giovedì 31 maggio 2012

Giovanni Falcone - Ancora un ricordo




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28 maggio 1992





I questi giorni ho cercato invano di dimenticare l'ultima telefonata con Giovanni Falcone, il 31 gennaio di quest'anno, ma l'angoscia di quel ricordo è stata più forte di ogni tentativo di rimozione. Gli avevo telefonato, come quasi sempre prima di scrivere sui processi di Palermo , per verificare insieme dati di fatto e linee interpretative sul complesso universo dei rapporti tra mafia e giustizia.
L'occasione era stata la sentenza della prima sezione penale della Cassazione (quella volta non presieduta da Corrado Carnevale), che aveva finalmente riconosciuto le tesi di Falcone sulla struttura centralizzata delle cosche mafiose (la c.d. cupola) e dato legittimità alle dichiarazioni dei pentiti, da Buscetta a Mannoia. Rimase stupito della mia telefonata. Mi chiese: «Ma come, mi chiami ancora? Non sei anche tu contro la Superprocura?». C'era in quella domanda la sensazione di un profondo isolamento, di essere abbandonato, di non essere compreso. Gli dissi che per me continuava ad essere il giudice che era riuscito ad imbastire i grandi processi di mafia, a dare impulso al pool di Palermo, il giudice che simboleggiava la memoria storica ed il più grande patrimonio di conoscenza sul fenomeno mafioso, che la sua scelta ministeriale non toccava i nostri rapporti, e così ricominciammo a parlare come sempre.
L'angoscia che non riesco a togliermi di dosso sta negli interrogativi che continuo a pormi sui collegamenti tra il nuovo ruolo istituzionale di Falcone e la strage in cui ha perso la vita insieme alla moglie ed ai tre uomini della scorta. Certo, so benissimo che non c'è nessun rapporto tra le polemiche sulla Superprocura e la sua morte. Falcone era da anni perfettamente conscio che la sua vita era appesa ad un filo e da anni affrontava con grande senso di responsabilità e vigile attenzione la sua esistenza blindata. Qui si affollano altri ricordi più risalenti, come quando aveva risposto con dolce e stupita ironia alla mia offerta di sedersi ad un tavolino esterno sul Lungotevere, vicino al ministero della Giustizia, ovvero quando, alla mia proposta di viaggiare insieme in auto per raggiungere da Torino la sede di un convegno in Piemonte, mi aveva detto che non c'era motivo che corressi quel rischio.
Falcone era dunque in pericolo da almeno dieci anni, eppure continuo ad essere inseguito dalla sensazione che nella sua parabola giudiziaria, da giudice di prima linea a Palermo a uomo di punta del ministero della Giustizia e, poi, di candidato naturale per la carica di .procuratore nazionale antimafia, vada ricercata la causa ultima della sua morte. Qui affiora anche il rimpianto di non essere riuscito tempestivamente a spiegare che, malgrado le riserve istituzionali sulla Procura nazionale antimafia, una volta che il nuovo organismo era stato approvato dal Parlamento, a Giovanni Falcone non poteva essere negato il diritto - che per lui era anche un dovere esistenziale - di continuare su quella sponda la lotta alla mafia.
Credo che Falcone abbia lasciato il suo posto di prima linea perché si era reso conto che la profonda crisi di efficienza e di legittimazione degli uffici giudiziari siciliani gli aveva ormai precluso ogni spazio di azione. Non credo per stanchezza, perché la sua vita blindata è continuata eguale, a Roma come a Palermo. Può anche darsi che avesse raggiunto livelli di conoscenza sugli intrecci tra mafia e spezzoni del potere politico tali da convincerlo che la giustizia penale non era più lo strumento idoneo per combattere la penetrazione del potere mafioso. Da questa consapevolezza può essere derivata la convinzione che la mafia andava contrastata all'interno dello stesso potere politico ed istituzionale, e che a Roma, più che a Palermo, queste sue intuizioni avrebbero potuto trovare conferma, pur con tutte le compromissioni, anche a livello di immagine, che tale scelta avrebbe comportato. Se questi sono i motivi della sua parabola giudiziaria, è nel giusto chi vede nella matrice politica, e non solo in una vendetta mafiosa, le cause della sua morte.
Diviene anche comprensibile la rabbia esplosa a Palermo durante i funerali contro le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano, ma ciascuno in questi giorni dovrebbe trovare la forza di affrontare da solo la propria sofferenza, senza rimanere prigioniero del vecchio gioco al massacro delle ritorsioni e dei reciproci addebiti di responsabilità. A Palermo le bare delle vittime della strage non erano ancora sottoterra che già si scatenava il copione sinistro delle ritorsioni tra u Ministro della Giustizia e il Csm.
Non è più il tempo delle devastanti faide istituzionali, ma ciascuno deve trovare la forza di presentarsi come uomo, di distaccarsi dallo stereotipo della carica ricoperta. A Giovanni Falcone, morto da uomo solo e forte, dobbiamo almeno dedicare questo ritorno ai più genuini e vitali valori umani, e dimostrare di avere capito che i livelli di sofferenza individuale sono talmente alti e generalizzati da essersi trasformati in un fiume in piena, capace di esprimere una grande forza collettiva. Paradossalmente, l'impotenza e la solitudine che sembrano stare dentro questo fiume di sofferenze individuali potrebbero diventare il tessuto di una nuova Resistenza, dietro cui si stanno radunando tutti coloro che cercano smarriti di capire quali siano le ragioni politiche della morte di Giovanni Falcone.
Domenica scorsa mi ha telefonato in lacrime la mamma di Emanuela Setti Carraro. Voleva raggiungere Palermo per dare l'ultimo saluto a Falcone ed a sua moglie, ma Prefettura e Carabinieri non hanno mosso un dito per assecondare questo desiderio di umana pietà. Nelle sue parole non c'era rabbia per la sordità burocratica degli apparati dello Stato e degli uomini che li rappresentano, ma tanto dolore; quella sofferenza che accomuna non solo l'esercito dei parenti delle vittime della mafia, ma ormai coinvolge centinaia di migliaia di persone. Quel fiume di sofferenze ci dà la speranza che il sacrificio del siciliano Giovanni Falcone sia riuscito a fare capire a tutti che il potere mafioso è il primo, il più grave problema nazionale e che l'angoscia per la sua morte si stia trasformando in una grande reazione popolare, al tempo stesso umana e politica, capace di dare forza ai settori sani delle istituzioni ed ai politici onesti.


mercoledì 23 maggio 2012

La strage di Capaci - il manifesto: prima pagina


La strage di Capaci - l'Unità 24 maggio 1992


Da Epoca 3 giugno 1992




Giovanni, cuore e cervello di Sicilia

SAVERIO LODATO

Da dieci anni scrivete di mafia e ancora non avete capito nulla. Non avete capito la cosa più importante. Quella che voi chiamate mafia, piovra, criminalità organizzata, «è Cosa Nostra». Ma come fate a non capire che se in questa Regione sono stati assassinati procuratori della Repubblica, dirigenti della Squadra mobile, comandanti dei carabinieri, segretari dei partiti, capi del governo, imprenditori, giornalisti, cittadini qualunque, tutto ciò è il risultato di una strategia ideata e messa a segno da una struttura verticistica e monolitica, che può avvalersi di una tradizione secolare e di rapporti fittamente intrecciati con interi pezzi della società siciliana. Un'ultima cosa: dovete ancora capire che per Cosa Nostra il controllo del territorio è lo strumento fondamentale per la ricerca del suo consenso.
Negli ultimi anni, Falcone (che avevo conosciuto appena giunto a Palermo da Trapani, alla fine degli anni Settanta, dunque un «Falcone che ancora non era diventato Falcone») sembrava sempre di più pignolo e monotematico. Come se ormai dicesse sempre la stessa cosa. Cosa Nostra - ripeteva anche nei colloqui privati - «è Cosa Nostra, tutto qui».
Conosceva segreti? Certamente tanti. Conosceva regole comportamentali, strutture di pensiero, conosceva l'humus in cui l'uomo d'onore si nutre sin da bambino nei vicoli della casba di Palermo o nelle casupole di Corleone? Certamente. Conosceva l'an-tropologia del mafioso quasi alla perfezione. Diversamente, come avrebbe fatto a piegare sino al pentimento, colonne mafiose come Buscetta o Contorno, Calderone o Marino Mannoia? Era questo il segreto Falcone: i grandi mafiosi quando decisero di voltare le spalle a Cosa Nostra si rivolsero proprio al nemico numero uno dell'organizzazione. È verissimo: i mafiosi avevano finalmente trovato in lui il volto di uno Stato italiano che dopo quarant'anni di complicità, compromissioni e silenzi, manifestava l'intenzione di fare in qualche modo sul serio. Ma non era solo questo. Falcone era palermitano, siciliano, palermitanissimo, verrebbe voglia di dire. Parlava linguaggi che non si parlano nel resto d'Italia. (e che spesso lo rendevano non soddisfacente sul piano della resa televisiva). Parlava il linguaggio degli sguardi, ad esempio. I silenzi, le pause, nelle sue schermaglie, interrogatori con gente poco propensa alla sintassi, ancorata istintivamente al silenzio anche quando inconsciamente avvertiva tutto l'impulso alla rottura di tabù secolari, diventavano quasi per incanto la chiave vincente per una «confessione clamorosa» o un «pentimento». Ho un ricordo personale, fra tanti che si affollano in queste ore alle prime notizie da Palermo, ma che forse può dire molto.
Era il settembre dell'89. Falcone, appena scampato all'agguato dell'Addaura, quando una cinquantina di candelotti di tritolo vennero scoperti appena in tempo, era venuto a cena a casa mia. Lui, in una serata per altro piacevolissima visto che l'uomo di storie ne sapeva davvero tante, non rinunciò ancora una volta a spiegare cosa fosse - secondo lui - Cosa Nostra. Ascoltiamolo: «Quando andai a New York (Falcone era già diventato Falcone) mi stancai presto del protocollo e delle visite organizzate. Chiesi di essere condotto a Brooklyn. Entrai in un bar zeppo di italo-americani. Piombò un silenzio assoluto. Gli avventori fecero ala al mio passaggio, mentre mi dirigevo verso il bancone. Gli uomini di scorta, con un attimo di indecisione, erano rimasti sulla soglia. Mi chiesi anch'io come uscire dall'imbarazzo. Mi diressi al bancone e rivolgendomi al barista dissi in palermitano molto stretto: “Mi rassi un café”. Si compì il miracolo. In quel locale tornò la vita, tutti ripresero a parlare e non fecero più caso alla mia presenza».
Oggi Falcone è stato assassinato. Con un agguato che dimostra - ancora una volta - una potenza militare micidiale. L'agguato dimostra due cose: 1) Cosa Nostra esiste e considerava apertissimo il suo conto personale. Una autentica vertenza (come si dice a Palermo), iniziata tanti anni fa quando Falcone, per la prima volta, e prima di tanti altri giudici, aveva davvero capito di che pasta fossero fatti gli uomini d'onore. 2) Falcone sapeva bene che il rapporto mafia-politica esiste, è strettissimo, ed è la condizione essenziale che consente, appunto, alla mafia, di non essere semplice gangsterismo, guerra per bande, criminalità organizzata, anche se di alto livello. Negli ultimi anni della sua attività volle dimenticare queste sue certezze sul rapporto mafia-politica? È molto probabile. Non dimentichiamo che a Palermo riuscì a totalizzare soltanto sconfitte, insuccessi personali, astio e antipatia da parte di molti dei suoi colleghi. Era andato a Roma? Non è bastato a salvarlo.
(24 maggio 1992)

La strage di Capaci - Gli agenti della scorta

Epoca 3 giugno 1992

La strage di Capaci - La Stampa: prima pagina


martedì 22 maggio 2012

La strage di Capaci - l'Unità: prima pagina



La strage di Capaci - Corriere della Sera: prima pagina


La strage di Capaci - la Repubblica: prima pagina


Capaci - Vent'anni dopo/10


Panorama 31 maggio 1992

Capaci - Vent'anni dopo/9

Panorama 31 maggio 1992

Capaci - Vent'anni dopo/8

31 maggio 1992


Capaci - Vent'anni dopo/7


Capaci - Vent'anni dopo/6

3 giugno 1992

Capaci - Vent'anni dopo/5

5 giugno 1992

Capaci - Vent'anni dopo/4

5 giugno 1992

Capaci - Vent'anni dopo/3

Giovanni Falcone e Francesca Morvillo
(Foto tratta da "Epoca" del 3 giugno 1992)

Capaci - Vent'anni dopo/2

Io non dimentico.
(La foto è tratta da "Epoca" del 3 giugno 1992)