Giovanni, cuore e cervello di Sicilia
SAVERIO
LODATO
Da
dieci anni scrivete di mafia e ancora non avete capito nulla. Non
avete capito la cosa più importante. Quella che voi chiamate mafia,
piovra, criminalità organizzata, «è Cosa Nostra». Ma come fate a
non capire che se in questa Regione sono stati assassinati
procuratori della Repubblica, dirigenti della Squadra mobile,
comandanti dei carabinieri, segretari dei partiti, capi del governo,
imprenditori, giornalisti, cittadini qualunque, tutto ciò è il
risultato di una strategia ideata e messa a segno da una struttura
verticistica e monolitica, che può avvalersi di una tradizione
secolare e di rapporti fittamente intrecciati con interi pezzi della
società siciliana. Un'ultima cosa: dovete ancora capire che per Cosa
Nostra il controllo del territorio è lo strumento fondamentale per
la ricerca del suo consenso.
Negli
ultimi anni, Falcone (che avevo conosciuto appena giunto a Palermo da
Trapani, alla fine degli anni Settanta, dunque un «Falcone che
ancora non era diventato Falcone») sembrava sempre di più pignolo e
monotematico. Come se ormai dicesse sempre la stessa cosa. Cosa
Nostra - ripeteva anche nei colloqui privati - «è Cosa Nostra,
tutto qui».
Conosceva
segreti? Certamente tanti. Conosceva regole comportamentali,
strutture di pensiero, conosceva l'humus in cui l'uomo
d'onore
si nutre sin da bambino nei vicoli della casba di Palermo o nelle
casupole di Corleone? Certamente. Conosceva l'an-tropologia del
mafioso quasi alla perfezione. Diversamente, come avrebbe fatto a
piegare sino al pentimento,
colonne mafiose come Buscetta o Contorno, Calderone o Marino Mannoia?
Era questo il segreto Falcone: i grandi mafiosi quando decisero di
voltare le spalle a Cosa Nostra si rivolsero proprio al nemico numero
uno dell'organizzazione. È verissimo: i mafiosi avevano finalmente
trovato in lui il volto di uno Stato italiano che dopo quarant'anni
di complicità, compromissioni e silenzi, manifestava l'intenzione di
fare in qualche modo sul serio. Ma non era solo questo. Falcone
era palermitano, siciliano, palermitanissimo, verrebbe voglia di
dire. Parlava linguaggi che non si parlano nel resto d'Italia. (e che
spesso lo rendevano non soddisfacente sul piano della resa
televisiva). Parlava il linguaggio degli sguardi, ad esempio. I
silenzi, le pause, nelle sue schermaglie, interrogatori con gente
poco propensa alla sintassi, ancorata istintivamente al silenzio
anche quando inconsciamente avvertiva tutto l'impulso alla rottura di
tabù secolari, diventavano quasi per incanto la chiave vincente per
una «confessione clamorosa» o un «pentimento». Ho un ricordo
personale, fra tanti che si affollano in queste ore alle prime
notizie da Palermo, ma che forse può dire molto.
Era
il settembre dell'89. Falcone, appena scampato all'agguato
dell'Addaura, quando una cinquantina di candelotti di tritolo vennero
scoperti appena
in tempo, era venuto a cena a casa mia. Lui, in una serata per altro
piacevolissima visto che l'uomo di storie ne sapeva davvero tante,
non rinunciò ancora una volta a spiegare cosa fosse - secondo lui -
Cosa Nostra. Ascoltiamolo: «Quando andai a New York (Falcone era già
diventato Falcone) mi stancai presto del protocollo e delle visite
organizzate. Chiesi di essere condotto a Brooklyn. Entrai in un bar
zeppo di italo-americani. Piombò un silenzio assoluto. Gli avventori
fecero ala al mio passaggio, mentre mi dirigevo verso il bancone. Gli
uomini di scorta, con un attimo di indecisione, erano rimasti sulla
soglia. Mi chiesi anch'io come uscire dall'imbarazzo. Mi diressi al
bancone e rivolgendomi al barista dissi in palermitano molto stretto:
“Mi rassi un café”. Si compì il miracolo. In quel locale tornò
la vita, tutti ripresero a parlare e non fecero più caso alla mia
presenza».
Oggi
Falcone è stato assassinato. Con un agguato che dimostra - ancora
una volta - una potenza militare micidiale. L'agguato dimostra due
cose: 1) Cosa Nostra esiste e considerava apertissimo il suo conto
personale. Una autentica vertenza
(come si dice a Palermo), iniziata tanti anni fa quando Falcone, per
la prima volta, e prima di tanti altri giudici, aveva davvero capito
di che pasta fossero fatti gli uomini
d'onore.
2) Falcone sapeva bene che il rapporto mafia-politica esiste, è
strettissimo, ed è la condizione essenziale che consente, appunto,
alla mafia, di non essere semplice gangsterismo, guerra per bande,
criminalità organizzata, anche se di alto livello. Negli ultimi anni
della sua attività volle dimenticare queste sue certezze sul
rapporto mafia-politica? È molto probabile. Non dimentichiamo che a
Palermo riuscì a totalizzare soltanto sconfitte, insuccessi
personali, astio e antipatia da parte di molti dei suoi colleghi. Era
andato a Roma? Non è bastato a salvarlo.
(24
maggio 1992)
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