sabato 12 marzo 2011

Di sana e robusta Costituzione


Oggi, 12 marzo, si celebra la difesa della Costituzione che è rimasta, ormai, una delle poche, ma solide certezze, cui ancorarsi per non essere travolti dai liquami di demenzialità, soprattutto legaiola, che scorrono lungo l'intero territorio italiano, aprendo quindi la strada all'eversione dell'associazione a delinquere definita “governo”.

Capita così che, volendo celebrare a modo mio, trovi un commento di notevole spessore culturale scritto da Salvatore Settis e pubblicato da “la Repubblica” il 24 agosto scorso. Il periodo mi aveva impedito di apprezzarlo e mi rifaccio. Ma non basta, perché come le ciliegie, un pezzo tira l'altro e quelli citati dall'illustre professore vanno ad incrementare questo post.

L'argomento, quello dei beni comuni che stanno provando a sottrarci con il falsissimo pretesto di un presunto federalismo, è di quelli molto seri ed importanti. Ne scrivono ottimamente sia Rodotà che Galli Della Loggia, confermando così che anche in estate l'intelligenza non va in ferie e la cultura, questa sconosciuta nelle osterie legaiole, tutte un fumare di peti e rutti, va di gran moda sempre. Ho letto tutto con piacere.



 



La Costituzione e i beni pubblici



SALVATORE SETTIS



Nel duro scontro fra interessi privati e bene comune dei cittadini, c'è un dato da cui partire: il più robusto schieramento italiano è il "partito della Costituzione". Lo mostra l'eloquenza dei numeri: nelle elezioni del 2008, il maggior partito italiano (il Pdl) ebbe 13.629.464 voti, pari al 37,3% dei voti espressi; nel referendum del 2006, la riforma costituzionale varata dal centro-destra fu bocciata da 15.791.293 italiani (il 61,3% dei voti espressi). La percentuale dei votanti fu assai diversa nei due casi (52,3% nel 2006, 80,4% nel 2008), ma quel che conta (anzi, conta ancor di più) è il dato in cifra assoluta: a difesa della Costituzione, contro una riforma che somiglia anche troppo all'insussistente "Costituzione materiale" invocata dall'onorevole Bianconi contro il Capo dello Stato, votarono allora oltre due milioni di cittadini più degli elettori Pdl di due anni dopo. Come ha osservato il Presidente emerito Scalfaro, i vincitori del referendum del 2006 non seppero trarre le conseguenze di quel risultato, ma è oggi il momento di ricordarsene. Oggi, mentre il Paese è in preda a una schizofrenia di cui gli osservatori stranieri sembrano accorgersi molto più di noi.

Il tema dei beni pubblici, che Rodotà ha affrontato in queste pagine il 10 agosto, è un' ottima cartina di tornasole: nella stessa Italia nascono oggi da un lato avanzatissime proposte, dall'altro sgangherate devoluzioni. L' Accademia dei Lincei ha appena pubblicato un bel volume (a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà) sui
Beni pubblici dal governo democratico dell'economia alla riforma del Codice Civile. Sono gli atti di un convegno (aprile 2008) sui lavori della Commissione Rodotà sui Beni Pubblici, che ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008. Dato che lo statuto dei beni pubblici è «disperso in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice Civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali», quella Commissione provò a metter ordine, usando come guida i valori della Costituzione, poiché «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa» (le citazioni da U. Mattei). Sono state così individuate alcune categorie fondamentali, a cominciare dai beni comuni, «che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata, per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo» e dai beni ad appartenenza pubblica necessaria, «che appartengono alla stessa essenza di uno Stato sovrano». Vi sono poi i beni pubblici sociali, «fortemente finalizzati, attraverso un vincolo di scopo, agli aspetti misti e sociali del nostro disegno costituzionale», e i beni pubblici fruttiferi, sostanzialmente disponibili, ma con «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per così dire "liquido" di tutti noi». Tutti i cittadini italiani «sono titolari pro quota di beni pubblici», onde eventuali alienazioni comportano garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà.

In luogo di questa concezione dei beni pubblici, che rispetta la Costituzione e l' interesse dei cittadini come collettività e come singoli, si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l' etichetta di "federalismo demaniale" borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza (e di ciascuno di noi), e lo ridistribuisce a Regioni ed enti locali, utilizzandolo come una sorta di salvadanaio di terracotta, da fare a pezzi per prelevarne ogni spicciolo e gettarlo al vento. In base alla legge Calderoli, lo Stato cede 19.005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre tre miliardi. Passano a Comuni, Province e Regioni beni del demanio idrico e marittimo, caserme e aeroporti, catene montuose, e così via. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita. Un'altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, e cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata (purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente). Si capisce così come mai il monte Cristallo sia stato valutato 259.459 euro, e le intere Dolomiti 866.294 euro (
Il Gazzettino, 4 agosto 2010): perché sono destinate a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore "equivalente" onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700.000 italiani d' ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della I guerra mondiale.

Il "federalismo demaniale" è stato reclamizzato dal presidente della Regione Veneto Zaia come la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone: un argomento che ha convinto l' "opposizione", tanto è vero che l'Idv ha votato a favore, il Pd si è astenuto. Tanta concordia non è dovuta a distrazione: evidentemente non solo a destra si condivide il disegno di utilizzare i beni pubblici, come dice la legge Calderoli, «anche alienandoli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale », cioè non di tutti gli Italiani, nel cui portafoglio proprietario quei beni erano fino a ieri. "Produrre ricchezza" vuol dire svendere, visto lo stato disastrato delle finanze locali (la manovra Tremonti 2010 ha tagliato a Regioni ed enti locali altri 15 miliardi nel triennio), e visto che secondo leggi recenti i Comuni devono allegare al bilancio ogni anno un «piano di alienazioni immobiliari». Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia (
Corriere della Sera, 2 agosto), «fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più. Dobbiamo aspettarci la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione». Contro queste ed altre schizofrenie che viviamo, contro quello che si scrive "federalismo" e si legge "secessione", contro la strategia perdente di inseguire la Lega sul suo terreno, la Costituzione è il massimo baluardo. La Costituzione scritta, quella che quasi sedici milioni di italiani difesero nel 2006 col loro voto. La sola Costituzione esistente, quella di cui il Presidente della Repubblica è e deve essere garante supremo.

(24 agosto 2010)







Se il mondo perde il senso del bene comune



STEFANO RODOTÀ



Pochi giorni fa l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l'accesso all'acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L' anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all'accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l' acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).

Nell'ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del
Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni - dall'acqua all'aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali - al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.

Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell'acqua; in Italia la questione dell'acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.

Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l'inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall'Unesco patrimonio dell'umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell'argomento, usato per l'acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l' attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell'interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell'umanità".

Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l'acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l'argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l'oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l'accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?

Così i beni comuni ci parlano dell'irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall'innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l'effetto ben può essere quello di "un' erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo.

In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il
bene comune, di cui s'erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell'estrema individualizzazione degli interessi, s' incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell'uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze.

Il
futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell'eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell'accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d' ogni persona.

Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev'essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell'articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata.

Qui è l'ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.

(
10 agosto 2010)





 



A decidere che cosa fare di Dolomiti, fiumi e isole saranno i consigli comunali



Italiani senza Italia



Ci si accorgerà che il potere centrale dà maggiori garanzie di onestà ed efficacia



Ernesto Galli Della Loggia



Tra le tante anomalie italiane c'è anche quella che siamo riusciti a inventarci una destra di governo che salvo lodevoli eccezioni si mostra ostile, o al più indifferente, alla dimensione dello Stato nazionale. A cominciare dalla sua componente più essenziale e concreta: il territorio. Intendo il territorio nei suoi aspetti generali riguardanti il paesaggio, cioè l' insieme dei caratteri geomorfologici, i fiumi, le coste, le montagne della Penisola. Fino a oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più.

Fino a oggi un siciliano poteva legittimamente essere convinto che le Dolomiti erano per così dire anche sue, così come un piemontese era autorizzato a credere la stessa cosa, chessò, delle pendici dell'Etna o dell'Isola delle Femmine. Mi piace credere che la proclamazione da parte della nostra Carta costituzionale della Repubblica come «una e indivisibile» significasse anche questo: che tutta l'Italia era di tutti gli italiani. Così come di tutti erano gli edifici di pubblica utilità costruiti sul suo suolo (porti, fari, caserme, ecc.). Demanio significava fino a oggi esattamente questo tipo di proprietà, idealmente indivisa. Della quale, naturalmente, poteva disporre solo lo Stato, cioè solo il potere politico centrale, alla cui definizione concorrono per l' appunto tutti i cittadini. Ma ormai tutto ciò, come dicevo, sta per appartenere al passato. Ormai, in base al federalismo fiscale - che ha fatto l' altro giorno un altro passo avanti con la pubblicazione dell'elenco degli oltre dodicimila «luoghi» dismessi dallo Stato - le Dolomiti, i fari, pezzi della collina di Superga, tratti di fiumi e di torrenti, isole e isolotti, interi tratti di coste e tutto ciò che vi è edificato sopra sono sul punto di uscire dall'ambito dell'amministrazione statale per passare agli enti locali.

A decidere dunque che cosa farne - se vendere questo o quel pezzo di montagna a un privato per costruirvi una discoteca o un grande albergo, se affittare le rive di un fiume a un club del golf, se invece aprirvi una cava di ghiaia e così via - saranno d' ora in poi i consigli comunali, provinciali o regionali. O meglio: le rispettive giunte e assessorati. Sappiamo per esperienza che cosa allora dobbiamo aspettarci: la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione. Come accaduto altre mille volte in passato, infatti, élite politiche e amministrazioni locali - anche al Nord, con buona pace dei leghisti - faranno a gara nello stravolgere e distruggere il nuovo patrimonio acquisito sotto la spinta coalizzata degli interessi privati forti e insieme delle minute richieste dei loro elettori, delle invincibili tentazioni tangentizie o magari, nel caso migliore, dei progetti più strampalati.

Ci si accorgerà a quel punto di come nei fatti, in questo come in molti altri campi, il potere centrale e le sue amministrazioni diano ben maggiori garanzie d'onestà e d'efficacia di qualunque altro: sia perché comunque gestiti da un personale più capace e selezionato, sia perché più sottoposti al controllo dei media e perciò dell'opinione pubblica. Ma a quel punto sarà troppo tardi. A quel punto, infatti, l' Italia non ci sarà davvero più perché anche dal punto di vista fisico essa sarà virtualmente sparita. E insieme saranno svaniti i valori ambientali e culturali che per secoli essa ha rappresentato.

(2 agosto 2010)



 



 



 










lunedì 7 marzo 2011

I gheddasconi



Il compagno di merende del papi spara sul suo popolo e ciò provoca ripugnanza, assieme all'altrettanto repellente disgusto per l'agevole voltafaccia in cui si sono distinti il papi, naturalmente, con l'ineffabile ed impalpabile ministro degli Esteri che prova a fare la faccia cattiva. C'è evidentemente qualcosa che mi sfugge, c'è qualcosa che non riesco a capire. Forse è stato riconosciuto l'errore commesso con la firma di quello sciagurato trattato “di amicizia, partenariato e cooperazione con la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista” ? Oppure si è condannato apertamente quel sanguinario regime? L'opposizione ha tappezzato di manifesti con il servile baciamano del papi la penisola? Sarebbe risultato più producente di un'inutile raccolta di firme.

Ciò che però maggiormente mi irrita è la ritrovata verginità dei complici del buffone libico, favorita dall'accondiscendenza di chi invece avrebbe dovuto (e potuto) inchiodarli spietatamente alle gravissime responsabilità. Ma in nome di un'assurda realpolitik non si insiste più di tanto e il papi ne esce paradossalmente rafforzato.



Stralcio da un articolo de “la Repubblica” del 30 agosto 2010, non un secolo fa.



 



LA VISITA



 



Gheddafi, spettacolo e polemiche



Frattini: "Critiche senza senso"



 



Incontro di mezz'ora tra il Colonnello e Berlusconi. Il ministro degli Esteri: "Chi critica non conosce politica e interessi d'Italia". La Padania titola: "L'Europa sia cristiana". Seconda lezione a 200 ragazze: "L'Islam è l'ultima religione"



 



ROMA - (…) Qui, prima di assistere al Carosello storico dell'Arma del reggimento dei carabinieri a cavallo, il leader libico ha preso la parola per un lungo intervento: ''Saluto il grande coraggio del mio grande amico Silvio Berlusconi", ha detto, ringraziando l'Italia per la condanna del colonialismo e per il coraggio dimostrato ammettendo gli errori del passato. "Non vogliamo commettere lo stesso errore un'altra volta - ha detto ancora - vogliamo amicizia e collaborazione e che il Mar Mediterraneo sia un mare di pace". Gheddafi ha anche parlato del problema dell'immigrazione: ''Per fermare l'immigrazione clandestina - ha concluso il leader libico - la Libia, sostenuta dall'Italia, chiede all'Europa, che un domani, davanti a milioni di immigrati che avanzano potrebbe diventare Africa, almeno 5 miliardi di euro all'anno''.



Prima di Gheddafi, Silvio Berlusconi aveva rivolto un breve saluto al leader libico, ricordando che "tutti dovrebbero rallegrarsi" della nuova amicizia tra Italia e Libia sancita dal Trattato di Bengasi e sottolineando che chi critica i rapporti di amicizia tra lui e Muammar Gheddafi "appartiene al passato, è prigioniero di schemi superati".



(…) Dopo i festeggiamenti, una cena offerta da Berlusconi al leader libico. Con la presenza di tanti i big dell'economia al ricevimento.



Nel tardo pomeriggio, in un incontro durato circa mezz'ora, il presidente del Consiglio e il leader libico avevano affrontato temi come immigrazione, infrastrutture ed energia. Un incontro che si è tenuto nella tenda del leader libico e a cui ha partecipato anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini. L'immancabile tenda che accompagna il Colonnello in tutti i suoi viaggi è stata montata in giornata nella residenza dell'ambasciatore. ''I colloqui sono andati bene. Abbiamo parlato anche di economia internazionale e di come uscire dalla crisi'', ha detto Frattini al termine dell'incontro. Il ministro degli Esteri ha criticato, poi, le polemiche sollevate dall'opposizione per la visita del leader libico: "È gente che non conosce affatto né la politica estera né gli interessi dell'Italia - ha detto -. Gheddafi è un leader importante per tutto il Medio Oriente, e noi - ha aggiunto Frattini - da questa opposizione non ci aspettiamo niente". (…)



 



Mi chiedo, ingenuamente, come mai non sia stata posta alcuna domanda a questi avventurieri su tali dissennate dichiarazioni, eppure basterebbe così poco nell'era del web 2.0. Ma visto che è questa anche un'era di smemoratezze ecco un ottimo commento di Francesco Merlo, sempre su “la Repubblica” del 30 agosto 2010.



 



Gheddafi, un circo che ci umilia



 



Nessun'altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell'eccesso, nella vanità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare



di FRANCESCO MERLO



ANCHE ieri c'era il picchetto in alta uniforme ai piedi della scaletta dalla quale sono scese due amazzoni nerborute e in mezzo a loro, come nell'avanspettacolo, l'omino tozzo e inadeguato, la caricatura del feroce Saladino. Scortato appunto da massaie rurali nel ruolo di mammifere in assetto di guerra. E va bene che alla fine ci si abitua a tutto, anche alla pagliacciata islamico-beduina che Gheddafi mette in scena ogni volta che viene a Roma, ma ancora ci umilia e davvero ci fa soffrire vedere quel reparto d'onore e sentire quelle fanfare patriottiche e osservare il nostro povero ministro degli Esteri ridotto al ruolo del servo di scena che si aggira tra le quinte, pronto ad aggiustare i pennacchi ai cavalli berberi o a slacciare un bottone alle pettorute o a dare l'ultimo tocco di brillantina al primo attore.



È vero che ormai Roma, specie quella sonnolente di fine estate, accoglie Gheddafi come uno spettacolo del Sistina, con i trecento puledri che sembrano selezionati da Garinei e Giovannini, la tenda, la grottesca auto bianca, le divise che ricordano i vigili urbani azzimati a festa, e tutta la solita paccottiglia sempre uguale e sempre più noiosa ma, proprio perché ripetuta e consacrata, sempre più umiliante per il Paese, per i nostri carabinieri, per le istituzioni e per le grandi aziende, private e pubbliche, che pur legittimamente vogliono fare i loro affari con la Libia.



Nessun'altra diplomazia occidentale tollera e incoraggia gli eccessi pittoreschi di un dittatorello e degrada la propria capitale a circo. Ci dispiace - e lo diciamo sinceramente - anche per il presidente del Consiglio, la cui maschera italiana si sovrappone ormai a quella libica, indistinguibili nel pittoresco, nell'eccesso, nella vanità, nel vagheggiare l'epica dell'immortalità, nel farsi soggiogare dalle donne che pensano di dominare.



Di nuovo ieri Gheddafi si è esibito davanti a 500 ragazze, reclutate da un'agenzia di hostess, che hanno ascoltato i suoi gorgoglii gutturali tradotti da un interprete, le solite banalità sulla teologia e sulla libertà delle donne in Libia, il Corano regalato proprio come Berlusconi regala "L'amore vince sempre sull'odio", quel libro agiografico e sepolcrale edito da Mondadori. È fuffa senza interesse anche per gli islamici ma è roba confezionata per andare in onda nella televisione di Tripoli. Il capotribù vuol far credere alla sua gente di avere sedotto, nientemeno, le donne italiane e di averle folgorate recitando il messaggio del profeta. Addirittura, con la regia dell'amico Berlusconi, tre di queste donne ieri si sono subito convertite, a gloria della mascolinità petrolchimica libica: "Italiane, convertitevi. Venite a Tripoli e sposate i miei uomini".



E di nuovo ci mortifica tutta questa organizzazione, il cerimoniale approntato dalla nostra diplomazia, con Gheddafi serio ed assorto che suggella la fulminea conversione di tre italiane libere e belle: un gesto di compunzione, gli occhi chiusi per un attimo, il capo piegato come un officiante sul calice. "L'Islam deve diventare la religione di tutta l'Europa" ha osato dire nella capitale del cattolicesimo, mentre l'Europa (con l'America) si mobilita per salvare la vita di una donna che rischia la lapidazione per avere fatto un figlio fuori dal matrimonio. Certo, l'Islam non è tutto fanatismo ma nello sguardo di Gheddafi c'è condensata la sua lunga vita di dittatore, di stratega del terrorismo, di tiranno che dal 1° settembre del 1969 opprime il suo popolo.



Ebbene, è a lui che oggi Berlusconi di nuovo bacerà la mano, come ha già fatto a Tripoli. Berlusconi, lasciandosi andare con i suoi amici fidati, ha più volte detto di invidiare Muammar perché comanda e non ha lacci, non combatte con il giornalismo del proprio paese, non ha bisogno di fare leggi ad personam ma gli basta un solo editto tribale, non ha né Fini né Napolitano, non ha neppure bisogno di pagare le donne... È vero che gli esperti di Orientalistica sostengono che la tribù in Libia è matriarcale e che dunque la moglie di Gheddafi sarebbe la generalessa del colonnello, ma questo Berlusconi non lo sa, la sua Orientalistica è ferma a quella dell'avanspettacolo, al revival di Petrolini: "Vieni con Abdul che ti faccio vedere il tukul".



E infatti ogni volta che Berlusconi va a Tripoli Gheddafi fa di tutto per stupirlo con gli effetti speciali del potere assoluto, gli fa indossare la galabìa e lo fa assistere alle parate militari delle amazzoni, organizza il caravanserraglio di Mercedes piene di farina, orzo e datteri da distribuire agli affamati recitando il ruolo del salvatore, proprio come Berlusconi all'Aquila... E ha pure imposto nei passaporti libici la foto di Berlusconi. Se lo porta nel deserto di notte per mostrargli la magia del freddo glaciale, tutti e due ad aspettare l'alba e il sole che torni ad arroventare la tenda. E ogni volta alla tv libica il viso di Berlusconi diventa in dissolvenza il viso di Gheddafi, e va in onda Berlusconi contrito nel museo degli orrori commessi dagli italiani, e c'è sempre il solito Frattini accovacciato fuori dalla tenda ad aspettare, aspettare, aspettare. E poi il tramonto, la luna...



Gheddafi a Roma fa quello che vuole non soltanto in cambio delle galere e dei campi di concentramento dove la polizia libica trattiene gli africani che vorrebbero fuggire verso l'Italia, e non solo perché i due fanno affari privati, come da tempo sospetta la stampa internazionale, e ora anche italiana. Il punto è che Berlusconi gli mette a disposizione tutto quello di cui ha bisogno l'eccentricità beduina perché con Gheddafi ha un patto antropologico. È una somiglianza tra capi che la storia conosce già, sono identità che finiscono con il confondersi: Trujllo e Franco, Pinochet e Videla, Ceausescu ed Enver Hoxha, Pol Pot e Kim il Sung... Non è l'ideologia a renderli somiglianti ma l'idea del potere, quello stesso che oggi lega Berlusconi e Gheddafi, Berlusconi e Chavez, Berlusconi e Putin. Ecco cosa offende e degrada l'Italia: l'Asse internazionale della Satrapia.



(30 agosto 2010)



 



Il giorno dopo altre dichiarazioni, altre ridicole ostentazioni di superiorità di chi conosce, eccome, la politica estera.



 



Gheddafi, messaggio alla Ue “5 miliardi per bloccare gli immigrati



 



ROMA - (...) Ma prima del gran finale, il saluto di Mohammar Gheddafi a Silvio Berlusconi, «al suo coraggio, e al coraggioso popolo italiano che ha saputo riconoscere gli errori del passato, ha chiesto scusa alla Libia per gli errori del fascismo, non dell'Italia attuale». (…) Sono le dieci di sera quando davanti ai carabinieri schierati nella caserma di Tor di Quinto arrivano i discorsi ufficiali. Inizia Berlusconi, difende la sua linea, quella dell'accordo totale con Tripoli: «La firma dell' accordo del 2008 ha segnato un momento storico per i nostri due Paesi, abbiamo inaugurato una nuova era fra Italia e Libia, chiusa una ferita». Il premier ricorda che nel pomeriggio con Gheddafi ha inaugurato una mostra sul passato fra Italia e Libia. Un' esposizione in cui ci sono anche foto delle violenze italiane durante l'occupazione: «È significativo che la celebrazione di questa sera si tenga qui, in una caserma dei carabinieri», dice il premier, «significa che davvero abbiamo voltato pagina, che il passato è consegnato agli archivi e ai libri fotografici». Berlusconi elenca poi i fatti che sono sull'altro piatto della bilancia dell' accordo con cui l' Italia ha chiesto scusa a Tripoli e si impegna a pagare 5 miliardi di dollari in 25 anni: «È stato approvato il tracciato dell' autostrada costiera di 1700 chilometri che verrà realizzata da imprese italiane. Grazie alla Libia è stato possibile contrastare la tratta dei clandestini fra Africa e Europa che era in mano alla criminalità organizzata: chi non lo capisce appartiene al passato, noi vogliamo guardare al futuro». Prima di perdersi nelle evoluzioni di un discorso interminabile, Gheddafi esordisce con un ringraziamento forte agli italiani: «Vi ringrazio cari amici italiani per il vostro coraggio, avete riconosciuto gli errori del passato. L' Italia di oggi è un Paese civile, è l'Italia che ha abbattuto il regime fascista e giustiziato Mussolini, mentre Hitler è stato costretto al suicidio e non è stato ucciso dal suo popolo. Il popolo libico dice che deve essere l' Italia ad avere un seggio alle Nazioni Unite, non altri Paesi». Poi il passaggio sull'Europa che deve pagare per fermare l' immigrazione: «La Libia, sostenuta dall'Italia, chiede all' Europa almeno 5 miliardi di euro all'anno: è nell'interesse dell' Europa, che altrimenti un domani, davanti a milioni di immigrati che avanzano, potrebbe diventare Africa». Ultimo passaggio della geopolitica gheddafiana, quello sul Mediterraneo mare di pace, «da cui devono uscire le flotte dei Paesi non rivieraschi», ovvero la flotta americana.



Nel pomeriggio, in privato, Berlusconi aveva anticipato a Gheddafi tutti i sensi della sua amicizia: nella mezz'ora con al fianco Franco Frattini, il presidente del Consiglio aveva affrontato il tema della crisi economica mondiale, quello della riforma dell'Onu (che poi Gheddafi ha ripreso nel discorso ai carabinieri), l'impegno affinché Italia e Libia facciano qualcosa insieme in Africa e - unico tema nazionale - il contratto della SelexFinmeccanica per un sistema di controllo delle frontiere meridionali della Libia. (…)



VINCENZO NIGRO



(31 agosto 2010)



 



Ma il pezzo forte è quest'ultimo, le ragioni del portafoglio, che hanno avviluppato in un legame di amorosi sensi i due compagni di merende. E' ovvio che il papi non poteva disturbarlo, così come è altrettanto ovvio che gli affari precedono qualunque valutazione etica e persino di opportunità.



Ribadisco lo schifo per i parametri che definiscono il mondo, la nausea per i vari protagonisti al peggio delle loro infamie, ma che almeno cadesse l'ipocrisia, si evitassero i miseri toni retorici e, soprattutto, le disinvolte e disinibite piroette con cui, come per magia, ci si affranca dalle amicizie interessate che stanno declinando, per predicare poi coerenza, il tutto con assoluta imperturbabilità. Certo che se Gheddafi dovesse restare al potere...



 



Un business da 40 miliardi per la Berlusconi-Gheddafi Spa



 



Grazie agli investimenti di Tripoli, il Cavaliere si è consolidato nei salotti buoni della finanza italiana. Il Colonnello è uscito dal suo storico isolamento ed ora società del suo Paese accedono alla City di Londra



di ETTORE LIVINI



Non solo tende beduine, caroselli di cavalli berberi e sfilate di soldatesse-amazzoni. La Berlusconi-Gheddafi Spa, a due anni dalla fondazione, è uscita da tempo dal folklore. L'oggetto sociale d'esordio - la chiusura delle ferite del colonialismo - è stato rapidamente archiviato all'atto della firma del Trattato d'amicizia bilaterale nel 2008.

L'Italia ha garantito 5 miliardi in 20 anni alla Libia e Tripoli ha bloccato (a modo suo) il flusso di immigrati verso la Sicilia. Poi - snobbando i dubbi degli 007 Usa e dei "parrucconi" come Freedom House che considerano il Paese africano una delle dieci peggiori dittature al mondo - sono cominciati i veri affari. Un pirotecnico giro d'operazioni gestite in prima persona dai due leader e da un piccolo esercito di fedelissimi ("gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca", dice il Colonnello) che ha già mosso in 24 mesi quasi 40 miliardi di euro e che rischia di cambiare - non è difficile immaginare in che direzione - gli equilibri della finanza e dell'industria di casa nostra.



La premiata ditta Gheddasconi ha una caratteristica tutta sua. Gli affari diretti tra i due sono pochissimi. Anzi, solo uno: Fininvest e Lafitrade, uno dei bracci finanziari di Gheddafi, hanno entrambe una quota in Quinta Communications, la società di produzione cinematografica di Tarak Ben Ammar, l'imprenditore franco-tunisino tra i principali fautori dell'asse Arcore-Tripoli. Il grosso del business si fa per altre strade. Il Colonnello ha messo sul piatto un po' del suo tesoretto personale (i 65 miliardi di liquidità di petrodollari accumulati negli ultimi anni). Il Cavaliere gli ha spalancato le porte dell'Italia Spa, sdoganando la Libia sui mercati internazionali ma pilotandone gli investimenti ad uso e consumo dei propri interessi, politici e imprenditoriali, nel Belpaese.

In due anni Gheddafi è diventato il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) con una quota vicina al 7% (valore quasi 2,5 miliardi) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari. Le finanziarie di Tripoli hanno studiato il dossier Telecom, puntano a Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali. Palazzo Grazioli, nell'ambito del do ut des di questa realpolitik mediterranea, ha dato l'ok all'ingresso di Tripoli con l'1% nell'Eni ("puntiamo al 5-10%", ha precisato l'ambasciatore Hafed Gaddur). E la Libia ha allungato di 25 anni le concessioni del cane a sei zampe in cambio di 28 miliardi di investimenti.



Il Cavaliere tira le fila, consiglia e gongola. L'ingresso del Colonnello in Unicredit - oltre che a innescare i mal di pancia leghisti - è il cavallo di Troia per conquistare i vecchi "salotti buoni" tricolori, la stanza dei bottoni che controlla Telecom, Rcs - vale a dire il Corriere della Sera - e le Generali. Il momento per l'affondo è propizio. Il Biscione ha già piazzato le sue pedine negli snodi chiave: Fininvest e Mediolanum hanno il 5,5% di Mediobanca, crocevia di tutta la galassia. Tra i soci di Piazzetta Cuccia - con un pool di azionisti francesi accreditati del 10-15% - c'è il fido Ben Ammar. E gli ultimi due tasselli sono andati a posto in questi mesi. Lo sbarco di Tripoli a Piazza Cordusio, primo azionista di Mediobanca, stringe la tenaglia dall'alto. E a chiuderla dal basso ci pensa Cesare Geronzi, presidente delle Generali i cui ottimi rapporti con il Colonnello (e con il premier) - se mai ce ne fosse stato bisogno - sono stati confermati dalla difesa d'ufficio di entrambi al Meeting di Rimini. Niente di nuovo sotto il sole: l'assicuratore di Marino ha sdoganato Tripoli anni fa accogliendola nel patto di Banca di Roma (poi Capitalia) assieme a Fininvest. E ancor prima ha imbarcato la Libia in banca Ubae, guidata allora da Mario Barone, uomo vicino a quel Giulio Andreotti che solo un mese con il suo mensile 30 giorni ha pubblicato un volume sui discorsi pronunciati da Gheddafi nella sua ultima visita italiana.

Il puzzle adesso è quasi completo. Il Cavaliere ha in mano il controllo di industria e finanza pubbliche. E ora, grazie all'asse con Ben Ammar e Geronzi e ai soldi di Gheddafi (sommati alla debolezza delle vecchie dinastie imprenditoriali tricolori), può blindare quella privata estendendo la sua influenza su tlc, editoria e - Bossi permettendo - sulle ricchissime casseforti delle banche e delle Generali.



L'asse con il Colonnello gli regala però un'altra opportunità d'oro: quella di distribuire le carte delle commesse a Tripoli garantite dall'attivismo dell'efficientissimo tandem, immortalato ora a imperitura memoria sul frontespizio dei passaporti libici. Ansaldo Sts (per il segnalamento ferroviario) e Finmeccanica (elicotteri) hanno incassato due maxi-ordini. I big delle costruzioni si sono messi in fila per gli appalti sulla nuova autostrada libica da 1.700 chilometri (valore 2,3 miliardi) affidata in base agli accordi bilaterali ad aziende tricolori. In questi mesi hanno attraversato il Mediterraneo pure l'Istituto europeo di oncologia e Italcementi mentre Impregilo ha consolidato con una commessa da 260 milioni la sua già solida posizione nel Paese nordafricano dove con 150 miliardi di investimenti infrastrutturali nei prossimi sei anni la torta - previo via libera della Gheddasconi Spa - è abbastanza grande per tutti.



Anche Gheddafi, come ovvio, ha il suo dividendo. L'Italia è il cavallo di Troia per portare la Libia fuori dall'isolamento nell'era in cui la liquidità, come dimostra il salvataggio delle banche Usa da parte dei fondi sovrani arabi, non ha più bandiere. Missione compiuta se è vero che persino a Londra - grazie a un'operazione di diplomazia sotterranea guardata con sospetto a Washington - l'abbinata politica-affari ha dato risultati insperati: la Gran Bretagna ha liberato un anno fa Abdelbaset Al Megrahi, l'ex 007 libico condannato per l'attentato di Lockerbie e il Colonnello ha dato subito l'ok alle trivellazioni Bp nel golfo della Sirte. Nessuno poi ha battuto ciglio nella City quando Tripoli ha rilevato il 3% della Pearson (editore del Financial Times) e fondato lungo il Tamigi un hedge fund. O quando il numero uno della London School of Economics è entrato tra gli advisor della Libian Investment Authority a fianco del banchiere Nat Rothschild e a Marco Tronchetti Provera.



Pecunia non olet. E anche l'(ex) dittatore Gheddafi non è più un appestato per le cancellerie internazionali. Il premier greco Georgios Papandreou è sbarcato qui per cercare aiuti. La Russia di Putin - altro alleato di ferro dell'asse Gheddafi-Berlusconi - si è aggiudicata fior di commesse a Tripoli come le aziende turche di Erdogan, altra new entry in questo magmatico melting pot geopolitico tenuto insieme, più che dagli ideali e dalla storia, dal collante solidissimo del denaro.



(28 agosto 2010)