martedì 22 maggio 2007

Le attese


Non ho resistito molto alla tentazione di suddividere il mio microcosmo in buoni e cattivi. Dove i secondi sono coloro che, potendolo fare, non mi stanno fornendo alcun aiuto, dimostrano un totale disinteresse, mascherato dall’ipocrisia di facciata (c’è ancora chi mi fa le condoglianze, perchè mi vede solo adesso e naturalmente non è così) e neppure riescono a rimediare con lo straccio di una telefonata. Svaniti, dissolti come nebbia al sole, quasi che il contatto con chi è stato sfiorato dalla morte possa essere contagioso e dunque meglio rimanere lontani.


Il “cattivo” è stato, per esempio, colui che credevo amico e che ha risposto ad una mia richiesta spiegandomi che: “come tu ben sai” (e perchè dovrei saperlo?) “il mio curriculum non prevede ancora questo servizio. Ti consiglio di consultare un’agenzia”. O ancora chi promette, appare convincente e poi si defila, rimanda, non arriva a nessuna conclusione concreta. Chi fissa appuntamenti e poi, davanti alla richiesta esplicita di lavoro, prende tempo, indirizza altrove, proclama la modesta entità della propria azienda e poi “c’è la crisi” che, qualunque sia la contingenza, ci sta sempre bene: basta la parola. Come stamattina quando un tale ha scoperto, durante un colloquio, che avevamo frequentato lo stesso istituto superiore (ma lui alcuni anni prima) e dunque si poteva giustamente divagare parlando di vecchi e, credo, ormai defunti insegnanti. Ci sono poi coloro per i quali non è successo niente e d’altra parte è trascorso “ormai” un mese,come se il dolore fosse a tempo determinato, alla stregua di tanti moderni contratti di lavoro: dopo il periodo indicato non resta più niente.


I “cattivi”  per antonomasia sono e sono stati coloro che consolavano asserendo: “Ti sono vicino”. Cosa cazzo significa questa frase se vicino non c’è nessuno? Essere vicino: quando? Quando è il momento delle prefiche e dei pianti (strano, ma non ho pianto)? Quando non ci si può proprio esimere dall’esserci e allora si ritiene di completare l’opera con la classica ciliegina su una torta amarissima? Una stonata marcia funebre. Che tristezza, che squallore il comportamento umano! E quante delusioni sto ricevendo! Sugli altri, tranne rarissime eccezioni, è meglio non fare proprio affidamento, perché nel momento del bisogno non ci saranno.


Tra i "buoni" annovero quell’amica che mi ha scritto: “So che significa. I primi giorni sono di bufera” e parlava per esperienza personale, condividendo il dolore con questo tipo di presenza. Oppure un’altra cara amica che considerava come “la discrezione alle volte costa, il pensiero per te è gratis”. E un’altra, assai lontana, che mi aveva telefonato subito dopo aver appreso la notizia, aggiungeva poi in un messaggio che sperava di non avermi messo in imbarazzo, “ma quando ho letto d’istinto volevo sentirti. Non potrò esser fisicamente vicino a te, ma il mio pensiero non mancherà”. Una super buona, qualche giorno più tardi mi ha coinvolto in una visita guidata ad una chiesetta (interesse artistico) e poi mi ha inserito in un’altra serie di iniziative nel fine settimana, aggregandomi nel suo gruppo, senza nessun preliminare, senza alcuna sottolineatura: “Io vado lì, sei dei nostri? Ti passo a prendere alle 16:00”. Paradossalmente tra i buoni annovero una parte delle amicizie virtuali che, sia in privato che in pubblico, hanno voluto far sentire la loro voce. Come una cara persona che non frequento molto, pur essendo tra i “preferiti” e che invece ha saputo incoraggiarmi così: “Un passo dopo l'altro ce la farai, così come ce l'ho fatta io e tantissime, infinite, altre persone”. Perché poi è questo, in fondo, il senso di tutto ciò, vale a dire rendersi conto che la vita intorno ha proseguito il suo fluire e che  da questa deviazione, solo momentanea, si dovrà in seguito, progressivamente (appunto un passo dopo l’altro) rientrare, facendosi dapprima trascinare dalla corrente e quindi riacquistando gradualmente autonomia, reimpossessandosi della pratica del quotidiano, dopo che il vento avrà eroso la persona come le rocce  del Grand Canyon, togliendo via il superfluo, ciò che non è più importante. Forse come quelle rocce devo affrontare il vento e lasciare che levighi il mio animo. E mi modifichi.


Alcune sere fa mi sono casualmente imbattuto, su La7, in un programma (“Exit”) condotto dalla cinguettante (e sempre indossante tre taglie in meno) Ilaria D’Amico, dove si trattava l’argomento più appropriato per il mio momento: “Il caro estinto”. Qui oltre a parlare dei costi di un funerale (a proposito, quando accadrà richiedete la visione del catalogo con i prezzi, perché i preventivi sono totalmente incontrollabili), scorrevano le immagini del cimitero Monumentale di Milano dove non ha cittadinanza la livella declamata dal grande Totò. Tra le famiglie altolocate che hanno contrassegnato la storia della capitale lombarda, esiste una gara ad esibirlo più grosso il mausoleo. Dai Pirelli ai Rizzoli, dai Motta, ai Moratti è una stomachevole esibizione della potenza del denaro anche nella fase estrema della vita che pure per lor signori finisce.


Non sono credente, o meglio non lo sono più dal 25 ottobre 2000, però aggiungo un brano meraviglioso di don Tonino Bello che un amico, attore e speaker, ha scelto come lettura al termine della funzione, su mia richiesta. Può essere utile per rifletterci sopra. Io avrò tutto il tempo (per adesso mi sento invulnerabile di fronte alla morte) per tornarci sopra. Se necessario. Se sarà il caso. Lo lascio qui, perché per adesso non mi serve.


Il parcheggio del Calvario


Collocazione provvisoria.


Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. L’ha donato, qualche anno fa, uno scultore del luogo. Il parroco, in attesa di sistemano definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria. La scritta, che in un primo momento avevo scambiato come intitolazione dell’opera, mi è parsa provvidenzialmente ispirata, al punto che ho pregato il parroco di non rimuovere per nessuna ragione il crocifisso di li, da quella parete nuda, da quella posizione precaria, con quel cartoncino ingiallito. Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio, allora, tu che soffri inchiodato su una carrozzella. Animo, tu che provi i morsi della solitudine. Abbi fiducia, tu che bevi al calice amaro dell’abbandono. Non ti disperare, madre dolcissima, che hai partorito un figlio focomelico. Non imprecare, sorella, che ti vedi distruggere giorno dopo giorno da un male che non perdona. Asciugati le lacrime, fratello, che sei stato pugnalato alle spalle da coloro che ritenevi tuoi amici. Non angosciarti, tu che per un tracollo improvviso vedi i tuoi beni pignorati, i tuoi progetti in frantumi, le tue fatiche distrutte. Non tirare i remi in barca, tu che sei stanco di lottare e hai accumulato delusioni a non finire. Non abbatterti, fratello povero, che non sei calcolato da nessuno, che non sei creduto dalla gente e che, invece del pane, sei costretto a ingoiare bocconi di amarezza. Non avvilirti, amico sfortunato, che nella vita hai visto partire tanti bastimenti, e tu sei rimasto sempre a terra. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre « collocazione provvisoria ». Il Calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale. E il terreno di questa collina, dove si consuma la tua sofferenza, non si venderà mai come suolo edificatorio. Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo. « Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra ». Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia. Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra. Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo. Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio. Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo. Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

domenica 13 maggio 2007

La terra lieve


Quel pomeriggio del 18 aprile 2007 dovevo assolutamente scrivere un post. Si trattava di una necessità impellente, sotto la spinta dell’inquietudine che stava erodendo la friabile e fittizia tranquillità fin dal giorno precedente. Era già pronto il titolo, anzi la scelta si allargava a due. “In limine mortis” esprimeva in modo perentorio lo stato d’animo del momento. Ne fotografava ogni sfumatura, zoomando sui dettagli, anche quelli che non si volevano ammettere di fronte all’evidenza. Il secondo poteva essere: “Ultimi giorni?” con quel punto interrogativo aggiunto ad una tragica percezione, per stemperarne la terribilità e lasciare socchiusa la porta alla speranza.


Ma il cervello elettronico, come faceva da tempo, si rifiutava di assecondarmi. Il cervello umano stava invece inerpicandosi, con sorprendente facilità, lungo tortuosi tornanti, analogamente a quegli “stormi d’uccelli neri com’esuli pensieri nel vespero migrar”.


Poi un’accelerazione inattesa e sconvolgente per la sua repentinità. Alle 21.52 tutto si era compiuto. Mio padre mi aveva lasciato senza essere in grado di spiegare perchè. Non aveva avuto neppure la possibilità di uscire, per qualche istante, dal torpore prolungato di quel pomeriggio per salutarmi (in fondo avevamo vissuto tanti anni assieme).


Solo. Ero rimasto solo.


La brutalità della morte reca anche con sé, purtroppo, una sequenza di problemi pratici che relegano il dolore ad altri momenti, differendone l’elaborazione. E assieme ai problemi pratici, che sono poi segnatamente economici (la cassa integrazione, per esempio, continua) si aggiungono le agghiaccianti preoccupazioni per il futuro. Con la vita, la mia vita, la vita di chi è rimasto, che approda ad una rivoluzione epocale con la quasi certezza - a 50 anni - di ricominciare tutto privo di motivazioni, spente dall’allentamento prima e dalla diluizione poi di quella tensione emotiva (sebbene ammantata in buona parte d’ipocrisia) che mi aveva sorretto nelle ore successive.


Una parentesi troppo bella per essere vera e dunque irripetibile (temo) con una presenza momentanea accanto, sembrava confortare e rinvigorire l’agire quotidiano.


Poi l’apertura della busta fatale, otto giorni fa, che conteneva le ultime volontà assieme all’esatta e spietata sensazione che da lì si sono generati i germi del cambiamento e della mutazione radicale di comportamenti, dando l’addio alle piccole e quiete certezze del quotidiano. Lavoro da trovare che sia stabile e non precario, per fronteggiare una sopravvivenza difficile.


E il tempo che incalza, stravolge, soffoca e scandisce ritmi tanto diversi quanto inquietanti.