mercoledì 24 novembre 2010

Come quando fuori piove/3

Continuo ancora con l’alluvione in Veneto, perché gli effetti di un normale fenomeno atmosferico rappresentano la metafora delle sorti magnifiche e progressive del nostro tempo. Tutto ciò che è stato contrabbandato come civiltà e crescita della popolazione, intesa come miglioramento, ha mostrato il suo totale fallimento. La constatazione è scevra da qualunque trionfalismo, sottolinea le pesantissime responsabilità delle classi dirigenti, non soltanto venete, mentre dimostra come tra il dire e il fare di questo governo ci sia proprio un mare di acqua. E questa non è una mistificazione, ma devastante realtà.

Le foto sono tratte da una pubblicazione della Regione Veneto chiusa in tipografia alle 13 dell’8 novembre 2010.


Foto di: Protezione Civile della Regione del Veneto, Provincia di Treviso, Coldiretti Veneto, Archivio Fotografico Gazzettino, Il Giornale di Vicenza, Gruppo Finegil, Corriere del Veneto, Anna Barbara Grotto, Nicola Stievano,Vincenzo Amato.





Così l’edilizia è selvaggia

 

Francesco Erbani

 


Perché l’Italia è il paradiso dell’abusivismo? E perché solo l’Italia, visto che è difficile persino tradurre in inglese o in francese l’espressione "abusivismo edilizio"? Sono le domande che percorrono Breve storia dell´abuso edilizio in Italia. Dal ventennio fascista al prossimo futuro (Donzelli, pagg. 166, euro 16,50), il libro che l’urbanista Paolo Berdini ha dedicato al fenomeno che attraversa la storia del nostro paese con la regolare continuità di un ciclo industriale e che viene considerato, dal Lazio in giù, un modo d’essere dell’attività edilizia, assimilato all´abitudine di parcheggiare in seconda fila.

Correttamente Berdini risponde che sono tanti i motivi per cui in Italia si può costruire violando le norme. Ma uno emerge. In Europa esiste «un patto sociale riconosciuto», per cui la pianificazione urbanistica è accettata dalle autorità pubbliche, dagli operatori economici e dai cittadini. Da noi, invece, vige il patto non scritto - o persino scritto - fra chi amministra e chi è amministrato tendente a ignorare le regole, perché in fondo edificare viene considerato un diritto insito nel possesso di un suolo. Se si è proprietari di un’area, tirar su una villetta, una batteria di casette, allestire un capannone industriale, scavare una piscina è attività che si può realizzare sia chiedendo sia non chiedendo un’autorizzazione. Dipende dalla convenienza. D’altronde per tre volte, nel 1985, nel 1994 e nel 2004, il parlamento ha varato condoni, dimostrando di considerare la sanatoria degli abusi un normale sistema di governo del territorio, una specie di pianificazione dell’illecito. Tanto più che gli abbattimenti, pur previsti per legge, sono il frutto della generosa volontà di qualche amministratore o di qualche magistrato, subito però scoraggiata.

Le cifre che Berdini colleziona sono impressionanti. 4 milioni 600 mila abusi realizzati dal 1948 a oggi, cioè 74 mila ogni anno, 203 al giorno. In insediamenti costruiti illecitamente vivono 6 milioni di persone. Da un’altra rilevazione risulta che nel Sud si concentra quasi la metà di tutti gli abusi. Se si aggiunge il Lazio si arriva oltre il 64 per cento.

L’abusivismo, si legge nel libro, nasce durante il fascismo e forse addirittura prima. Ma è negli anni Cinquanta che cresce vorticosamente, in particolare a Roma e nel Mezzogiorno. La causa generalmente indicata è l’assenza di un intervento pubblico nell’edilizia che risponda al bisogno di case a poco prezzo. Spiegazione fondata, ma che non chiarisce, sottolinea Berdini, perché a Milano e a Torino l’abusivismo sia marginale rispetto alla campagna romana. Esiste un’epopea popolare dell’abusivismo anni Cinquanta e Sessanta, documentata in tanta letteratura e tanto cinema. Ma ad essa si sovrappone con il tempo l’elemento speculativo. Non c’è solo il capofamiglia che mette mattoncino di tufo su mattoncino di tufo e fabbrica la casa per sé e per i figli. Sulla necessità dei più deboli piomba lo speculatore che lottizza, costruisce e vende senza chiedere licenza.

In ogni caso, dalla fine degli anni Settanta questo abusivismo lascia il posto all’abusivismo di pura valorizzazione. Le coste di Sicilia, Calabria e Campania massacrate da un’orda di seconde case. Le aree pregiate della campagna romana puntellate da ville. Le palazzine nella Valle dei Templi di Agrigento. Gli insediamenti in zone fragili (Sarno e Messina, per esempio). I 280 mila metri cubi del costruttore Domenico Bonifaci a qualche centinaio di metri dalla tenuta presidenziale di Castel Porziano a Roma. Le ville, i concessionari d’auto e gli sfasciacarrozze nell’Appia Antica. E poi le piscine a Roma per i mondiali di nuoto. Le case a ridosso del Vesuvio.

Le conseguenze dell’abusivismo sono pesanti. Le città si sfasciano, i paesaggi vengono violentati, aumentano i rischi di frane e di esondazioni. Inoltre l´abusivismo costa. I condoni servivano, si sentiva dire, a rimpinguare le casse delle amministrazioni pubbliche: ma Berdini, conti alla mano, dimostra il contrario.Il libro proietta lo sguardo sul futuro. L’abusivismo è destinato a continuare perché la pratica dei condoni non si è arrestata. E l’esperienza insegna che i condoni non occorre farli, basta prometterli per scatenare la corsa al mattone illegale.

(4 novembre 2010)







Zaia smentito dai geologi

 

Vittorio Emiliani           

 

Giovedì sera al Tg3 il presidente del Veneto, l’ex ministro Luca Zaja, è stato molto tranciante: l’ennesima disastrosa alluvione veneta è soltanto frutto di “calamità naturali”, la cementificazione della collina e il dissesto idrogeologico non c’entrano nulla. Ieri però una nota della la Società Italiana di Geologia Ambientale, dopo aver descritto i disastri verificatisi dal Lombardo-Veneto alla Calabria, dice fra l’altro: “Dal punto di vista scientifico, i fenomeni naturali sopradescritti rientrano nella normalità. È normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Non è invece per niente normale che un territorio geologicamente “giovane” come il nostro sia diventato “strutturalmente fragile” perché si costruisce in zone “pericolose”.

Di recente l’Istat ha collocato il Veneto fra le tre regioni italiane con la massima concentrazione edilizia, case e capannoni, tanti capannoni da far esclamare nel 2003 all’allora presidente Renzo Galan “Basta capannoni!” Un grido senza alcun seguito pratico. Sempre l’Istat definiva la pedemontana veneto-lombarda – in termini meno tecnici, la un tempo splendida collina di Piovene e di Parise – una delle zone più cementificate e asfaltate d’Italia. Basta scendere in aereo su Venezia: il continuum edilizio è agghiacciante senza uno spicchio di verde in mezzo, per centinaia di chilometri da Venezia-Mestre.-Padova, ormai saldate, alla Lombardia. Ed è, per lo più, edilizia “legale”, eretta in base a piani urbanistici sforacchiati da continue varianti. Perché un territorio collinare così maltrattato dovrebbe “tenere” con le piogge autunnali o primaverili? Difatti le alluvioni, qui e altrove, sono ormai permanenti.

Cosa fa il governo Berlusconi, il “governo del fare”? Concorre potentemente a disfare il Belpaese riducendo nell’ultimo triennio del 60 % (così il Wwf) i fondi destinati alla difesa del suolo e al restauro di un territorio massacrato. Eppure ci eravamo dati una buona legge – la n. 183 del 1989, nella deprecata Prima Repubblica – creando, sul modello dell’Authority del Tamigi, le Autorità di bacino. Solo che nel Regno Unito le competenze forti sono tutte andate alla Themes Autority, mentre qui si è fatto l’opposto togliendo alle Autorità (specie se interregionali, orrore) soldi e competenze. Un anticipo di federalismo all’italiana che smantella i poteri pubblici, li regionalizza, poi magari li municipalizza e infine lascia fare ai privati quello che vogliono. Case e capannoni, capannoni e case. Nel decennio 1991-2001 in provincia di Vicenza la popolazione è aumentata del 32 %, ma la superficie urbanizzata è esplosa: + 342 %. In tutta Italia nel periodo 1995-2006 – secondo un calcolo attento (e su dati Istat) dell’urbanista Paolo Berdini – sono stati mangiati dall’edilizia di tutti i tipi ben 750.000 ettari di suoli liberi, una regione grande come l’Umbria. Da una parte stiamo rendendo impermeabile ogni anno circa 70.000 ettari, dall’altra lo spopolamento agricolo (ripreso con forza visto che sui campi si guadagna sempre meno) abbandona a se stesse montagna e alta collina. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti alla prima pioggia un po’ più forte.

A questo consumo di suolo sfrenato si comincia a dare uno stop dal basso. Un buon esempio viene proprio dal Milanese, dal sindaco, Domenico Finiguerra, di Cassinetta di Lugagnano (sul bellissimo Naviglio), premiato come il più “virtuoso” poiché ha varato un piano territoriale a “consumo zero” di suoli liberi. Una sacrosanta battaglia che nel Regno Unito, pensate un po’, ha prodotto una legge severa negli anni ’30 e poi una ancor più rigorosa con Tony Blair. In Germania vige dagli anni ’90 una legge Merkel che punta a ridurre il consumo di buona terra, anche se quello di partenza era un terzo del nostro. E da noi? Si rincorrono i guasti di frane e alluvioni spendendo infinitamente di più in rattoppi di quanto si spenderebbe in prevenzione. E si contano tristemente i morti: dal Polesine ad oggi, o a ieri, 3.255 includendo il Vajont che qualcuno cercò allora di spacciare per “calamità naturale”.

(6 novembre 2010)










La Lega straripa e il territorio annega

 

Alessandro Robecchi  

 

Il tempo, che è galantuomo, svela via via i bluff e le truffe. Per esempio, quelle della Lega. Mentre a Roma i gloriosi padani appoggiano il governo Bunga Bunga, nelle loro terre, in Veneto, i fiumi straripano alla grande, le città si allagano tipo Venezia, capannoni, laboratori e fabbrichette sono inagibili. Niente male come controllo del territorio, la tanto sbandierata specialità dei leghisti, che questa volta, perdonerete la metafora, ha fatto acqua da tutte le parti. Il governatore Zaia con il cappello in mano chiede un miliardo all'odiato stato centrale: il Veneto ai veneti, per carità, ma gli schei che vengano da Roma. Certo, un'alluvione è un'alluvione ovunque, e siccome l'Italia c'è ancora e la Padania non esiste, è giusto che all'emergenza si corra ai ripari con soldi di tutti. E questo anche se sulla Padania, un leghista di Varese ha vantato opere lombarde che in Veneto non si sono fatte: magra goduria vedere i barbari che si insultano tra loro. Quella che manca all'appello, però, è proprio quella parolina magica che i giannizzeri della Lega sventolano in ogni istante: territorio. Già, cos'hanno fatto per il territorio, la sua bonifica, la sua messa in sicurezza, la sua salvaguardia tutti quei sindaci e amministratori così impegnati a scrivere cartelli in dialetto? Crescere, urbanizzare. La casa, il laboratorio, il capannone, il magazzino, il laboratorio più grosso, la strada più larga, la casa che diventa villetta e via così. Per anni, prima sull'onda del «miracolo del nord-est», e poi cavalcando il «padroni a casa nostra», il tutto mentre il famoso territorio si comprimeva e diventava una bomba d'acqua pronta a esplodere. La sacra ampolla, il dio Po, la secesiùn, il dito medio alzato, le scuole griffate lega, il tricolore piegato in modo che si veda solo il verde (lo hanno fatto in aula i consiglieri regionali veneti della Lega il 4 novembre), tutto molto folkloristico. Ma poi chissà, svegliarsi una mattina con l'acqua alle ginocchia potrebbe essere il preludio di un risveglio vero, il primo passo per capire che il territorio è una cosa seria, che va usato per vivere, e non per i comizi.

(7 novembre 2010)








Piogge, cemento e segretarie: l’eredità di Galan pesa sul Veneto



Ferruccio Sansa

 

Un governatore, Galan, che ha ricoperto il Veneto di cemento ed è stato promosso ministro dell’Agricoltura. La sua ex-segretaria che in pochi anni diventa uno dei più grandi imprenditori del mattone, maneggiando somme a nove zeri con società in Italia e a San Marino. E poi esponenti di spicco del Pdl che la fanno da padroni nel settore delle grandi opere. Succede nel Veneto, regno del centrodestra.

Adesso, però, è arrivata l’alluvione. Quando le acque si saranno ritirate, oltre ai campi devastati potrebbe emergere una storia imbarazzante per il Pdl e la Lega, che oggi tuona contro Roma e Pompei, ma era nella maggioranza di Galan.

“I fenomeni naturali che si sono verificati in Veneto rientrano nella normalità. È normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Così la Società Italiana di Geologia Ambientale. Ma allora perché il Veneto è diventato un lago? Il governatore Luca Zaia non ha dubbi: il cemento non c’entra. Chissà, forse anche perché il cemento è una questione spinosa per la sua maggioranza.

Più d’uno da queste parti solleva il dubbio: l’alluvione potrebbe essere conseguenza della cementificazione selvaggia voluta dal centrodestra e soprattutto da Giancarlo Galan, il governatore “Doge” che regnando dal 1995 al 2010 ha costruito come nessun altro. Autostrade, centri commerciali, capannoni, paesi nuovi di zecca (spesso deserti). In pochi anni il paesaggio è stato stravolto. I dati del Centro Studi dell’Università di Padova confermano l’impressione: dal 2001 al 2006 sono state realizzate abitazioni per 788 mila persone, quando la popolazione è aumentata di 248 mila. Sono state rilasciate concessioni per 94 milioni di metri cubi di costruzioni, l’equivalente di una palazzina alta e larga dieci metri e lunga 1.800 chilometri. Nel solo 2002 sono stati costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni. Ma soprattutto: la superficie urbanizzata in Veneto è aumentata del 324% rispetto al 1950 (mentre la popolazione è cresciuta del 32%).

Perché l’acqua diventa disastro

Un cambiamento che può aver trasformato una forte pioggia in un disastro. “La terra lascia penetrare l’acqua, mentre il cemento è impermeabile e favorisce le alluvioni”, spiega Adone Doni, portavoce del Cat, Comitato Ambiente e Territorio della Riviera del Brenta.

Così la pioggia rischia di mettere a nudo la rete di potere del centro-destra. Sono decine di personaggi, magari sconosciuti, che con le loro opere cambiano la vita di milioni di veneti. Come Claudia Minutillo: fino a pochi anni fa segretaria e strettissima collaboratrice di Galan. Poi il grande salto nel mattone: Minutillo, classe 1963, ha i contatti giusti, anche grazie al marito console di San Marino (che ha siglato accordi con la Regione Veneto). In men che non si dica si ritrova a capo di un impero, ha partecipazioni e incarichi in quasi venti società.

Mattoni e giornali

Con la sua Adria Infrastrutture sta puntando a realizzare opere da miliardi: la “Via del mare”, superstrada a pedaggio che collegherà la A4 con Jesolo, il Passante Alpe Adria, 85 chilometri di – contestatissima – autostrada attraverso il Cadore. Poi il Terminal merci al largo di Rovigo e il Terminal di Marghera. Minutillo ha alleati forti: nella Adria Infrastrutture e nella Infrastruttura Sa (finanziaria con sede a San Marino) ecco Alberto Rigotti, il filosofo-imprenditore vicino alla Compagnia delle Opere, che ha comprato il gruppo editoriale E-Polis. L’alleanza dei signori del mattone si cementa nei quotidiani. Dentro E-Polis ci sono Mantovani (storico colosso del settore), Minutillo e Vito Bonsignore, europarlamentare berlusconiano e uno dei signori delle autostrade. Inchiostro e cemento, in Veneto si tengono stretti: Il Gazzettino, storico quotidiano locale, è di Caltagirone (editore anche di Leggo). Insomma, difficile trovare un giornale nemico del mattone.

Intanto il Pd nicchia o si divide. Alcune sue figure storiche, come Lino Brentan, seguono la via del pragmatismo (che l’ha portato nel cda di 11 società autostradali). Pochi criticano la politica del mattone del Pdl. Quasi nessuno fa notare il potenziale conflitto di interessi di figure come Lia Sartori, deputato europeo del centrodestra (con un passato, tra l’altro, nella commissione Trasporti). Proprio lei che è stata assessore regionale ai Trasporti e poi presidente del Consiglio regionale e che attraverso la società di progettazione Altieri ha collaborato con la Mantovani.

Ecco la rete del cemento veneto. In tanti, anche nel centrosinistra, speravano che Zaia prendesse le distanze. Ma non è stato così. E il Governatore adesso rischia di restare impantanato nel fango lasciato dalle piogge.

(9 novembre 2010)


 

 





 







 







 


mercoledì 17 novembre 2010

Come quando fuori piove/2



Le osannate grandi opere e la spregiudicata cementificazione del territorio presentano il conto, inevitabilmente. È sufficiente un preallarme di maltempo, annuncio perfino banale in autunno, per allertare la Protezione civile e vivere così in costante tensione. Tuttora lo definiscono, “progresso”, ma l’umiliazione inferta all’ambiente è devastante. Perciò chi è causa del suo male, alla fine dovrebbe piangere solo se stesso per l’assenso dato alla classe dirigente veneta di razziare il territorio, cementificando ovunque fosse possibile (e anche impossibile). Adesso si piange e, con scarso senso del ridicolo, il governatore Zaia chiede aiuto all’Italia, svelando così il bluff della “padania” a cui non può rivolgere l’appello per ricevere sostegno e finanze. Sarebbe un appello al vuoto assoluto. E l’eco del silenzio stordente.

 

Gli articoli - in particolare - di Ernesto Milanesi e Gianfranco Bettin, pubblicati su “il manifesto”, meritano di essere letti con molta attenzione, perché narrano come i governi, ladri quando piove – come da adagio popolare – siano responsabili sia a livello nazionale che, soprattutto locale, della catastrofe accelerata dalla pioggia. Loro, i legaioli, che rivendicano sempre il radicamento sul territorio, al punto da averlo cementificato per restarne solidamente ancorati.



 


Nel Veneto sott’acqua affonda il modello leghista

di Ernesto Milanesi

 

L'autostrada chiusa perché invasa da acqua e fango a Soave. Argini che saltano da Monteforte d'Alpone (Verona) fino a Ponte San Nicolò (Padova). Alluvionato il centro storico di Vicenza con Guido Bertolaso impegnato a schierare l'esercito. Traffico paralizzato fino ai confini con il Friuli e interi quartieri evacuati nella notte in mezza regione. Con il terrore che la vera onda di piena non sia ancora passata.

È Legaland, letteralmente con l'acqua alla gola. Pioggia battente, vento di scirocco e idrovore in tilt hanno trasformato il «cuore» del Veneto in un immenso lago color melma. Il bilancio, finora, parla di un anziano disperso. Ma ha rischiato grosso il teatro Olimpico di Vicenza; s'è svegliata dentro un incubo la Marca trevigiana che frana; annaspa quasi tutto il Veronese; trema, come nel 2002, Motta di Livenza nel veneziano.

Una catastrofe difficile da spacciare per «naturale».Gli effetti si avvicinano alla Grande Alluvione del 1966, quando il Polesine fu sacrificato per salvare Ferrara. Oggi sono la «città metropolitana» e l'ex «locomotiva» a finire in ginocchio perché è definitivamente saltato il salvagente di scolmatori, consorzi di bonifica, manutenzione degli argini.

La verità è che, nel giorno dei morti, affiorano gli effetti del «sistema Galan» ereditato dal governatore leghista Luca Zaia. Ma anche le conseguenze dissennate dell'urbanistica che nei municipi accomuna berlusconiani, centrosinistra e Lega. Contano più gli «eletti» in combutta con gli immobiliaristi di qualsiasi evidenza da buon padre di famiglia. È l'alluvione dell'incuria, dell'interesse privato, della politica irresponsabile. Il modello veneto imperniato su Grandi Opere, project financing e sussidiarietà si è tradotto in un folle consumo del territorio a senso unico. Ed esattamente come il crac dell'economia era stato annunciato dai documenti ufficiali degli uffici di Bankitalia in piazza San Marco, anche la catastrofe «naturale» si poteva prevedere studiando un dossier di una trentina di pagine.

Pubblicato da Legambiente nel 2009, si intitola «Veneto: cancellare il paesaggio». Spiegava l'architetto Sergio Lironi: «Nel 2004, con la nuova legge regionale urbanistica, i Comuni autorizzano 38 milioni di metri cubi di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di volumetrie residenziali, superando la media di 40 milioni di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi». E Tiziano Tempesta del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali dell'Università di Padova contabilizzava: «Le abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono in grado di alloggiare 600 mila nuovi abitanti. Anche se rimanessero costanti i tassi d'incremento demografico alimentati dagli immigrati, ci vorrebbero 15 anni per utilizzare tutte le case».

Insomma, era un mega-villaggio architettato snaturando le fondamenta. È già un immenso non luogo strangolato dal cemento. Sarà sempre più in balìa della natura violentata da ruspe, gru, betoniere? La politica partorisce quasi esclusivamente suggestioni: dalla candidatura alle Olimpiadi 2020 a nuove autostrade, ospedali, centri congressi fino alla gigantografia di Veneto City, la super-fiera delle vanità nella Riviera del Brenta. Nessuno (nemmeno i sindaci del Pd) si concentra sulla «normale manutenzione» del bene comune che si chiama territorio. Oltre l'indistinta melassa dell'ex miracolo economico, incombe l'urbanistica: l'immobiliare che si fa stato permanente degli affari, con la politica che appalta territorio e futuro. Finora nemmeno la «rivoluzione» della Lega di governo ha dimostrato di arginare la tendenza.

Le statistiche sono agghiaccianti. Proprio l'area centrale collassata in questi giorni rappresenta il 25,7% del territorio e accoglie il 50,7% della popolazione nel 47,2% delle abitazioni (ben 930 mila, di cui 80 mila senza inquilini). Nella sola provincia di Vicenza, feudo della Lega, in 50 anni la «macchia» urbanizzata è aumentata del 342%, con un incremento di popolazione limitato al 32%. Significa che i volumi urbani della città diffusa in ogni angolo sono passati da 8.647 ettari a oltre 28 mila: la cementificazione è quadruplicata.

E nella sola Padova con la giunta di centrosinistra del sindaco Flavio Zanonato si sono trasformati oltre 4,7 milioni di metri quadri di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, delegando ai privati le nuove lottizzazioni in cambio di spezzatini verdi. Cinque anni fa in Regione sono state protocollate 1.276 varianti urbanistiche (più 220% rispetto alla media degli anni precedenti). Si appoggiavano a 389 piani di riqualificazione urbanistica e ambientale attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per costruire. Sempre e comunque. Anche a costo di veder tracimare torrenti fin dentro il «salotto» di Vicenza o il castello di Soave. L'autostrada a tre corsie chiusa è l'emblema del Veneto che annaspa. Nella sua stessa melma. E non sarà l'ultima volta...

 (3 novembre 2010)

 

 


Un disastro a chilometro zero

di Gianfranco Bettin

 

«Quando la natura si ribella, accade questo... è un indice di grande cambiamento climatico»: a parlare non è un militante ambientalista ma il governatore del Veneto, Luca Zaia, a commento dell'emergenza meteorologica e idraulica di queste drammatiche ore, da lui definita «peggiore che nel 1966». Paragoni storici a parte, Zaia ha ovviamente ragione: lo spettacolo che il Veneto e l'intero Nordest offrono in queste ore è quello di territori in rovinoso subbuglio, di centri abitati e di comunità sconvolte, in preda a un'emergenza che, puntualmente, si affida a Bertolaso (che svolazza in elicottero sopra città e campagne, planando di prefettura in prefettura) e alla proclamazione richiesta dello stato d'emergenza. Zaia invita ad affrontare i compiti urgenti del momento. E va bene, sul campo. Ma in sede di analisi bisogna dire che emergenza e normalità - ormai, nell'attuale situazione storica, consolidata, strutturale, di questi territori - sono tutt'uno anche quando non piove.

Quando piove, il disastro si vede meglio. Ma anche nei giorni di sole non si faticherebbe a vederlo. È su questo che Zaia si dovrebbe pronunciare. Non c'è in Italia un territorio che sia stato più stravolto di questo in un tempo più breve. Questa è la radice del «dissesto idro-geologico» che in queste ore echeggia di bocca in bocca e ad esso hanno posto mano innumerevoli protagonisti. Infatti, se vi sono catastrofi nate da responsabilità accentrate, come per il Vajont o come per la nascita e lo sviluppo di una Porto Marghera in piena laguna e in pieno centro abitato, per ridurre in questi stati un'intera vasta regione ci sono volute e ancora sono all'opera generazioni di amministratori irresponsabili, ignavi o incoscienti. Se escludiamo i consapevoli criminali che, qua e là, hanno svenduto la loro (la nostra) terra, tutti gli altri, spesso in modo desolantemente trasversale, hanno messo insieme una tale montagna di micro e macro atti, di delibere, di piani urbanistici, di sanatorie, di folli interventi sui corsi d'acqua, di infrastrutture, che sono la vera causa dell'attuale emergenza.

Certo, i cambiamenti climatici concorrono, come no. Era ora che lo dicesse un esponente importante, come Zaia è, dell'attuale maggioranza di governo, la più pervicace di tutto l'Occidente nel negare questa emergenza, guidata dal premier Berlusconi, che più vi ha irriso e meno l'ha affrontata. Ma il modo in cui il clima fuori di sesto si produce in un luogo dipende anche da come quel luogo è conciato. Per i dati Istat, tra 1978 e 1985 ogni anno nel Veneto sono stati edificati quasi 11 milioni di metri cubi di capannoni. Dal 1986 al 1993 sono stati oltre 18 milioni all'anno per poi salire negli anni successivi a oltre 20 milioni. Con un salto dal 2000: 27 milioni nel 2001, 38 nel 2002 e così via. Per le abitazioni, negli anni '80 e '90 venivano rilasciate concessioni edilizie pari a 9-10 milioni di metri cubi anno. Nel 2002 oltre 14, nel 2003 quasi 16, nel 2004 oltre 17.

In provincia di Padova in vent'anni la superficie agraria è diminuita del 20%, in quella di Treviso del 30%, in quella di Vicenza, ieri epicentro dell'emergenza, del 40%. E sopra questo territorio compulsivamente e affaristicamente cementificato e asfaltato, Prealpi e Alpi sono in abbandono, senza una politica che non fosse la droga turistica, aumentando il dissesto evidentissimo, nella sua interdipendenza, proprio in giorni come questi, quando l'acqua precipita irruenta a valle e in pianura.

Questo è il disastro, nella connessione con il clima che muta ma anche con quello che è stato fatto al territorio.Legioni d'amministratori - con i leghisti da tempo in prima fila - portano gravi responsabilità. Qui non c'entrano né Roma ladrona né gli invasori stranieri. È una colpa d.o.c., a chilometro zero.

 (3 novembre 2010)

 

 


 

Il Veneto allagato, ma per i fiumi si tagliano i fondi


Daniele Martini

 

Puntuale come le foglie secche, l’autunno porta la devastazione da piogge più o meno normali, e la risposta sbagliata.

Nel Veneto delle migliaia di sfollati nelle province di Verona e Padova, della città di Vicenza allagata, dei 121 comuni gravemente colpiti dagli straripamenti, di un disperso a Caldogno per la piena del Bacchiglione, delle frane nel trevigiano e delle strade interrotte, si sono permessi lo stravagante lusso di tagliare perfino i fondi per la manutenzione ordinaria di fiumi e canali. E lo hanno fatto concentrando le sforbiciate proprio nelle zone ora più in sofferenza, Padova e Vicenza. Da un momento all’altro, di colpo, hanno cancellato circa 15 milioni di euro sui 100 impegnati di solito per ripulire i fossi, tenere in efficienza le casse di espansione, consolidare gli argini e riparare paratie e idrovore. È stata una decisione ponderata, presa addirittura con una legge, la numero 12 articolo 37, approvata dalla giunta uscente di Giancarlo Galan e sostenuta dalla stessa maggioranza di centrodestra che ora appoggia il leghista Luca Zaia.

L’intenzione dichiarata era quella di sgravare i cittadini da una tassa, i contributi che i proprietari di immobili fino a quel momento erano tenuti a versare ai Consorzi di bonifica per pagare lo smaltimento delle acque “meteoriche”, cioè le piogge. Al posto dei cittadini, a tirar fuori i soldi sarebbero stati i gestori dei servizi idrici integrati, per esempio le società degli acquedotti. Ma fino a questo momento non hanno versato nemmeno un euro e alla voce manutenzione idrogeologica nei mesi passati sono mancati, appunto, 15 milioni. Con questi quattrini si sarebbero evitati i disastri di questi giorni? Probabilmente no, ma forse i danni sarebbero stati più contenuti.

Di fronte all’esito disastroso delle scelte della giunta veneta, ora pare che tutti, maggioranza e opposizione, vogliano innestare una rapida marcia indietro, approvando un secondo provvedimento a correzione del precedente. Ma intanto il danno è fatto. E mentre il Veneto vive uno dei momenti più dolorosi della sua storia recente, nessuno è ancora in grado di assicurare se alla fine la manutenzione ordinaria sarà rifinanziata davvero e per intero e soprattutto se saranno attuati gli interventi strutturali di prevenzione su cui a parole nei momenti di emergenza tutti concordano, ma che di solito vengono speditamente riposti nei cassetti appena rispunta il primo raggio di sole.

L’Unione dei Consorzi veneti di bonifica, che con i suoi circa 1.300 dipendenti, in prevalenza operai, è uno dei pochi organismi che fa qualcosa per impedire il peggio curando come può i 6 mila chilometri di canali della regione, ha calcolato che ci vorrebbero circa 750 milioni di euro per ridare sicurezza agli abitanti. Ma il presidente nazionale dell’associazione, Massimo Gargano, da mesi non riesce neppure ad accennare questi programmi al ministro, Stefania Prestigiacomo, da cui non è stato mai ricevuto. E neppure riesce a discutere con un delegato tecnico, magari un direttore generale.



Al Ministero non esiste più neanche una direzione specifica per la Difesa del suolo, è stata soppressa ed accorpata a quella per l’Inquinamento. Fonti ufficiali dicono che la decisione è stata presa nell’ambito di una riorganizzazione complessiva degli uffici che prevedeva la riduzione delle direzioni da 6 a 5, con l’obiettivo di risparmiare. Di fatto, però, in seguito a queste modifiche, i soggetti che dovrebbero avere scambi ripetuti e continui con gli uffici ministeriali sui temi dell’ambiente non trovano più nessuna porta aperta. La faccenda è tanto più anomala perché capita proprio nel momento in cui almeno sulla carta sarebbero disponibili i primi finanziamenti per gli interventi più urgenti, circa 1 miliardo e 200 milioni di euro dei Fas, i fondi per le aree sottoutilizzate, soldi in parte nazionali, ma soprattutto di provenienza comunitaria, da utilizzare con programmi concordati con le Regioni, i comuni e i Consorzi di bonifica.

Intanto, mentre le prime piogge autunnali portano lutti e disastri, circolano previsioni da brivido per i prossimi mesi ed anni. Il presidente del Consiglio dei geologi, Antonio De Paola, in un voluminoso rapporto sullo stato del territorio redatto alcune settimane fa in collaborazione con il Cresme, il centro di ricerche economiche per l’edilizia, elaborando i dati Istat ha previsto che da ora al 2020 crescerà in maniera massiccia la popolazione nelle zone ad alto rischio sismico ed idrogeologico, circa 700 mila persone in più, in prevalenza immigrati, e metà si insedieranno proprio nel Nordest.

Alla domanda se l’evento è ineluttabile o se al contrario sarebbe possibile impedire che queste previsioni nefaste si avverino, risponde sconsolato che le leggi ci sarebbero e anche severe, ma nessuno, a cominciare dalla maggioranza dei sindaci, ha la minima intenzione di farle rispettare. Grazie alla disinvolta disattenzione delle autorità locali negli ultimi 15 anni è stato costruito ed asfaltato un pezzo d’Italia grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme. Senza contare la marmellata delle case abusive spalmata su tutto il territorio nazionale.

(3 novembre 2010)


 

 

martedì 16 novembre 2010

Il disvalore della precarietà




Arriva dall’ultima pagina di “D” la Repubblica, l’ennesima testimonianza di vita precaria nel mondo della scuola. La conferma della pubblica distruzione del patrimonio di risorse umane, l’impoverimento collettivo e il miserabile trattamento riservato a coloro che operano nella scuola pubblica, per buona parte animati dal desiderio di rendere un servizio. Mi vien da pensare alle insegnanti di scuola primaria dove l’entusiasmo, la passione e la vocazione vengono progressivamente inariditi, laddove si chiede sempre di più centellinando le offerte. E mentre i tagli criminali impoveriscono e degradano gli ambienti e le persone, non si fanno mancare le ricche prebende agli istituti privati (quelli che non dovrebbero costituire un onere per lo Stato) frequentati dai figli della casta. In modo che chi più ha continui ad avere sempre di più, mentre chi già disponeva di pochissimo deve accontentarsi delle briciole che cadono dalle ricche tavole. E pure ringraziare.


 

 

Una scuola sfiduciata

Ricominciamo dalla piccola politica dal momento che la grande non se ne occupa

 


Sono una precaria. Ho 30 anni, laureata, con una specializzazione sul sostegno, e un paio di master profumatamente costosi per accumulare punti e poi per aggiornarsi un p0’.

Prima di sentirmi una persona, con una sua identità, mi sento profondamente una precaria, supplente, miracolosamente annuale, a cui spettano solo le briciole (quando ci sono è una fortuna). Emigrata dal sud per poter avere la splendida nomina su posto sostegno che significa non essere né carne, né pesce! Sorridente esecutrice di ordini di vecchie volpone, talvolta frustrate. Di fatto, sono un’intrusa nella scuola e nella classe, per cui vengo elegantemente invitata a lavorare fuori dall’aula, con piccoli gruppi, perché non avendo più compresenze, riuscire a tenere tutti i bambini in aula è faticoso.

Questo per dare un’immagine incisiva di chi comanda e di chi è comandato.

Nel caso in cui proponi una opinione diversa... Be’, ti sorridono, acconsentono e improvvisamente tutto si ritorce contro di te. È un boomerang. E io ho sempre torto per una serie di ragioni talmente “basse” che ometto di descriverle. Sono una precaria! Sono una supplente! Non compaio! Non devo parlare, devo solo eseguire! È il mio marchio di fabbrica! Non sono né carne né pesce! Talvolta non sono presentata nemmeno ai genitori. Non devo rispondere alle ripetute provocazioni, poiché queste vengono usate per scatenare un conflitto e poi dare a me la colpa di averlo iniziato.

Lei mi risponderà che sono una miracolata a essere una precaria che LAVORA. Sì, certo. Tanti non hanno questa fortuna e stanno peggio di me. Ma tutto ciò è destabilizzante. E chi ne paga le conseguenze: i bambini.

Vorrei scriverle tanto ma tanto ancora, ma non ho tempo. Devo occuparmi della mia vita precaria, da supplente, da emigrata che quasi tutti i mesi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese e deve chiedere aiuto ai suoi genitori.

Cos’è la dignità? Può essere così soffocata da una procedura chiamata “gavetta”? Mi pongo altre 7mila domande esistenziali e non ho risposte, non le trovo... E se è vero quello che dice Oscar Wilde vuoi dire che i miei quesiti sono giusti, ma io sono immersa in un triste tramonto. Lo definirei infinito, etereo.

P.S. Ometto il mio nome, perché non ho ancora il coraggio delle mie idee. Il mondo, oggi mi vuole così, una marionetta nell’orribile teatrino della scuola pubblica.

persempreprecaria@libero.it





Mi domando se il ministro della Pubblica Istruzione si è mai chiesto che tipo di educazione possono ricevere gli studenti che si trovano di fronte insegnanti demotivati o precari sfiduciati. Ma “educazione” è ormai per la scuola pubblica una parola impropria, perché non si può educare quando le classi sono composte da trentacinque studenti che, per il loro numero è impossibile seguire individualmente nei loro percorsi di apprendimento che sono diversi da individuo a individuo. Nella scuola pubblica l’educazione è bandita, al massimo si può trasmettere solo ‘istruzione”, perché “educazione” vuol dire anche e soprattutto crescita emotiva, cura dei sentimenti, che è impossibile praticare in classi stracolme.

Stracolme per risparmiare sugli stipendi già esigui degli insegnanti, che in Italia guadagnano un terzo dei loro colleghi tedeschi. Senza considerare che un paese sempre più povero di mezzi culturali sarà anche più facile da governare, ma alla lunga regredisce nella scala delle eccellenze, diventando sempre più marginale rispetto agli altri paesi e alla fine più povero e dipendente.

Ma siccome questi effetti negativi si vedono dopo uno o due decenni e i politici hanno lo sguardo corto che non oltrepassa i cinque anni di una legislatura, può davvero una simile politica arginare il degrado di una nazione e soprattutto essere preoccupata di questo degrado? Penso proprio di no.

E allora cara insegnante di sostegno precaria, svilita dalle vecchie volpi in cattedra da quarant’anni, incominciamo dalla piccola politica che consiste nel far bene il proprio lavoro anche se nessuno si accorge e nessuno ce lo riconosce. In questo modo il nostro narcisismo è salvo perché possiamo rispecchiarci con orgoglio in quello che facciamo, e i ragazzi che ci sono affidati ne traggono giovamento da una precaria non sfiduciata. Perché solo dalle piccole politiche delle persone impegnate può nascere una grande politica i cui rappresentanti non pensano a se stessi, ma alla voglia di riscattare un paese triste e sfiduciato che più non crede in se stesso, per cui ciascuno pensa solo a sé.


Umberto Galimberti

D la Repubblica

(13 novembre 2010)








 

venerdì 12 novembre 2010

Come quando fuori piove





E' un concentrato di buon senso questo memorabile pezzo di Michele Serra pubblicato sulla prima pagina de "l'Unità" l'8 maggio 1998, dopo l'alluvione di Sarno.







Ma basta cambiare  la data e resta attualissimo, dopo 12 anni, per commentare l'alluvione in Veneto e ancora nelle stesse zone della Campania. Come se Michele Serra l'avesse scritto ieri. Tristemente valido, mai in scadenza. Si usa dire, con rozza espressione, che i quotidiani vanno bene il giorno dopo per incartare il pesce e invece io sono dell'idea che certi articoli vadano conservati come memoria storica. Perchè in Italia non c'è nulla di più annunciato delle catastrofi ambientali, legate a un territorio ormai depredato e nonostante ciò vengono tutti colpiti alla  sprovvista, come se ogni volta si trattasse di una catastrofe biblica che si nutre magari del banalissimo luogo comune che vuole il governo, ogni governo, ladro, ma si rifiuta tenacemente di ritenerla determinata dalle sciagurate scelte umane.

Per ribadire questa cecità ottusa ho raccolto altri articoli che sembrano scritti ieri, mentre risalgono al 1994, all'alluvione in Piemonte questa volta. Le firme sono importanti: Antonio Cederna, storico ambientalista e Giorgio Bocca che patì, in quella circostanza, lo sconvolgimento di terre natie. Poi ci arriveremo in Veneto, ma nel successivo post.





Un’altra catastrofe annunciata

di Antonio Cederna

 



 

"HO SEMPRE sentito il peso terribile dell’espressione era imprevedibile, impiegata da uomini la cui ignoranza è imperdonabile, che cercano solo di coprire le proprie responsabilità: perché, se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto: e ben pochi sono i disastri di fronte ai quali non resta che chinarsi a piangere i morti". Questo scriveva anni fa il grande geologo francese Marcel Roubault, e questo si adatta più che mai all’Italia.

Un’Italia vittima da quarant’anni, a intervalli regolari, di alluvioni frane straripamenti, per l’ignavia dei politici e l’arretratezza dei pubblici amministratori: ai ricorrenti sussulti dell’opinione pubblica ha fatto riscontro la quasi totale indifferenza del mondo della cultura. E di fronte a tante rovine e a tanti lutti, chi torna a riflettere e a scrivere su questa tragica costante dell’Italia moderna prova pena e imbarazzo. La tragedia di Piemonte, Liguria e Lombardia viene ad aggiungersi a un elenco infinito, che è stato mirabilmente descritto, qualche anno fa dal Servizio geologico nazionale, pubblicato nel volume "Il dissesto idrogeologico e geoambientale in Italia nel dopoguerra", che andrebbe diffuso nelle scuole. Sicilia e Calabria nel ‘51; Polesine, novembre dello stesso anno; Calabria nel ‘53; Salernitano nel ‘54; Vajont nel ‘63; un terzo dell’Italia sott’acqua nel ‘66; Val d’Ossola nel ‘78; Val di Stava nell’85; Valtellina, luglio ‘63 e luglio ‘87; Genova e provincia, ‘76, ‘86, ‘87. Eccetera, e sono solo gli eventi più disastrosi. In totale quasi 4.000 morti (quasi 7 al mese), un costo di 35.000 miliardi per lo Stato: impiegati per lo più in opere di regimazione cementizia dei fiumi (che saranno causa di nuove sciagure), e per rabberciare alla meglio e per un’infima parte del territorio, i guasti maggiori.

C’è un fatto emblematico che illustra la nostra incuria, ed è questo. Il Servizio geologico nazionale che dovrebbe provvedere alla sicurezza di suolo e sottosuolo, esercitare prevenzione e consulenza, è stato per decenni composto da una trentina di persone (venti volte meno che in Francia e Gran Bretagna), e solo da poco è passato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio: il piano per il suo potenziamento rimane sulla carta, e per di più è ospitato, insieme ai suoi preziosi laboratori, in un edificio del centro di Roma che da anni rischia di franare. Quanto costerebbe assicurare un minimo di sicurezza fisica all’Italia? Nel 1970 la Commissione De Marchi stimava necessario investire 10.000 miliardi in trent’anni, cifra che oggi i geologi ritengono debba essere almeno decuplicata. Quanto all’attuale governo non è particolarmente interessato al problema. La legge finanziaria in discussione stanzia 330 miliardi (dal Tesoro alle Regioni), più 304 miliardi dai Lavori Pubblici (in gran parte per il magistrato del Po), più 150 milioni (sic) per informazione studi ricerche. In tutto 634 miliardi, l’equivalente del costo di una ventina di inutili autostrade: per le quali l’Anas (oggi Enas) dispone di migliaia di miliardi di residui, una parte dei quali, come giustamente verdi e progressisti propongono, deve ad ogni costo essere trasferita alla difesa del suolo. E la difesa del suolo, per i lavori che comporta, dalla capillare manutenzione al rimboschimento, dalla pulizia degli alvei al monitoraggio eccetera, è una straordinaria fonte di occupazione: migliaia di posti di lavoro che costano un terzo di quelli dell’industria.

Se la colpa dello stato comatoso del nostro suolo ricade su tutti i governi che si sono succeduti nei decenni, quello che fin qui ha fatto il governo Berlusconi ci prepara al peggio. Condono edilizio, con presumibile sanatoria anche di quanto è stato costruito sul greto dei fiumi e sui versanti instabili; depenalizzazione della legge Merli, condono a buon mercato per gli inquinatori, blande sanzioni penali solo ai criminali, quelli che scaricano nelle acque rifiuti tossici e persistenti; attacco ai parchi nazionali (si è distinto il ministro Matteoli) presidio della salute territoriale, a cominciare dal parco d’Abruzzo, che è un modello di buon funzionamento; sospensione della legge Merloni, nata per assicurare trasparenza agli appalti, dopo Tangentopoli; protrazione dei termini della legge per la difesa dell’ozono; riduzione dei controlli sulle aziende a rischio; blocco dell’"Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente", con paralisi dei controlli e della valutazione di impatto ambientale. E c’è anche il condono per le dighe abusive, che sono 700 (!).

Con questi orientamenti, continueremo nella strada senza ritorno. Proseguirà l’urbanizzazione selvaggia che ha sommerso sotto cemento e asfalto il venti per cento (6 milioni di ettari) dell’Italia, riducendo del trenta per cento la capacità di assorbimento delle piogge. Continueremo a trasformare i fiumi in canali e a costruire nelle aree golenali (e chi si oppone, dicono vaneggiando quelli di Forza Italia, è affetto da "demagogia ecologica"). E invece che gestione e manutenzione, avremo appalti truccati e ruspe. Come ha scritto ieri Giorgio Bocca, c’è davvero qualcosa che non funziona "in questo sviluppo senza limiti del capitalismo e del consumismo, incuranti del bene comune".

(9 novembre 1994)








I distruttori dell' Eden

                                                   di GIORGIO BOCCA

 

I carabinieri di Bra mi hanno ritrovato la figlia dopo quarantotto ore in cui sembrava scomparsa per sempre, non riuscivo a capire dove, in quella valle del Tanaro che mi era sempre sembrata come la valle dell' Eden, a destra le colline delle vigne e delle torri e sotto il fiume di casa, di poca acqua, che va tra i canneti e le ghiaie, le serre e i coltivi, una serpe azzurra o gialla, alla minima pioggia, il Tanaro che qui chiamano ' Tani' che appare e scompare fra le macchie degli alberi. E sabato scorso la fiumara gonfia, ribollente, travolgente che la televisione ha mostrato agli italiani; una nuova era anche questa, l'era in cui vediamo con i nostri occhi e non solo leggiamo i disastri del nostro disastrato paese. Quando i carabinieri me l'hanno ritrovata e finalmente l'ho sentita al telefono, l'angoscia di quel lungo silenzio, di quel nero sipario, si è riempita di paura e di orrore anche se continuavo a ripetermi: ma che importa, se lei è viva?

Il camion su cui viaggiava nella notte per portare il suo vino bloccato pochi minuti dopo il crollo di un ponte dalle parti di Cherasco, la ricerca di un altro passaggio verso le Langhe, e dovunque frane, strade allagate, poi una corsa fino a Ceva sperando che avesse retto il ponte dell'autostrada; e così era: sul ponte si passava, ma appena fuori erano venute giù colline intiere. Se deve imparare a fare la contadina questa mia figlia imparerà in fretta, fra grandinate e alluvioni, imparerà che i frutti della terra non si raccolgono stando coricati come nel paradiso delle Uri.

Tutti hanno detto e scritto che cose così un tempo non succedevano, che un fiume pigro come il Tanaro non si era mai trasformato in una fiumara rovinosa e travolgente, che mai dei fiumiciattoli di greto asciutto sei mesi l'anno erano diventati per due o tre giorni di pioggia delle clave del Dio adirato per la distruzione e la sofferenza degli uomini peccatori. Il mio amico Nuto Revelli, che conosce la valle del Cuneese e del Monregalese come le sue tasche, ha scritto libri sulla scomparsa del popolo alpino che costruiva i terrapieni, sorvegliava il sistema idrico, conosceva l'arte alterna di fermare o di lasciar correre le acque di piena. E molti, per non dire tutti, commentatori del disastro hanno detto e scritto ciò che Antonio Cederna dice e scrive da quaranta anni: i corsi d'acqua serrati senza respiro, senza sfogo nelle pareti cementate, il mare di asfalto su cui l' acqua scivola come su un vetro, i boschi tagliati, la montagna abbandonata, le case costruite a due palmi dal greto; tutte cose verissime. E tutti o quasi hanno ripreso la inevitabile canzone dei soccorsi tardivi che a me, nel caso, pare ingiusta perché quel che si poteva fare, anche ritrovar la figlia di un padre in ansia, è stato fatto. Con la solita un po' assurda pretesa che di fronte alle catastrofi un servizio dello Stato normalmente mediocre improvvisamente diventi perfetto. Ma forse questa volta dopo aver detto e scritto per l'ennesima volta che il governo è ladro e inetto e che le vittime delle catastrofi naturali sono gli onesti e buoni sudditi, cerchiamo di dirci le cose come stanno.

Nella valle del Tanaro strade di rapido scorrimento e superstrade sono di recente costruzione, grosso modo buona parte delle opere è stata fatta negli ultimi quindici anni. E allora perché questi ponti e soprapassaggi e murali a una o a due corsie sono stati spazzati via come fuscelli? Come mai i ponti delle autostrade Milano-Torino e Torino-Savona, per non parlare delle opere idriche di Genova, cadono come castelli di carta? Non sarà che anche qui come e dovunque si è rubato e mal costruito? Che al vecchio competente Genio civile si sono sostituiti gli appalti tangentari? E non sarà che questo mondo è diventato troppo stretto per i consumi e gli appetiti individuali e familiari di massa? Ora che salgo più di frequente in Langa per trovare questa mia figlia contadina mi è capitato di vedere la città di Alba un sabato mattino, giorno di mercato. Uno spettacolo allucinante. Il vecchio centro, la città delle torri, dei negozi, delle vie che profumano di tartufo, delle confetterie con i loro trionfi di cioccolati e di torroni, con le macellerie dei vitelli della coscia, questa Alba-Bengodi cui si arrivava dal contado in mille, in duemila con il calesse o con le rare automobili, oggi, il sabato, è praticamente inavvicinabile, circondata da una cintura metallica, diecimila, ventimila automobili che riempiono ogni spazio, che non ti lasciano passare. E dentro una ressa che non riesci a camminare, perché il prezzo del vino è aumentato di cinque, di dieci volte, e tutti hanno soldi da spendere, qui e in tutti gli altri borghi della valle dell' Eden che letteralmente scoppia e va riempiendosi di ville e villette orrende, costruite magari, come a Napoli, in terreni paludosi o alluvionali. E allora ti confermi nella idea che ci sia qualcosa in questa democrazia dove ogni permesso legale è una fatica improba ma dove tutti fanno il comodo loro, dove ogni amministrazione cancella le disposizioni della precedente per ricominciare a rubare, dove avanza irresistibile l'anarchia urbana che di condono in condono ha riempito di cemento l'universo mondo; che ci sia, dicevo, qualcosa che non funziona, qui e dappertutto nel mondo dello sviluppo senza limiti del capitalismo e del consumismo, incuranti del bene comune.

A ogni catastrofe naturale si dice, si scrive che è passata l'apocalisse, che si è al punto di non ritorno. Ma no, il ritorno c'è sempre, si fa presto a consolarsi. I coltivi di autunno possono essere salvati o sostituiti prima che arrivi la primavera, le case da ricostruire sono niente rispetto a quelle dei terremoti, un ponte, se si vuole, lo si rimette in piedi in fretta e questa è acqua di fiume non di mare, acqua che porta limo non sale. La ricostruzione sarà rapida e abbastanza onesta perché la gente di qui non ha perso le vecchie virtù piemontesi del lavoro e del giusto prezzo. Ma qui come altrove appare abbandonata ai suoi appetiti, alla sua ignoranza, al suo sviluppo anarcoide e senza limiti perché il voto di scambio è la regola sovrana, l'elettore non va mai contrariato, può lasciare nelle città asfittiche l'auto in terza e in quarta fila, può costruire come vuole e dove vuole. Qui, ma anche nel resto del mondo avanzato né si governa né si amministra, si fa solo fronte agli appetiti e alle emergenze in una infinita serie di cedimenti. Facciamo un gran parlare di questi tempi del neofascismo e dei pericoli autoritari. Ma il dubbio che questo sistema in generale, questa cultura o incultura di massa, possano durare in eterno ci sfiora durante le catastrofi, ma appena torna il sole si scioglie come una foschia. E si riprende con le palazzine moresche, le confraternite dei cavalieri del tartufo o degli amaretti di Chivasso, l'aria appestata da fiumi di automobili, le acque avvelenate. Anche nella valle dell' Eden dove un quieto fiume a intervalli sempre più stretti diventa una procella di un dio furibondo.

(8 novembre 1994)  










La lunga lista dei colpevoli

di GIORGIO BOCCA

 

Piove governo ladro! Nessun dubbio che i governi degli ultimi quaranta anni siano stati, in fatto di cura del territorio e di alluvioni, ladri e inetti. E che l'attuale, pur incolpevole della recente catastrofe, abbia nelle intenzioni e nei fatti seguito i precedenti, basti pensare al ministro dell'Ambiente che odia gli ambientalisti e mal sopporta i parchi. Ma sembra altrettanto chiaro che nella gran lagna televisiva e giornalistica contro il governo ladro ci sia qualcosa di taciuto, qualcosa di cui è l'ora di parlare: le irresponsabilità degli altri, delle amministrazioni locali, delle famiglie, dei singoli.

Per cominciare il popolo italiano e i suoi sindaci dovrebbero leggere gli avvisi di pericolo e non cestinarli come fastidiosi. Il prefetto di Cuneo aveva avvisato le amministrazioni locali quattro giorni prima della alluvione. Ora uno dei sindaci che hanno protestato per il mancato avviso riconosce che sì, lo aveva ricevuto, ma che non lo aveva preso sul serio. Il provveditorato al Po aveva mandato analogo avviso a tutte le amministrazioni sette giorni prima dell'alluvione, ma a quanto pare a nessuno era parso degno di attenzione. In tutta Italia è di gran voga il localismo e tutti parlano di federalismo. I leghisti hanno fatto dell’alluvione la loro campagna elettorale al grido "Roma ci ha lasciati soli". Forse sarebbe il caso che il localismo non si manifestasse solo in folklore e in voti e che ogni comune interessato ai rischi idrogeologici si dotasse di un minimo di organizzazione locale. C'è qualcosa che non va in questo localismo, in questo federalismo che oggigiorno gridano al malgoverno centrale e che poi se arriva la catastrofe si aspettano tutto da lui.

Si sono sentiti i sindaci di paesi completamente isolati per frane che avevano interrotto tutto, strade, ferrovie, telefoni, luce, acqua, lamentarsi con i primi arrivati in elicottero del ritardo dei soccorsi. Si sono sentiti abitanti e amministratori di Pavia lamentarsi perché mancavano le barche per soccorrere quelli di Borgo Ticino. Ma non passa, si può dire, anno che Borgo Ticino non venga alluvionato, possibile che chi ci abita non abbia mai pensato ad avere una dotazione di barche piatte o di gommoni per il quartiere? Si sono lamentati anche quelli di San Zenone Po, il paese di Gianni Brera nei cui libri si legge della millenaria paura di un paese costruito a pelo del grande fiume. Anche loro sorpresi. Si sono sentiti sindaci lamentarsi perché i soldati mandati in soccorso non sapevano usare le vanghe o le pale. Ma le vanghe e le pale sono strumenti di lavoro sempre più desueti e le responsabilità di un passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale caotico e imprevidente non sono soltanto dei governi. Nella valle del Tanaro la civiltà contadina aveva costruito i suoi villaggi sulle colline, si andava da Asti a Alba senza incontrare un centro abitato. C'erano dei coltivi e dagli anni Cinquanta molte serre per gli ortaggi, ma non fabbriche, non paesi. Chi li ha messi nelle terre del fiume che ogni tanto impazzisce? I governi del voto di scambio li hanno permessi, ma gli onesti e virtuosi sudditi le hanno volute, anzi imposte a furor di popolo. Le hanno volute, le fabbriche, la gente ma anche gli imprenditori e "benefattori" come i Ferrero e i Miroglio. Ma possibile che nessuno abbia messo nel conto che queste aree andavano protette da una possibilissima inondazione?

Nuto Revelli va scrivendo da anni, nei suoi libri, sull'agonia e la sparizione della civiltà alpina, dei paesi abbandonati, di tutto il sistema idrogeologico lasciato a se stesso o sconvolto: dai boschi tagliati alle grandi strade asfaltate e alle piste per lo sci, dalle terrazze che crollano, ai canali di alta quota interrati. Ma come pensare che il popolo dei montanari sarebbe rimasto nei suoi villaggi con redditi agricoli inferiori cinque volte, dieci volte a quelli offerti dall' industria? Avrebbero dovuto pensarci i vari governi, ma sulla protezione della montagna c'era poco da rubare, pochi voti di scambio da raccogliere. Fa eccezione nel paesaggio alpino piemontese la Valle d'Aosta, ma perché il voto di scambio stava lì nella montagna, nell'elettorato alpino con cui l'Union Valdotaine controbilanciava i voti cittadini.

Il localismo sportivo folkloristico non conosce ostacoli, manda i suoi ragazzi alla maratona di New York, si gemella con tutti i comuni di Europa, celebra sagre e feste patronali in continuazione. E detesta Roma. Ma perché gli abitanti della val Tanaro e di altre zone alluvionate non si sono accorti che i ponti costruiti negli ultimi venti anni sui loro fiumi non potevano reggere al traffico pesante moltiplicatosi nel frattempo per dieci, per venti? E se se ne erano accorti perché hanno taciuto? La zona più industrializzata di Italia, il bacino del Lambro, è avvelenata e sta avvelenando tutta la pianura padana vicina al Po. È colpa di Roma? No, Roma, il governo, per opera del ministro all'Ambiente Ruffolo aveva trovato i soldi e il progetto per la bonifica. Chi lo ha sabotato? Le amministrazioni locali oggi magari autonomiste e leghiste che dovevano difendere gli interessi degli assessori e dei consiglieri e, via discendendo, degli industrialotti che continuavano a buttare i loro reflui tossici nei fiumi o nei campi sino a rendere imbevibile anche l'acqua dei pozzi. Questo governo a noi non piace, e lo scriviamo quasi ogni giorno. Ma se gli italiani non si decidono ad andare a scuola di civiltà industriale non c'è governo al mondo che possa fermarci sulla via del disastro.

(11 novembre 1994)   


 


sabato 6 novembre 2010

Massa e monnezza







A colazione: monnezza, a pranzo: monnezza, a cena: monnezza. Se poi ci scappa la merenda pomeridiana: sempre monnezza. Come quel liquore di un remotissimo spot: che la squadra del cuore vinca, perda o pareggi sempre Stock84.



E così, a Napoli, la monnezza entra in ogni momento della giornata: dalla tv se si sta facendo colazione, dalle conversazioni conviviali del pasto principale, dall’edizione del tg regionale la sera e anche all’ora del tè, dopo la passeggiata post prandium tra un Everest di spazzatura e un Kilimangiaro di rifiuti. Tanto da ritenere la monnezza ormai organica al paesaggio. Vorrei dire armonica, ma sarebbe sconveniente. Non stupirebbe, però, se anche i maestri presepai, ormai in piena attività, inserissero i cumuli di rifiuti tra le statuine della rappresentazione natalizia. 



La rassegnazione, più dell’invivibilità tra la spazzatura, sembra prevalere tra la gente, quella che affolla i coloratissimi mercatini e si trascina da un marciapiede all’altro. Quelli almeno praticabili. Rassegnazione forgiata dalle mirabolanti balle (mai termine fu più adeguato) che il papi in libertà provvisoria ha continuato a catapultare verso la città partenopea.





Piange il cuore ad attraversare luoghi meravigliosi, ad ammirare panorami unici, inquinati pesantemente da responsabilità pluriennali le cui colpe si possono ripartire tra la classe dirigente e la complicità, talvolta in buona fede, dei cittadini-elettori. Perché se esiste la responsabilità personale questa è di tutti e ci dovrà pur essere qualcuno che proponga: “Io faccio un passo indietro, ricominciamo, riproviamo un aggancio con il vivere civile”.  Evitando che qualcuno ci costruisca sopra una falsissima campagna elettorale e mediatica, stravinca e poi lasci che a finire in discarica siano i napoletani che poi vivono la loro città.



Una città dove si muovono tutti in massa: se in auto con file interminabili e rumorose, se a piedi invadendo le stesse strade che devono poi condividere con motorini e  macchine. Le persone formano un grumo unico che ondeggia di qua e di là, poi si posiziona all’ingresso di un negozio, di un bar, di una pizzeria, rimescolandosi continuamente. Impensabile sentirsi soli. E anche parlarsi. Tante voci s’intrecciano, suoni, rumori, proposte indecenti (l’abbonamento a Sky offerto all’uscita dalla metro) seccamente rifiutato, rinunciando però - non c’è spazio, non c’è tempo – a spiegare il motivo per cui mi faccia “skyfo” la tv a pagamento che ha distrutto il calcio.



Perchè l’amarezza si stempera subito in silenziosa ammirazione entrando nel chiostro di Santa Chiara, dove il tempo rimane sospeso e un’oasi di quiete infrange il caos esterno. Le immagini parlano, anche se non rendono il senso di benessere che si prova, non permettono di godere il profumo dell’agrumeto, dell’angolo con gli aromi.



La giornata è grigia, con minaccia ancora di pioggia dopo la tempesta della sera precedente con acqua a volontà, accompagnata dall’impetuoso vento che mulinava tra cartoni e buste di plastica vuote in un’oscena danza.  Mentre tra i rifiuti si aggirano disperati che immergono le braccia nei cassonetti, oppure muniti di bastone setacciano tra i cumuli accatastati, estraggono vestiti, li esaminano per metterli poi da parte.



Ma qui, nell’atmosfera del chiostro, con le splendide maioliche che purtroppo cadono a pezzi, si conserva ancora lo spazio per lo spirito, per la contemplazione, quasi evocando - come il poeta -  quel dolce naufragar “in questo mare”.



*La foto in apertura è stata ripresa all'ingresso di "Napolimania", per gentile concessione del proprietario, al quale ci siamo rivolti: "Possiamo scattare?" Sì, perchè me l'avete chiesto".