Oggi, 12 marzo, si celebra la difesa della Costituzione che è rimasta, ormai, una delle poche, ma solide certezze, cui ancorarsi per non essere travolti dai liquami di demenzialità, soprattutto legaiola, che scorrono lungo l'intero territorio italiano, aprendo quindi la strada all'eversione dell'associazione a delinquere definita “governo”.
Capita così che, volendo celebrare a modo mio, trovi un commento di notevole spessore culturale scritto da Salvatore Settis e pubblicato da “la Repubblica” il 24 agosto scorso. Il periodo mi aveva impedito di apprezzarlo e mi rifaccio. Ma non basta, perché come le ciliegie, un pezzo tira l'altro e quelli citati dall'illustre professore vanno ad incrementare questo post.
L'argomento, quello dei beni comuni che stanno provando a sottrarci con il falsissimo pretesto di un presunto federalismo, è di quelli molto seri ed importanti. Ne scrivono ottimamente sia Rodotà che Galli Della Loggia, confermando così che anche in estate l'intelligenza non va in ferie e la cultura, questa sconosciuta nelle osterie legaiole, tutte un fumare di peti e rutti, va di gran moda sempre. Ho letto tutto con piacere.
La Costituzione e i beni pubblici
SALVATORE SETTIS
Nel duro scontro fra interessi privati e bene comune dei cittadini, c'è un dato da cui partire: il più robusto schieramento italiano è il "partito della Costituzione". Lo mostra l'eloquenza dei numeri: nelle elezioni del 2008, il maggior partito italiano (il Pdl) ebbe 13.629.464 voti, pari al 37,3% dei voti espressi; nel referendum del 2006, la riforma costituzionale varata dal centro-destra fu bocciata da 15.791.293 italiani (il 61,3% dei voti espressi). La percentuale dei votanti fu assai diversa nei due casi (52,3% nel 2006, 80,4% nel 2008), ma quel che conta (anzi, conta ancor di più) è il dato in cifra assoluta: a difesa della Costituzione, contro una riforma che somiglia anche troppo all'insussistente "Costituzione materiale" invocata dall'onorevole Bianconi contro il Capo dello Stato, votarono allora oltre due milioni di cittadini più degli elettori Pdl di due anni dopo. Come ha osservato il Presidente emerito Scalfaro, i vincitori del referendum del 2006 non seppero trarre le conseguenze di quel risultato, ma è oggi il momento di ricordarsene. Oggi, mentre il Paese è in preda a una schizofrenia di cui gli osservatori stranieri sembrano accorgersi molto più di noi.
Il tema dei beni pubblici, che Rodotà ha affrontato in queste pagine il 10 agosto, è un' ottima cartina di tornasole: nella stessa Italia nascono oggi da un lato avanzatissime proposte, dall'altro sgangherate devoluzioni. L' Accademia dei Lincei ha appena pubblicato un bel volume (a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà) sui Beni pubblici dal governo democratico dell'economia alla riforma del Codice Civile. Sono gli atti di un convegno (aprile 2008) sui lavori della Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, che ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008. Dato che lo statuto dei beni pubblici è «disperso in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice Civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali», quella Commissione provò a metter ordine, usando come guida i valori della Costituzione, poiché «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa» (le citazioni da U. Mattei). Sono state così individuate alcune categorie fondamentali, a cominciare dai beni comuni, «che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata, per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo» e dai beni ad appartenenza pubblica necessaria, «che appartengono alla stessa essenza di uno Stato sovrano». Vi sono poi i beni pubblici sociali, «fortemente finalizzati, attraverso un vincolo di scopo, agli aspetti misti e sociali del nostro disegno costituzionale», e i beni pubblici fruttiferi, sostanzialmente disponibili, ma con «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per così dire "liquido" di tutti noi». Tutti i cittadini italiani «sono titolari pro quota di beni pubblici», onde eventuali alienazioni comportano garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà.
In luogo di questa concezione dei beni pubblici, che rispetta la Costituzione e l' interesse dei cittadini come collettività e come singoli, si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l' etichetta di "federalismo demaniale" borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza (e di ciascuno di noi), e lo ridistribuisce a Regioni ed enti locali, utilizzandolo come una sorta di salvadanaio di terracotta, da fare a pezzi per prelevarne ogni spicciolo e gettarlo al vento. In base alla legge Calderoli, lo Stato cede 19.005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre tre miliardi. Passano a Comuni, Province e Regioni beni del demanio idrico e marittimo, caserme e aeroporti, catene montuose, e così via. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita. Un'altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, e cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata (purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente). Si capisce così come mai il monte Cristallo sia stato valutato 259.459 euro, e le intere Dolomiti 866.294 euro (Il Gazzettino, 4 agosto 2010): perché sono destinate a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore "equivalente" onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700.000 italiani d' ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della I guerra mondiale.
Il "federalismo demaniale" è stato reclamizzato dal presidente della Regione Veneto Zaia come la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone: un argomento che ha convinto l' "opposizione", tanto è vero che l'Idv ha votato a favore, il Pd si è astenuto. Tanta concordia non è dovuta a distrazione: evidentemente non solo a destra si condivide il disegno di utilizzare i beni pubblici, come dice la legge Calderoli, «anche alienandoli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale », cioè non di tutti gli Italiani, nel cui portafoglio proprietario quei beni erano fino a ieri. "Produrre ricchezza" vuol dire svendere, visto lo stato disastrato delle finanze locali (la manovra Tremonti 2010 ha tagliato a Regioni ed enti locali altri 15 miliardi nel triennio), e visto che secondo leggi recenti i Comuni devono allegare al bilancio ogni anno un «piano di alienazioni immobiliari». Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia (Corriere della Sera, 2 agosto), «fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più. Dobbiamo aspettarci la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione». Contro queste ed altre schizofrenie che viviamo, contro quello che si scrive "federalismo" e si legge "secessione", contro la strategia perdente di inseguire la Lega sul suo terreno, la Costituzione è il massimo baluardo. La Costituzione scritta, quella che quasi sedici milioni di italiani difesero nel 2006 col loro voto. La sola Costituzione esistente, quella di cui il Presidente della Repubblica è e deve essere garante supremo.
(24 agosto 2010)
Se il mondo perde il senso del bene comune
STEFANO RODOTÀ
Pochi giorni fa l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l'accesso all'acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L' anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all'accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l' acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).
Nell'ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni - dall'acqua all'aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali - al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.
Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell'acqua; in Italia la questione dell'acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.
Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l'inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall'Unesco patrimonio dell'umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell'argomento, usato per l'acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l' attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell'interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell'umanità".
Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l'acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l'argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l'oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l'accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell'irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall'innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l'effetto ben può essere quello di "un' erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo.
In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s'erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell'estrema individualizzazione degli interessi, s' incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell'uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze.
Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell'eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell'accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d' ogni persona.
Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev'essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell'articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata.
Qui è l'ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.
(10 agosto 2010)
A decidere che cosa fare di Dolomiti, fiumi e isole saranno i consigli comunali
Italiani senza Italia
Ci si accorgerà che il potere centrale dà maggiori garanzie di onestà ed efficacia
Ernesto Galli Della Loggia
Tra le tante anomalie italiane c'è anche quella che siamo riusciti a inventarci una destra di governo che salvo lodevoli eccezioni si mostra ostile, o al più indifferente, alla dimensione dello Stato nazionale. A cominciare dalla sua componente più essenziale e concreta: il territorio. Intendo il territorio nei suoi aspetti generali riguardanti il paesaggio, cioè l' insieme dei caratteri geomorfologici, i fiumi, le coste, le montagne della Penisola. Fino a oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più.
Fino a oggi un siciliano poteva legittimamente essere convinto che le Dolomiti erano per così dire anche sue, così come un piemontese era autorizzato a credere la stessa cosa, chessò, delle pendici dell'Etna o dell'Isola delle Femmine. Mi piace credere che la proclamazione da parte della nostra Carta costituzionale della Repubblica come «una e indivisibile» significasse anche questo: che tutta l'Italia era di tutti gli italiani. Così come di tutti erano gli edifici di pubblica utilità costruiti sul suo suolo (porti, fari, caserme, ecc.). Demanio significava fino a oggi esattamente questo tipo di proprietà, idealmente indivisa. Della quale, naturalmente, poteva disporre solo lo Stato, cioè solo il potere politico centrale, alla cui definizione concorrono per l' appunto tutti i cittadini. Ma ormai tutto ciò, come dicevo, sta per appartenere al passato. Ormai, in base al federalismo fiscale - che ha fatto l' altro giorno un altro passo avanti con la pubblicazione dell'elenco degli oltre dodicimila «luoghi» dismessi dallo Stato - le Dolomiti, i fari, pezzi della collina di Superga, tratti di fiumi e di torrenti, isole e isolotti, interi tratti di coste e tutto ciò che vi è edificato sopra sono sul punto di uscire dall'ambito dell'amministrazione statale per passare agli enti locali.
A decidere dunque che cosa farne - se vendere questo o quel pezzo di montagna a un privato per costruirvi una discoteca o un grande albergo, se affittare le rive di un fiume a un club del golf, se invece aprirvi una cava di ghiaia e così via - saranno d' ora in poi i consigli comunali, provinciali o regionali. O meglio: le rispettive giunte e assessorati. Sappiamo per esperienza che cosa allora dobbiamo aspettarci: la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione. Come accaduto altre mille volte in passato, infatti, élite politiche e amministrazioni locali - anche al Nord, con buona pace dei leghisti - faranno a gara nello stravolgere e distruggere il nuovo patrimonio acquisito sotto la spinta coalizzata degli interessi privati forti e insieme delle minute richieste dei loro elettori, delle invincibili tentazioni tangentizie o magari, nel caso migliore, dei progetti più strampalati.
Ci si accorgerà a quel punto di come nei fatti, in questo come in molti altri campi, il potere centrale e le sue amministrazioni diano ben maggiori garanzie d'onestà e d'efficacia di qualunque altro: sia perché comunque gestiti da un personale più capace e selezionato, sia perché più sottoposti al controllo dei media e perciò dell'opinione pubblica. Ma a quel punto sarà troppo tardi. A quel punto, infatti, l' Italia non ci sarà davvero più perché anche dal punto di vista fisico essa sarà virtualmente sparita. E insieme saranno svaniti i valori ambientali e culturali che per secoli essa ha rappresentato.
(2 agosto 2010)