della routine, sebbene ad intervalli irregolarmente lunghi. Il Male si trova appena svoltato l’angolo, il Bene necessita di tempi di attesa snervanti e, quando si trova tra le proprie braccia, è già il momento di lasciarlo andare via.


Giornate frenetiche, esaltanti eppure così normali, senza eccessi, né nevrosi. Poche le giornate, troppo brevi nel loro fluire, eppure così indispensabili: la sua presenza un balsamo per ferite vecchie ormai cicatrizzate e nuove, ancora aperte. Il presente ricopre il passato, da tempo avvolto nelle nebbie autunnali, espunto ed affidato alla memoria. Senza rimpianti. Un presente composto da respiri che sono parole, da gesti che sono frasi, da baci che sono note su un pentagramma a comporre una sinfonia che esalta l’affetto e la gioia di stare insieme. Un raggio di sole che dissolve il grigio trasformandolo in iridescente caleidoscopio.


E poi la constatazione di quanto sia cresciuto questo rapporto, di come siano parte di me lei, la sua vita, il suo ambiente, i suoi timori, i suoi problemi. Per questo quando il treno si avvia con puntualità irridente strappa un pezzetto della mia anima.


Sulle labbra ancora il suo timbro, la lingua spalmata di miele. Il ritorno in una casa fredda e vuota, con i suoi abiti da sistemare, le lenzuola da accarezzare per trattenere il suo profumo. E stasera addormentarsi stringendo il cuscino come ho stretto lei per quattro notti.