28 maggio 1992 |
I
questi giorni ho cercato invano di dimenticare l'ultima telefonata
con Giovanni Falcone, il 31 gennaio di quest'anno, ma l'angoscia di
quel ricordo è stata più forte di ogni tentativo di rimozione. Gli
avevo telefonato, come quasi sempre prima di scrivere sui processi di
Palermo , per verificare insieme dati di fatto e linee interpretative
sul complesso universo dei rapporti tra mafia e giustizia.
L'occasione
era stata la sentenza della prima sezione penale della Cassazione
(quella volta non presieduta da Corrado Carnevale), che aveva
finalmente riconosciuto le tesi di Falcone sulla struttura
centralizzata delle cosche mafiose (la c.d. cupola) e dato
legittimità alle dichiarazioni dei pentiti, da Buscetta a Mannoia.
Rimase stupito della mia telefonata. Mi chiese: «Ma come, mi chiami
ancora? Non sei anche tu contro la Superprocura?». C'era in quella
domanda la sensazione di un profondo isolamento, di essere
abbandonato, di non essere compreso. Gli dissi che per me continuava
ad essere il giudice che era riuscito ad imbastire i grandi processi
di mafia, a dare impulso al pool di Palermo, il giudice che
simboleggiava la memoria storica ed il più grande patrimonio di
conoscenza sul fenomeno mafioso, che la sua scelta ministeriale non
toccava i nostri rapporti, e così ricominciammo a parlare come
sempre.
L'angoscia
che non riesco a togliermi di dosso sta negli interrogativi che
continuo a pormi sui collegamenti tra il nuovo ruolo istituzionale di
Falcone e la strage in cui ha perso la vita insieme alla moglie ed ai
tre uomini della scorta. Certo, so benissimo che non c'è nessun
rapporto tra le polemiche sulla Superprocura e la sua morte. Falcone
era da anni perfettamente conscio che la sua vita era appesa ad un
filo e da anni affrontava con grande senso di responsabilità e
vigile attenzione la sua esistenza blindata. Qui si affollano altri
ricordi più risalenti, come quando aveva risposto con dolce e
stupita ironia alla mia offerta di sedersi ad un tavolino esterno sul
Lungotevere, vicino al ministero della Giustizia, ovvero quando, alla
mia proposta di viaggiare insieme in auto per raggiungere da Torino
la sede di un convegno in Piemonte, mi aveva detto che non c'era
motivo che corressi quel rischio.
Falcone
era dunque in pericolo da almeno dieci anni, eppure continuo ad
essere inseguito dalla sensazione che nella sua parabola giudiziaria,
da giudice di prima linea a Palermo a uomo di punta del ministero
della Giustizia e, poi, di candidato naturale per la carica di
.procuratore nazionale antimafia, vada ricercata la causa ultima
della sua morte. Qui affiora anche il rimpianto di non essere
riuscito tempestivamente a spiegare che, malgrado le riserve
istituzionali sulla Procura nazionale antimafia, una volta che il
nuovo organismo era stato approvato dal Parlamento, a Giovanni
Falcone non poteva essere negato il diritto - che per lui era anche
un dovere esistenziale - di continuare su quella sponda la lotta alla
mafia.
Credo
che Falcone abbia lasciato il suo posto di prima linea perché si era
reso conto che la profonda crisi di efficienza e di legittimazione
degli uffici giudiziari siciliani gli aveva ormai precluso ogni
spazio di azione. Non credo per stanchezza, perché la sua vita
blindata è continuata eguale, a Roma come a Palermo. Può anche
darsi che avesse raggiunto livelli di conoscenza sugli intrecci tra
mafia e spezzoni del potere politico tali da convincerlo che la
giustizia penale non era più lo strumento idoneo per combattere la
penetrazione del potere mafioso. Da questa consapevolezza può essere
derivata la convinzione che la mafia andava contrastata all'interno
dello stesso potere politico ed istituzionale, e che a Roma, più che
a Palermo, queste sue intuizioni avrebbero potuto trovare conferma,
pur con tutte le compromissioni, anche a livello di immagine, che
tale scelta avrebbe comportato. Se questi sono i motivi della sua
parabola giudiziaria, è nel giusto chi vede nella matrice politica,
e non solo in una vendetta mafiosa, le cause della sua morte.
Diviene
anche comprensibile la rabbia esplosa a Palermo durante i funerali
contro le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano, ma
ciascuno in questi giorni dovrebbe trovare la forza di affrontare da
solo la propria sofferenza, senza rimanere prigioniero del vecchio
gioco al massacro delle ritorsioni e dei reciproci addebiti di
responsabilità. A Palermo le bare delle vittime della strage non
erano ancora sottoterra che già si scatenava il copione sinistro
delle ritorsioni tra u Ministro della Giustizia e il Csm.
Non
è più il tempo delle devastanti faide istituzionali, ma ciascuno
deve trovare la forza di presentarsi come uomo, di distaccarsi dallo
stereotipo della carica ricoperta. A Giovanni Falcone, morto da uomo
solo e forte, dobbiamo almeno dedicare questo ritorno ai più genuini
e vitali valori umani, e dimostrare di avere capito che i livelli di
sofferenza individuale sono talmente alti e generalizzati da essersi
trasformati in un fiume in piena, capace di esprimere una grande
forza collettiva. Paradossalmente, l'impotenza e la solitudine che
sembrano stare dentro questo fiume di sofferenze individuali
potrebbero diventare il tessuto di una nuova Resistenza, dietro cui
si stanno radunando tutti coloro che cercano smarriti di capire quali
siano le ragioni politiche della morte di Giovanni Falcone.
Domenica
scorsa mi ha telefonato in lacrime la mamma di Emanuela Setti
Carraro. Voleva raggiungere Palermo per dare l'ultimo saluto a
Falcone ed a sua moglie, ma Prefettura e Carabinieri non hanno mosso
un dito per assecondare questo desiderio di umana pietà. Nelle sue
parole non c'era rabbia per la sordità burocratica degli apparati
dello Stato e degli uomini che li rappresentano, ma tanto dolore;
quella sofferenza che accomuna non solo l'esercito dei parenti delle
vittime della mafia, ma ormai coinvolge centinaia di migliaia di
persone. Quel fiume di sofferenze ci dà la speranza che il
sacrificio del siciliano Giovanni Falcone sia riuscito a fare capire
a tutti che il potere mafioso è il primo, il più grave problema
nazionale e che l'angoscia per la sua morte si stia trasformando in
una grande reazione popolare, al tempo stesso umana e politica,
capace di dare forza ai settori sani delle istituzioni ed ai politici
onesti.