mercoledì 27 ottobre 2010

L'Intifada vulcanica: no pasàran



25 ottobre 2010

 































Cominciate a contare



(…) Mentre i solerti lacchè eletti e pagati per rappresentare gli italiani si occupano di risolvere i problemi del Capo nel paese reale, al solito, l'umanità è presa da altro. La spazzatura della camorra sommerge Napoli. La guerriglia di Terzigno, derubricata dal premier a "fenomeno locale", è alle barricate. Bossi evoca morti. Il tentativo di addossare le responsabilità ai sindaci è respinto al mittente, con dovizia di dettagli, da Rosa Russo Iervolino. Del resto è (anche) sulla soluzione dell'emergenza rifiuti in Campania che B. ha impostato e vinto la sua campagna elettorale. Promesse e bugie. Eccone alcune.

«Sarò a Napoli tre giorni alla settimana e resterò lì ad operare fino alla certezza dell'avvio concreto della soluzione del problema», Ansa, 14 aprile 2008.

«Tornerò a Napoli con continuità, per monitorare l'azione del sottosegretario e per confermare che lo Stato c'è». Ansa, 21 maggio 2008.

«A chi mi chiede se a Napoli tornerà ancora l'emergenza rifiuti io dico: no. Non si tornerà alla situazione precedente». Ansa, 28 agosto 2008.

Ieri, infine: «Prevediamo che in dieci giorni la situazione possa tornare nella norma».

Dieci giorni, cominciate a contare.


(23 ottobre 2010)





















L’editoriale

Dal miracolo all’inferno



UMBERTO RANIERI




Nella sua semplicità, la verità è una: i cittadini

non credono più alle cicliche promesse di

chi, ad ogni emergenza rifiuti in Campania,

solennemente riconferma impegni che non

vengono mantenuti. Questa la ragione di

fondo di quanto sta accadendo nei comuni

vesuviani e in particolare a Terzigno. La

gente protesta perché nel proprio territorio

sono stati impiantate per lunghi anni discariche

senza che mai si avviasse la bonifica dei

siti. L’aria è diventata irrespirabile, l’ambiente

è stato compromesso, la vita è diventata

un inferno ma non si è provveduto ad arginare

il degrado nemmeno quando nuove

tecnologie lo avrebbero consentito. I fatti

parlano chiaro: l’impianto di Terzigno ha

funzionato per anni senza mai essere messo

in sicurezza. È intervenuta addirittura la

commissione europea per denunciare che

il sito presentava una serie di carenze gravi,

erano stati rilevati dei cedimenti strutturali

delle pareti che avrebbero potuto estendersi

all’intera superficie: nel cuore di un territorio

che fa parte del parco del Vesuvio! In

una situazione del genere il governo ha

autorizzato una seconda discarica a Terzigno,

nella cava Vitiello, un invaso che non è

stato mai messo in sicurezza. Di qui l’indignazione

dei cittadini.

Alla luce di quanto sta accadendo appare

chiaro che quando il presidente del Consiglio

trasformava Napoli in una tribuna per

proclamare conclusa l’emergenza faceva

un po’ di propaganda a buon mercato su

una questione serissima. Sonot rascorsi due

anni dalla precedente drammatica crisi dei

rifiuti a Napoli, la sensazione è di essere allo

stesso punto. Cosa ha da dire Bertolaso,che

ha avuto carta bianca per due anni,della

situazione di estrema difficoltà in cui si

dibattono Napoli e la Campania?

Ora occorre rimboccarsi le maniche per

scongiurare il rischio che la situazione sfugga

del tutto di mano e precipiti nel caos. A

Napoli è indispensabile uno sforzo straordinario

per avviare la raccolta differenziata e

recuperare i ritardi che si sono accumulati

in questa direzione.

E tuttavia qualcuno dovrà spiegare perché

il governo non ha mantenuto l'accordo

firmato con i comuni campani nel 2008

che prevedeva “compensazioni ambientali”

per decine di milioni di euro essenziali per

avviare la raccolta differenziata e per bonificare

alcuni siti particolarmente compromessi.

Perché dei cinque impianti previsti per la

trasformazione della frazione umida dei

rifiuti in “compost”, un fertilizzante per l’agricoltura,

ne è stato realizzato solo uno? Perché

il termovalorizzatore di Acerra non

funziona pieno regime e nessun responsabile

dice una parola definitiva sullo stato dell'

impianto? È ora infine di prendere atto che

c’è stata una grande improvvisazione nel

modo in cui le competenze son passate dal

commissariato agli enti locali. Si è creata

una ulteriore confusione di compiti tra

comuni e provincie con aggravi di costi.

È il caso di parlarsi chiaro: nella situazione

drammatica che si è creata è indispensabile

uno sforzo comune delle istituzioni per

riprendere il bandolo della matassa. Cominci

il governo a dare dei segnali di voler cambiare

rotta.

(22 ottobre 2010)











 



Rifiuti La protesta L' Intervento / 1



La legittima difesa di Terzigno all'ultimo gradino della penitenza


Erri De Luca




Si ordina l' apertura della più grande discarica di rifiuti in Europa nel parco Vesuviano, in zona già gravata da uguale servitù. L' atto non è firmato dal comando di piazza di una truppa di occupazione straniera, ma dall' autorità pubblica di uno stato di diritto. Fraintesa la nozione di stato sovrano, ritiene di poter ridurre dei cittadini a sudditi di un impero d' oltremare.

Dopo promesse affidate alla durata delle cronache del giorno dopo, e alla misericordia del vento, l'autorità si ripresenta su piazza affidando al suo luogotenente il pacchettino di soluzioni. Evidente la sproporzione tra i due termini: le ragioni di una rivolta per legittima difesa e l' incaricato dell'affare. Un protettore civile deve proteggere con metodi civili: ha invece praticato sul posto l'invio di truppe e metodi militari. Stavolta non bastano più, nemmeno se richiamano effettivi dall'Afghanistan smonteranno la vera protezione civile decisa dai cittadini di Terzigno e di altri comuni. È interamente loro il diritto a proteggersi da comunità civile contro la discarica subìta e quella gigantesca e prossima. Già la prima è da sanare. È certo che produce danni fisici. Non solo a Terzigno, è gran parte del sistema di trattamento dei rifiuti a produrre le micidiali nanoparticelle. Si nega ufficialmente l'evidenza, perché non si adoperano, intenzionalmente, rilevazioni adatte a intercettarle. Sta di fatto che nel raggio di discariche e impianti di smaltimento si concentrano leucemie, neoplasie e altre maledizioni.

Contro questa evidenza statistica e scientifica si compatta la barriera dell'omertà ufficiale, più serrata di quella mafiosa. È la dannata contropartita dell'economia dell'abbondanza: la nuova peste, prodotta dagli scarti mal trattati, che produce bubboni dentro anziché in superficie. Si fa gran caso e grancassa intorno ai pericoli della criminalità comune, si gonfiano a mongolfiera modesti episodi di cronaca nera. Si istiga un bisogno artificiale di maggior sicurezza. In questo modo si distrae e si dirotta allarme dalla nuova peste, nascosta e negata, che invece è la più rovinosa aggressione alla incolumità pubblica.

A Terzigno, come già in Val di Susa, una comunità, tutta e intera, si batte per il diritto non trattabile alla vita, alla salute, all' aria, almeno quella pulita. Niente significa la promessa, con l'aiuto del vento, di liberare il naso da umori nauseanti: resta ammorbata intorno a una discarica, pure se sa di prosciutto e fichi. Terzigno si batte con unanimità di vite, età, mestieri differenti ricorrendo all' ultima risorsa dell' opposizione, dopo averle sperimentate invano tutte: la rivolta. Non cederanno, anzi. Sono arrivati all' ultimo gradino della penitenza, da lì si è schiacciati o si vince.

In una rivolta c' è di tutto. Difficile scremare. Chiamano «Rotonda della Resistenza» lo svincolo che smista vie a Boscoreale. Condivido e aggiungo: No pasaràn. Non passerà l' autorità che chiama emergenza l' effetto della sua incompetenza. Non passerà l'arbitrio di degradare una comunità a lazzaretto. Non passerà nessuna misura imposta con la forza, che ormai non è giusto definire pubblica. È di parte e di una parte che ha torto. Parte lesa è Terzigno che ha preso in mano il suo destino e non se lo fa più spupazzare. Magnifica è già stata la loro pubblica respinta di indennizzi e compensi. «I figli non si pagano», dice Filumena Marturano. Così dice pure Terzigno.

A Napoli intanto cresce la temperatura a dispetto dell' autunno inoltrato. Appartengo per nascita a quella gente accampata sotto un vulcano attivo. Conosciamo lunghissime pazienze e fuochi spenti. Ma quando arriva al bordo la colata di collera, la città si ritrova densa e compatta come lava. Nessun sismografo l' avverte quando è pronta e allora guai a chi tocca.

(24 ottobre 2010)



Amministratori Comune di Terzigno

Sindaco Domenico Auricchio

Partito: Centro-Destra (Liste Civiche)


 

Amministratori Comune di Boscoreale

Sindaco Dott. Gennaro Langella

Partito: Il Popolo della Libertà


 

Chi è causa del suo mal…





 



 










venerdì 22 ottobre 2010

E l'infame sorrise








Il senso di ribrezzo ascoltando quella frase: “Ammazzane un’altra”, quasi stordisce. Provocano nausea gli applausi e i cori da stadio di quel manipolo di idioti, nullatenenti mentali, che si rendono così simili all’assassino italiano e, nello stesso tempo, violentano ancora una volta, da morta, Maricica Hahaianu, oltraggiandone la memoria.

Mi fanno schifo questi nullatenenti mentali (pure miei connazionali) che dovrebbero spiegare, se riescono ad abbozzare un ragionamento, per quale stravaganza il loro amichetto dovrebbe restare libero.

Anche questa sottocultura esprime in maniera vomitevole i tempi, oscurati dalla ragione, che stiamo vivendo.

Povera Maricica: che la terra ti sia lieve.

 










Quell' applauso ad Alessio che ferisce i romeni


CHIARA SARACENO



NON ho dubbi che Alessio Burtone non intendesse uccidere l' infermiera romena quando le ha sferrato un pugno nel metrò di Roma. Ma lo stesso vale forse per la giovane romena che qualche anno fa colpì con l' ombrello un' altra giovane donna, italiana, perforandole un occhio e causando così un' emorragia violenta che provocò una morte quasi immediata. Eppure, la reazione dell' opinione pubblica, dei politici, persino dei cosidetti "esperti" è stata molto diversa. Gli applausi ad Alessio Burtone quasi che fosse un eroe vendicatore e gli insulti ai carabinieri che lo portavano in carcere sono speculari al modo in cui fu invece trattata la giovane rumena diventata assassina per un gesto maldestro: accusata di essere una belva violenta e assetata di sangue. E l'episodio fu subito inquadrato come esempio della pericolosità dell'immigrazione, in particolare rumena, di "loro" contro "noi. Tantomeno ci fu chi, tra politici e penalisti, sollevò la questione della giovane età, della vita rovinata per un gesto inconsulto, nonostante la dura condanna della giovane donna a molti anni di carcere privasse una bambina della presenza della madre. Sono assolutamente d' accordo: un omicidio preterintenzionale va considerato diversamente da un omicidio intenzionale. E a chi è giovane deve essere lasciata aperta la via per recuperare, per non perdere del tutto la propria vita, specie se le conseguenze sono andate molto al di là delle intenzioni. Ma ciò deve valere per tutti. Nessuno invece ascoltò a suo tempo la giovane rumena. Nessuno prestò fede al suo sbalordimento e al suo pentimento. Perché era una rumena, per definizione pericolosa e soprattutto estranea: facile capro espiatorio di tutte le paure e insicurezze. Sbaglia Fini a considerare l'episodio della solidarietà scomposta al giovane romano solo un esempio della violenza urbana, senza connotati etnico-razziali. Non si tratta solo dell'omertà con cui sono stati protetti gli aggressori del tassista milanese. La solidarietà qui è provocata innanzitutto dalla nazionalità della vittima: immigrata, rumena, che non sapeva stare al proprio posto. Più simile, nell'immaginario distorto continuamente alimentato da un discorso pubblico troppo spesso irresponsabile, alla giovane assassina preterintenzionale di qualche anno fa, che non alla sua vittima. Questo discorso pubblico, che usa scientemente la paura e la stereotipizzazione dell' altro, che distingue vittime e carnefici a seconda della nazionalità, sta lentamente corrodendo il senso comune civile ed ha effetti devastanti su chi manca di adeguati strumenti di auto-controllo.


(20 ottobre 2010)















L'ANALISI

Ma oggi, tra italiani e romeni ci vuole una nuova Colonna Traiana



Un giornalista romeno scrive per Repubblica.it il punto di vista della sua gente sulla vicenda di Maricica Hahaianu. Xenofobia, strumentalizzazioni politiche e sensazionalismo sono alla base del problema. Forse sarebbe necessario un gesto d'amicizia



di HORIA GHIBUTIU (editorialista del quotidiano romeno Evenimentul Zilei) 1

 

BUCAREST- Circa duemila anni fa, ai tempi dell'antica Roma, finiva la costruzione del bassorilievo che oggi si può ammirare sulla Colonna Traiana. Le immagini scolpite riportano vivi momenti di lotta durante le due campagne militari intraprese dagli antichi romani in Dacia. Sono tanti i turisti che ogni anno passano per la Città Eterna, ma non per tutti le scene scolpite sulla Colonna di Traiano suscitano lo stesso interesse, come per i romeni. In effetti, per noi romeni la Colonna ha un significato del tutto particolare, perché traccia in qualche modo l'atto di nascita del popolo che vive oggi tra i Carpazi, il Danubio e il Mar Nero.

Col tempo siamo scesi dalla colonna, diventando italiani e romeni, e per secoli ci siamo fatti gli affari nostri. Ed eccoci arrivati nel terzo millennio. I discendenti dei daci e dei romani sono di nuovo in guerra. Cambia il palcoscenico, ma non gli attori, non più nell'antica Dacia, ma nella Penisola.

Il più recente conflitto italo-romeno, come se non fosse sufficiente il tanto discusso caso Mailat, infiamma di nuovo l'opinione pubblica dei due Paesi. Si tratta di Maricica Hahaianu, infermiera romena, che a seguito di una banale discussione avuta con un ragazzo italiano  -  Alessio Burtone  -  alla fermata di metropolitana Anagnina di Roma, viene colpita, va in coma e successivamente muore all'ospedale. Come viene percepito questo incidente in Romania? È facile che un simile episodio s'impadronisca dell'attenzione dell'opinione pubblica, visto il malumore, nonché le tensioni sociali e politiche che hanno caratterizzato questo Paese negli ultimi mesi. Così, abbiamo saputo che, previa ordinanza del Gip, il ragazzo italiano accusato di aver cagionato la morte della romena è stato trasferito in carcere. Abbiamo anche appreso che gli amici del ragazzo hanno insultato i carabinieri venuti per accompagnarlo in carcere, e dopo averlo applaudito e aver scandito il suo nome  -  come i tifosi allo stadio  -  hanno chiesto la sua liberazione. Secondo loro, Alessio Burtone sarebbe innocente e non si meriterebbe questo trattamento. Anzi, il difensore del giovane avrebbe dichiarato che, nel caso si dovesse provare la sua innocenza, chiamerà in giudizio tutti coloro che hanno osato dargli dell'assassino.


Ci si chiede quindi chi speculerà e chi strumentalizzerà di più la situazione creata dal "caso Hahaianu". Ormai si capisce che sia diventato un veicolo politico. In tal senso, un deputato del principale partito di opposizione romeno  -  ovvero il Presidente del PSD Diaspora  -  ha rivolto una lettera al Presidente Silvio Berlusconi, nella quale dice testualmente: "Un crimine sorpreso dalle videocamere di sorveglianza, che ha fatto il giro di tutte le emittenti romene e italiane, lasciando senza parole milioni di telespettatori. L'identità dell'aggressore, un giovane italiano di 20 anni, non andrebbe nemmeno svelata per quanto sia orrendo il fatto. Perciò, sono convinto che un fatto del genere sarebbe condannato ovunque. Il Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha dichiarato che l'aggressione subita dalla Hahaianu non è stata di carattere razziale. Eppure i fatti verificati dopo il triste episodio della metropolitana farebbero pensare che per taluni è più importante la nazionalità delle due vittime, che la triste tragedia che ha commosso le anime".

Sui siti di alcune testate romene si sono accesi i dibattiti. Hanno fatto perfino riferimento ad una questione di ordine fonetico, legata al fatto che il piazzale sito vicino alla fermata della Anagnina  -  dove, secondo il presidente della X° Circoscrizione di Roma, si incontrerebbero la domenica i romeni per assaggiare un pochino dei loro prodotti tipici e per ascoltare la loro musica tradizionale  -  si dovrebbe chiamare Piazza Hahaianu, cognome che agli italiani verrebbe difficile pronunciare, se non "Aianu". Si è parlato inoltre di come sia scoppiata la lite tra i due, chi ha inizialmente provocato l'altro, hanno espresso dei pareri circa la tipologia dell'uomo che possa colpire in questo modo una donna, del fatto che la stampa italiana ha sempre infuocato l'opinione pubblica, generando dei sentimenti xenofobi contro la comunità romena. Il risultato è che tutti hanno ragione: i politici strumentalizzano gli incidenti per usarli ai fini elettorali; i media esagerano, dando un eccessivo risalto ai fatti di cronaca; gli stranieri non sono sempre e ovunque benvenuti. 

Quando riusciremo a superare e a parlare un po' meno di questi conflitti? Probabilmente allorquando all'interno dell'Unione Europea - che ha reso possibile il raggruppamento dei discendenti dell'antica Roma e dell'antica Dacia intorno alla Colonna Traiana  -  verrà costruito un nuovo monumento: quello dell'amicizia tra romeni e italiani. Sembra un'utopia? La costruzione di una nuova colonna dalla quale tutti avranno qualcosa da guadagnare e nulla da perdere. Ma ciò sarà possibile solo quando impareremo a convivere e a smettere di guardare sempre la provenienza anagrafica ogniqualvolta avvenga qualche lite.

(Traduzione di Loredana Ceausu)

(20 ottobre 2010)

 

http://boldrini.blogautore.repubblica.it/2010/10/e-se-il-rumeno-fosse-stato-alessio/



http://www.avoicomunicare.it/blogpost/se-maricica-fosse-stata-italiana-e-il-suo-assassino-romeno




http://www.iromeni.com/

 


 

 

 

 


lunedì 18 ottobre 2010

La notte dei miracoli








Ho guardato più volte questo video negli ultimi giorni, dopo aver seguito le prime fasi dello straordinario salvataggio dei 33 minatori cileni avvenuto nei giorni scorsi. L’ho voluto vedere e rivedere, non soltanto per provare ogni volta una potente scossa emotiva, ma soprattutto per disintossicarmi dopo giornate torbide in cui ambiguità, violenza, sentimenti distorti si sono impadroniti della cronaca, la più nera. Da una parte la resurrezione, la rinascita a nuova vita, dall’altra la morte vissuta su un set televisivo.

Osservare il figlio di Florencio Avalos, dapprima nell’attesa composta, con il palloncino in mano, poi il sorriso seguito dal pianto e infine il tuffo tra le braccia del padre, il primo minero salvato, è stato commovente, ma anche disintossicante, lontanissimo dalle lordure di casa nostra. Perché la gioia di un bambino non ha prezzo.


 



 









IL RACCONTO

Il Cile che rinasce dal sottosuolo



di LUIS SEPULVEDA

 

IL Cile è un paese che cresce nelle tragedie. Il poeta Fernando Alegría ha scritto: "Quando ci colpisce un temporale o ci scuote un terremoto, quando il Cile non può più essere sicuro delle sue mappe, dico infuriato: viva il Cile, merda!". Nel mese di agosto, con la metà del sud del paese ancora tra le rovine provocate dal terremoto del 27 febbraio, giunse l'allarme dal nord, dal deserto di Atacama e venimmo a sapere che 33 minatori erano rimasti intrappolati.

Erano rimasti imprigionati, dopo il crollo di una miniera di proprietà di un'impresa che violava tutte le regole di sicurezza sul lavoro.

Trentatré uomini, uno dei quali boliviano, sono rimasti intrappolati a 700 metri di profondità per 69 giorni finché, nonostante lo spettacolo mediatico organizzato dal governo, hanno cominciato a uscire uno dopo l'altro dalle profondità della terra.

Mentre scrivo queste righe ne sono già usciti una decina, sono usciti in piedi, ricevendo il caloroso saluto dei loro compagni di lavoro che li hanno cercati e trovati, e che hanno scavato la dura roccia promettendo loro, con il sobrio linguaggio dei minatori, che li avrebbero tirati fuori da lì.

Quando è uscito il primo, il presidente Piñera ha ringraziato Dio e la nomenclatura per ordine di importanza negli incarichi, ma ha dimenticato di ringraziare i minatori della Pennsylvania, che avendo sperimentato una tragedia simile si sono fatti solidali con i loro lontani colleghi di Atacama e hanno messo a disposizione le conoscenze tecniche  -  la cultura mineraria  -  e parte dei macchinari che hanno reso possibile il salvataggio.

Mentre tiravano fuori il secondo minatore, che usciva dal caldo e dall'umidità di quella reclusione a 700 metri sottoterra per affrontare il clima secco e i 10 gradi sotto zero del deserto, il presidente Piñera non ha resistito alla tentazione di un'altra conferenza stampa "in situ", il cui unico tratto rilevante è stata una vacillante dichiarazione d'intenti a favore della sicurezza sul lavoro dei minatori. Nella sua evidente goffaggine, Piñera non dice che proprio la destra cilena ha incarnato la più feroce opposizione a un regolamento sulla sicurezza del lavoro, sostenendo che i controlli sono sinonimo di burocrazia e attentano alla libertà di mercato.

Durante il suo show, carico di gesti religiosi, Piñera ha omesso qualsiasi riferimento alla triste situazione degli altri duecento e passa minatori della stessa impresa, che lavoravano nella stessa miniera e che da agosto non ricevono il loro salario.

Indubbiamente, è emozionante vederli uscire, uno per uno, e ancor più emozionante è vedere che quei minatori, nonostante i regali promessi, un viaggio in Spagna per vedere una partita del Real Madrid, un viaggio in Inghilterra per vedere una partita del Manchester United, un iPhone di ultima generazione, un viaggio in Grecia, e perfino diecimila dollari per uno donati da un imprenditore cileno che aspira a diventare presidente del Paese, nonostante tutto questo continuano a essere dei minatori e proprio per questo hanno annunciato la creazione di una fondazione che si preoccupi della situazione di tutti i minatori colpiti dal crollo della miniera.

Tirarli fuori da lì è stata una prodezza, ma una prodezza di tutti quelli che hanno sudato finché non ce l'hanno fatta. E la maggior prodezza sarà ottenere che in Cile si rispettino le norme di sicurezza sul lavoro perché non accada mai più che 33 minatori scompaiano nelle viscere della terra.

(Traduzione di Luis E. Moriones)

 (14 ottobre 2010)





 




Il miracolo della vita nel deserto della morte



Hernàn Rivera Letelier

 

La storia del deserto di Atacama è coronata di tragedie (come una lunga muraglia è coronata dai vetri rotti). Scioperi interminabili, marce contro la fame, incidenti fatali, minatori mitragliati e cannoneggiati senza pietà in massacri inconcepibili. Tutto questo a causa di una lunga storia di ingiustizie che, malgrado gli anni e i fiumi di promesse politiche, si sono conservate inalterabili, come acide mummie di Atacama. Si dice Deserto di Atacama e si legge dramma, sfuttamento e morte. Per questo ormai era ora che si vivesse un'epopea con un lieto fine. Era ora che la terra irrigata da tanto tempo con il sangue, il sudore e le lacrime dei minatori, tornasse ad essere verde e restituisse dal suo ventre frutti di vita. Qui sangue, sudore e lacrime non è una frase volgare. Io che ho vissuto 45 anni in questo deserto, che ho lavorato nelle miniere a cielo aperto - solo due volte e per brevissimi tempo l'ho fatto nelle miniere sotterranee - posso dirlo con cognizione di causa: il deserto di Atacama è bagnato di sangue, sudore e lacrime.

Il recupero dei 33 minatori di Copiapò, oltre a un trionfo della tecnologia, si alza da questo deserto come una lezione di vita per l'umanità intera. Una prova del fatto che quando gli uomini si uniscono a favore della vita, quando offrono la loro conoscenza e i loro sforzi al servizio della vita, la vita risponde con altra vita. Qui non si è lavorato per cercare oro, petrolio o diamanti. Qui si cercava la vita. Ed è zampillata la vita, 33 fiotti immensi. E all'esplosione di applausi e abbracci e risate bagnate di lacrime della moltitudine nella miniera, e del giubilo di campane e delle sirene delle città del paese, si è sommato l'allegria emozionata del mondo intero. Eravamo tutti esseri umani commossi fino al midollo. Perchè man mano che ognuno dei minatori cominciava a risalire, a uscire, a rinascere dalle viscere della terra, ognuno di noi lo sentiva come se stesse emergendo dal fondo del suo stesso petto. E' stata la celebrazione totale della vita (...) io propongo un Elogio alla vita.

Un messaggio per i 33: sia lieve a loro la marea di luci, telecamere, flash che sta per travolgerli. Ė vero che sono sopravvissuti a quella lunga stagione all'inferno, ma in fin dei conti per loro era un inferno conosciuto. Quello che sta per arrivarvi addosso, compagni, è un inferno completamente inesplorato da voi: l'inferno dello spettacolo, l'alienante inferno dei set televisivi. Una sola cosa vi dico, compaesani: aggrappatevi alle vostre famiglie, non le mollate, non perdetele di vista, non lasciatevele sfuggire, aggrappatevi ad esse come vi siete aggrappati alla capsula che vi ha tirato fuori dal buco. È l'unica maniera di sopravvivere a quell'alluvione mediatica che sta per arrivarvi addosso. Ve lo dice un minatore che di questa roba ne sa qualcosa.


(Traduzione di Pierpaolo Marchetti)

(15 ottobre 2010)

 


mercoledì 13 ottobre 2010

Becchini istituzionali

ottobre 10 2010   
Sciacalli


Vignetta di Mauro Biani tratta dal blog:
http://maurobiani.splinder.com/



Basta, basta, basta con gli applausi, con le bandiere abbrunate, con i discorsi di circostanza ipocriti pronunciati dai mandanti delle uccisioni in terra afghana. Perfino le lacrime spuntano agli ex ragazzi di Salò che adesso non credono ai propri occhi: poter finalmente “giocare” con carri armati e armi in quantità. Il ministro della Guerra si trova talmente a suo agio in tutto questo che nell’orgia delirante anela all’aspirazione suprema: le bombe.
La compagnia di giro annuisce compunta. Andate a farvi morire ammazzati voi, che noi vi garantiamo funerali di 1ªcategoria, in diretta televisiva, in modo che tutte le mamme italiane vi possano adottare.  
La rabbia posso esprimerla con il disgusto per questa associazione a delinquere chiamata convenzionalmente “governo” e fornendo materiale per capire, andando oltre la patina stucchevole del Paese che deve essere unito. Perche i talebani li abbiamo in casa.


APERTURA
Ci sono caduti
Sale a 34 il numero dei soldati italiani caduti in Afghanistan in quella che il governo, insieme al Pd, si ostina a definire «missione di pace». Ieri quattro alpini uccisi in un agguato ai confini dell'Helmand, la «zona calda» del conflitto in cui  erano andati a sostituire le truppe Usa. Crescono i dissensi  anche tra i militari del contingente, ma in base al nuovo codice da oggi non possono più parlare. E a La Russa viene un'idea risolutiva: bombardare dall'alto i taleban
 
 



Ritirarsi subito



di Giuliana Sgrena


 


«Beato quel paese che non ha bisogno di eroi», diceva Bertolt Brecht. L’Italia è così poco beata che celebra come eroi anche i caduti in guerra. Chi va in guerra sa di rischiare la vita e non basta chiamare la spedizione missione di pace per evitare la morte. Non si tratta di disprezzare la vita dei militari, tutt’altro, vorremmo non dover più scrivere di morti in Afghanistan, ma per farlo occorre ritirarsi immediatamente da quel paese.E non siamo nemmeno «sciacalli» come sostiene il ministro della difesa La Russa perché vogliamo porre fine a una guerra che sta dissanguando un paese e anche le nostre truppe.
Con gli alpini morti ieri sono 34 gli italiani caduti in Afghanistan. E gli scontri a fuoco, le operazioni di guerra in cui sono coinvolte le nostre truppe aumentano e sono destinate ad aumentare, così come il nostro impegno. L’Italia ha promesso di inviare nuovi soldati, entro la fine dell’anno saranno 4.000. Non si tratta solo di maggior impegno, ma anche di un ingaggio sempre più rischioso sul terreno. Dopo il ritiro delle truppe britanniche da Sangin l’Italia ha dovuto spingere i propri soldati sempre più verso la provincia di Helmand, roccaforte dei taleban, per coprire zone prima occupate dagli americani. Ed è proprio in una di queste zone, il Gulistan, che è avvenuta l’imboscata di ieri.
Oggi è un giorno di lutto e noi rispettiamo il dolore delle famiglie, ma da domani bisogna impegnarsi per il ritiro immediato dall’Afghanistan. Non c’è molto da riflettere occorre trarre delle conclusioni dopo nove anni di guerra che non hanno risolto nessun problema agli afghani. Questo evidentemente non è l’obiettivo della Nato tanto che il governo italiano sostiene che siamo in Afghanistan per proteggere il nostro paese dal terrorismo. Peccato che a smentirlo sia il presidente Usa Obama: non penso che gli Stati uniti siano più sicuri, ha detto. Obama si scontra con i suoi generali per annunciare la data del ritiro dall’Afghanistan (2011) e in Italia il segretario del Pd Bersani sostiene che «non si agisce fuori dal contesto delle nostre alleanze». Certo il fallimento dell’intervento in Afghanistan segnerebbe una sconfitta per la Nato nel suo primo intervento al di fuori dei confini. E speriamo che questa sconfitta – non c’è nessuna possibilità di riuscita – contribuisca al disgregamento dell’Alleanza atlantica, che peraltro non ha più ragion d’essere dopo la caduta del muro di Berlino.
In questo panorama italiano desolato, dove solo l’Italia dei valori e la sinistra non più rappresentata in parlamento (Sel, Prc, etc.) chiedono il ritiro, risulta particolarmente assordante il silenzio e l’assenza di qualsiasi voce pacifista.Eppure alla vigilia della guerra in Iraq centinaia di migliaia di pacifisti erano scesi in piazza per evitare la guerra basata su un falso pretesto. La «seconda potenza mondiale» tuttavia non era riuscita a far sì che la macchina da guerra messa in moto da Bush si fermasse. La guerra e l’occupazione dell’Iraq sono state disastrose, il movimento pacifista probabilmente ha interiorizzato quel senso di sconfitta ed è rimasto paralizzato per anni. Nemmeno l’ammissione da parte di Obama che quella guerra è stata persa ha risvegliato l’orgoglio dei pacifisti.O sarà forse che nel frattempo quel che resta del pacifismo si è troppo istituzionalizzato per spingere i partiti della sinistra e scendere in piazza per chiedere la fine della guerra in Afghanistan?
Un movimento pacifista, quello italiano, che fin dalla sua nascita all’inizio degli anni ottanta aveva puntato la sua attenzione sul Mediterraneo e Medioriente convinto che quella fosse la zona più esplosiva, ora si è accasciato mentre il Medioriente e l’Afghanistan sono in fiamme.
I pacifisti tacciono mentre un gruppo di deputati e «intellettuali» bipartizan (compreso Roberto Saviano) esprimono la loro solidarietà al governo israeliano che nega qualsiasi diritto ai palestinesi. Possibile che non ci sia più nemmeno un intellettuale disposto a spendersi contro la guerra in Afghanistan per salvare gli afghani, innanzitutto, ma anche i soldati della coalizione, italiani compresi? Non vogliamo il ritiro dall’Afghanistan per abbandonare gli afghani al loro destino, chiediamo innanzitutto un sostegno diretto al popolo afghano con forme di cooperazione civile, svincolata da attività militari. La soluzione del conflitto deve avvenire attraverso processi diplomatici che non portino a una ulteriore tribalizzazione della società, che penalizzerebbe ancora una volta soprattutto le donne. È importante anche un sostegno al processo di giustizia trasnazionale per i crimini commessi dai vari signori della guerra (alcuni dei quali sono al governo), dai taleban, dalla Nato e dagli Stati uniti. La verità e la giustizia possono essere la base per una reale riconciliazione e modernizzazione del paese.

Rimettiamo le bandiere della pace alle nostre finestre, sarà un segnale che non vogliamo eroi ma un impegno a costruire la pace. A partire dall’Afghanistan.
(10 ottobre 2010)

 





APERTURA   |   di Emanuele Giordana – KABUL
Ora ha paura anche Kabul
 
Il Pakistan vuole guidare il negoziato, i sauditi intendono giocare la loro parte, per frenare i jihadisti. La trattativa di pace non decolla e il fronte del conflitto si estende a macchia d'olio
Kabul vive sospesa in una bolla che galleggia sopra la guerra. Una guerra lontana nella città delle trame sottotraccia, parvenza di convivenza civile in una capitale su una linea del fronte che è alle sue porte, appena fuori, qualche chilometro.

E mentre a Kabul, a Dubai, alle Maldive si fanno prove sotterranee di negoziato, il conflitto si estende a macchia d'olio, non solo nel Sud e nell'Est del paese ma, in modo sempre più preoccupante, anche nel Nordest e nel Nordovest. L'impressione è che i fronti, oltre che numerosi, vadano molto per conto proprio. Con un bilancio di vittime costante.
Mentre arrivava la notizia dei soldati italiani ammazzati, altre fanno da contorno: una scozzese di 36anni di una Ong americana uccisa mentre i soccorritori cercavano di sottrarla ai suoi rapitori, a Kunar. E la strage di venerdì alla moschea di un villaggio vicino a Kunduz, dove un'esplosione si è portati via, col governatore, anche venti poveracci che pregavano Allah. Si indica Hekmatyar, in questo caso. Per la vicenda di Kunar chi sa chi c'è dietro. Banditi? La filiera degli Haqqani, la potente banda taleban «spuria», vicina ai qaedisti? La più violenta, accusata degli assalti all'hotel «Serena», alla Guest House dell'Onu, allo stesso presidente. Proprio gli Haqqani, dicono qui, sono più calmi: da otto-nove mesi non fanno azioni eclatanti. «Forse c'è un accordo tra il governo e i pachistani per fare pressione su di loro», suggerisce un amico giornalista che dirige un'agenzia di stampa locale.

Intanto, nella città sospesa, si riesce ad andare ai giardini di Babur a passeggio. A gustare pannocchie arrostite che hanno sostituito, sul far dell'autunno, i meloni e le mandorle sgusciate. Ma l'atmosfera resta tesa ed è difficile ignorare che tutto intorno la morte continua a lavorare.
Nel silenzioso ospedale di Emergency i numeri della gente in cura parlano da soli: l'80% delle persone ferite che arrivano al nosocomio hanno i segni di qualche rissa, coltellate di parenti, faide famigliari. Il restante, ferite da guerra vere e proprie, è tutta gente che viene da altre province. Diverso, ci spiega Claudio Gatti, se si guarda cosa racconta l'ospedale di Lashkargah: feriti da arma da fuoco, schegge, mine messe lungo la strada. «Non c'erano mine in quella zona quando aprimmo il nosocomio. Ma adesso....», commenta un medico.
Il sistema di sicurezza locale delle Ong internazionali dà invece i dati sulla valle del Gulistan, teatro della mattanza che ha coinvolto gli italiani. Dicono che nel 2010 gli «Ied», le bombe «sporche» appoggiate sul ciglio della strada, sono aumentate e che il 90% di questi attentati ha riguardato i militari. Quest'anno però, per la prima volta, un Ied ha ucciso tre civili il 29 agosto. Conclude la fonte che gli attentati ai soldati finiscono comunque per avere un «effetto collaterale» sui civili.

Fuori dalla conta delle vittime, dalle ipotesi sui mandanti e gli esecutori, lontana dalla guerra, la capitale intanto vive una seconda vita sotto traccia. La stampa americana ha rilanciato una pista saudita che avrebbe luce verde da mullah Omar, il capo storico dei taleban. La stampa britannica e quella araba hanno invece dato per possibile un negoziato, separato, con il gruppo della famiglia Haqqani. Altre fonti locali, come dicevamo, ci confermano la voce. Poi, come è noto, ci sono stati contatti più che ufficiali con gli emissari di Hekmatyar, signore della guerra che controlla parte dell'Est e del Nord. Nella capitale, nei giorni scorsi e continuando a cambiare albergo, si è fatta viva invece una delegazione «non ufficiale» del Pakistan, il Paese che vorrebbe guidare il negoziato per essere sicuro di controllarlo. In pista dunque ci sono due grandi padrini: pachistani e sauditi. I primi cominciano a temere che la bomba taleban, già deflagrata in casa, vada fuori controllo e danneggi anche Islamabad. I secondi temono l'instabilità dei due paesi dove bivaccano e guerreggiano i jihadisti che equiparano Riyadh a Washington. Speranze dunque?
Presto per dirlo. Temiamo che a chiederlo a quel bambino smoccolante col vestitino sudicio, condannato - come altri 4mila - a elemosinare nel centro della città, risponderebbe che di questa parola ha perso il suono. E soprattutto il senso.
Lettera22
(10 ottobre 2010)




I CONTI CON LA GUERRA E CON LA PACE


di Emanuele Giordana


 
Il distretto del Gulistan è una zona impervia al confine con l'Helmand, una delle aree più conflittuali dell'Afghanistan. E' li che è avvenuta la strage dei militari italiani. Relativamente fuori dai giochi durante l'era dei talebani, la valle del Gulistan non arriva a 60mila abitanti, in maggioranza pashtun, e, militarmente, non ha mai dato grossi problemi se non sporadicamente. Ma forse adesso le cose sono cambiate.
Nella regione di Farah la pressione dei talebani non è fortissima e il comando Ovest, a guida italiana, riesce a tenere sotto controllo la situazione. Da alcuni giorni era in corso un'offensiva degli italiani nelle aree sotto il loro controllo e il Gulistan era stato prescelto per una nuova base avanzata in modo da “sigillare” il Farah che ricade sotto diretto controllo italiano. Ma e Est del Farah, al confine col distretto del Gulistan, c'è Helmand, dove i talebani dettano legge, sotto pressione da parte delle truppe britanniche della Nato a guida americana. E' la regione dove si trova l'ospedale di Emergency, a Lashkargah. La situazione lì è sempre tesa.
Claudio Gatti, un volontario dell'organizzazione di Gino Strada, ci spiega che nell'ospedale della Ong milanese da poco riaperto, il numero dei feriti è in costante aumento. Il suo racconto stride con la pace che permea l'ospedale nel centro di Kabul. E in effetti anche la capitale è tranquilla. Qualche fuoco d'artificio alla mattina, razzi sparati dalle montagne e qualche ordigno in periferia ma non molto di più. Le forze di sicurezza afgane, che hanno ormai il totale controllo della città, hanno costruito un vero e proprio anello di sicurezza che la sigilla rendendo il centro quasi impenetrabile per kamikaze e commando.
Kabul vive sospesa come in una bolla sopra la guerra che invece si è estesa a macchia d'olio, non solo nel Sud e nell'Est del Paese, ma - ma in modo sempre più preoccupante - anche nel NordEst e nel NordOvest, altra area di sorveglianza italiana. Ma a Kabul c'è persino il tempo di andare ai giardini di Babur per la scampagnata del venerdi, la domenica afgana.
In città la guerra sembra lontana anche se è presente, presentissima, nelle preoccupazioni del governo di Karzai e dei suoi alleati che, chiusi nei loro quartier generali o nel Palazzo presidenziale, stanno tirando la rete, fragile e complessa, del negoziato. Ufficialmente c'è un Consiglio superiore di pace, formato da 68 persone dal dubbio passato e sotto accusa da parte della società civile locale, dall'altra c'è tutta una filiera di contatti segreti e riunioni a porte chiuse, alcune delle quali proprio a Kabul. Ma in che direzione vada il processo di pace è difficile da dire.
La stampa americanaha rilanciato una pista saudita che avrebbe luce verde da mullah Omar, il capo storico talebano. La stampa britannica e quella araba hanno lanciato l'ipotesi di un possibile negoziato, a questo punto separato, con il gruppo della famiglia Haqqani, una filiera talebana ma abbastanza indipendente da mullah Omar e che controlla l'Est dell'Afghanistan. Poi ci sono stati contatti anche ufficiali con Hekmatyar, ex signore della guerra che controlla parte dell'Est e del Nord. A Kabul invece, nei giorni scorsi e continuando a cambiare albergo, si è fatta viva una delegazione del Pakistan il Paese che vorrebbe guidare il negoziato per essere sicuro di controllarlo.
Nella strada si vendono pannocchie rosolate e un numero crescente di bambini di strada (sarebbero 4mila) fa la questua. All'ombra dei nuovi palazzi di specchi e lustrini che raccontano il boom edilizio di questa capitale della guerra dove si aggira lo spettro della povertà e del dolore ma anche quello del denaro facile.


(10 ottobre 2010)

http://emgiordana.blogspot.com/


APERTURA
Fermiamo lo spettacolo
«Signor ministro, godetevi lo spettacolo». La rabbia dello zio di uno dei militari uccisi all'arrivo delle salme dall'Afghanistan non ferma La Russa e il governo, decisi a bombardare dall'alto. La Nato approva: «Armare i caccia con le bombe non è in contraddizione con la missione». Ora il Pd precisa: «Non è utile, si rischiano vittime civili». Oggi i funerali




Tagli alla sicurezza ma la Difesa tace


|   Andrea Fabozzi
 
 


È di circa 850 euro al mese lo stipendio di un caporale degli alpini, uno qualsiasi dei quattro uccisi ieri in Afghanistan. La missione garantisce invece tra i 25 e i 30mila euro di guadagno supplementare, in sei mesi. Soldi indispensabili per convincere un soldato in ferma prolungata – che non ha alcuna garanzia di mantenere il lavoro alla scadenza dei quattro anni e che anche in caso venisse confermato si troverebbe per i prossimi tre anni con lo stipendio bloccato – a rischiare la vita.
Servirebbero soldi anche per garantire la sicurezza dei soldati in Afghanistan ma le ultime due manovre economiche hanno tagliato un miliardo l’anno alla difesa. Non agli investimenti per l’acquisto di sofisticati sistemi d’arma, ma alle spese generali e al reclutamento. Ragione per cui il ministro La Russa ha cominciato ad annunciare l’invio in Afghanistan dei veicoli blindati Freccia due anni fa – il 28 ottobre 2008, hanno ricostruito il deputato radicale Maurizio Turco e il segretario del partito per i diritti dei militari Luca Comellini – ed è effettivamente riuscito a spostarne 17 nella zona di Shindand solo a luglio scorso. Non i 250 previsti dal programma di acquisto, non i 54 effettivamente ordinati, ma solo i 17 realmente pagati. Risultato: ieri gli alpini italiani erano ancora a bordo del veicolo tattico leggero Lince che non ha resistito all’esplosione.
La Russa ha persino cominciato a mettere in dubbio il programma di sostituzione dei Lince. «Dobbiamo valutare – ha detto -, il Freccia ha meno mobilità e velocità». Raggiunge i 105 Km/h com’è stato spiegato alla parata delle forze armate a Roma, dove il Freccia era in bella mostra. Più che sufficienti per un’operazione come quella che ieri è costata la vita ai soldati italiani, la scorta a una colonna di settanta camion.
Il governo ha trovato i fondi per la mini naja che stava a cuore a La Russa e alla ministra Meloni (20 milioni di euro in tre anni), e ha trovato i fondi per mandare i militari a fare lezione nelle scuole lombarde per «avvicinare gli studenti alle forze armate» (parte delle spese a carico degli studenti). Ma a marzo per risparmiare ha dimezzato la durata dei corsi di indottrinamento propedeutici alle missioni all’estero. Da due settimane a una. Racconta un sottufficiale dell’aeronautica che ha frequentato uno di questi corsi nella sede del Terzo Stormo, l’aeroporto di Villafranca a Verona (dobbiamo concedergli l’anonimato): «In una settimana ci hanno “insegnato” di tutto, dal diritto umanitario alle regole d’ingaggio a nozioni sull’Islam. Alla sicurezza sono stati dedicati due giorni». E in uno di questi giorni, uno soltanto, si è parlato proprio degli ordigni improvvisati: i micidiali Ied che hanno colpito ancora ieri.
«Il corso – racconta il sottufficiale – si basa su una simulazione estrema. Si tratta di trovare uno di questi ordigni lungo un percorso di 2,5 chilometri, sapendo in partenza che effettivamente c’è, è lì nascosto. Nella pratica in Afghanistan si affrontano spostamenti di 300 Km senza nessuna certezza. In più, non avendo mezzi Lince né tanto meno Freccia, il nostro finto convoglio procedeva a bordo di semplici veicoli militari che permettono una perfetta visibilità del suolo. Ovviamente uscendo da quel corso nessuno di noi si sentiva più sicuro – continua il sottufficiale – e in effetti i colleghi che sono già in Afghanistan mi hanno raccontato che in pratica si comportano diversamente. Se si avverte un pericolo la prassi non è più quella di fermarsi e recintare l’area ma semplicemente si torna indietro». Così ai militari in partenza per Herat, Kabul e Shindand è capitato di ricevere consigli molto banali: «Se durante uno spostamento vi accorgete che una strada in genere affollata, magari dove si tiene un mercato, resta invece deserta, state allerta perché potrebbe trattarsi di un agguato».
La situazione è questa, dunque non c’è da stupirsi che per la difesa sia diventato difficile riuscire a coprire i turni della missione in Afghanistan. La disoccupazione resta il miglior alleato dei reclutatori che ultimamente sono stati costretti a spedire in guerra anche i volontari senza esperienza, quelli arruolati per solo due o tre anni. Ma il sistema più sicuro per coprire i buchi è quello di considerare disponibili per le missione in Afghanistan tutti quelli che in passato si erano offerti per una missione all’estero, magari molto meno pericolosa come in Kosovo o in Bosnia. Una volta data la disponibilità a partire non si può più recedere, a meno di non voler rischiare un procedimento disciplinare. E visto che non ci sono i soldi per garantire la sicurezza e la paura aumenta, il governo si è preoccupato di impedire ogni possibile manifestazione di dissenso, vietando ai soldati qualsiasi dichiarazione pubblica su qualsiasi argomento «collegato al servizio», praticamente su tutto. È una disposizione entrata in vigore con il nuovo codice militare giusto ieri, mentre morivano altri quattro caporali.
(10 ottobre 2010)
Vignetta di Vauro su "il manifesto" del 12 ottobre 2010



ottobre 12 2010



Il ritorno






Vignetta di Mauro Biani tratta dal blog: http://maurobiani.splinder.com/

 





Il diversivo di La Russa



 di Gianluca Di Feo



 


Il ministro apre il dibattito sulle bombe per nascondere le sue gravi responsabilità. Come quella di aver mandato in una delle aree pericolose del conflitto gli alpini soli, con pochi uomini e senza rinforzi da Kabul
 
Quello delle bombe sugli aerei italiani in Afghanistan è un diversivo, un dibattito creato dal ministro La Russa per nascondere le vere responsabilità sulla strage di alpini. Chi ha deciso di mandare truppe che si sapevano insufficienti in un’area ad altissimo rischio dove da tre anni gli italiani non mettevano piede? Perché è stato fatto: solo per accontentare le richieste di Washington?
BOMBA O NON BOMBA
In Afghanistan sono schierati quattro caccia Amx dell’Aeronautica militare. La loro missione è di ricognizione: un’attività fondamentale per garantire la sicurezza delle strade percorse dalle forze Nato perché permette di scoprire le trappole esplosive piazzate dai talebani. Di notte e di giorno, un sistema elettronico sofisticato fotografa ogni dettaglio evidenziando le buche scavate per seppellire bombe e mine.
Un anno fa, dopo alcuni episodi in cui reparti italiani in difficoltà non sono stati soccorsi dagli stormi americani che erano impegnati altrove, sono state cambiate le regole d’ingaggio. I caccia dell’Aeronautica possono usare il cannone di bordo in casi estremi e solo se si trovano già nella zona del combattimento. Finora non risulta abbiano mai sparato un colpo. Si vocifera di alcune raffiche d’avvertimento esplose per spaventare i talebani che tenevano sotto tiro un convoglio francese ma senza conferme. Due settimane fa l’uso delle armi era stato autorizzato per aiutare una colonna sotto attacco ma i miliziani sono scappati quando hanno sentito il rumore dei jet a bassa quota. E qui sta la chiave del problema: i guerriglieri a terra non possono distinguere gli Amx italiani senza bombe dai caccia americani, francesi, inglesi o olandesi carichi di ordigni. Quando il rombo dei jet si fa più forte, i fondamentalisti scappano. Nei cieli afghani volano decine e decine di velivoli occidentali pronti a fare fuoco: quattro aerei in più non sono sicuramente in grado di cambiare la situazione.
TRIPOLI BOX
In Afghanistan tutti chiamano così la zona del Gulistan dove sono morti gli alpini. Quel settore cuscinetto, grande quanto l’Umbria, fa parte della Regione Occidentale affidata dal 2005 al comando italiano ma la bandiera tricolore non vi ha mai sventolato. Si tratta di un territorio strategico perchè viene utilizzato dai talebani per fuggire ai periodici rastrellamenti britannici e americani nell’area di Kandahar. Quando nel 2006 la guerra in Afghanistan cambiò volto, costringendo la Nato a moltiplicare uomini e mezzi, subito si capì che il Gulistan era una falla nella rete. In diverse occasioni i talebani occuparono villaggi, radendo al suolo le caserme della polizia e cacciando le autorità fedeli a Karzai. A quel punto, veniva organizzata una spedizione con truppe italiane, spagnole, afghane che dopo una decina di giorni arrivava nei paesi e mostrava la bandiera di Kabul. Ma dalla fine del 2007 anche questi convogli sono diventati troppo pericolosi e in tutto il Gulistan hanno messo piede solo i commandos della Task Force 45, il meglio delle forze speciali del nostro paese, che conducevano raid e poi rientravano nella base di Farah.
LA SCATOLA DELLAMORTE
Nel 2009 gli americani hanno detto basta. Il Gulistan è diventato Tripoli Box, evocando la prima operazione internazionale condotta dai marines nel XIX secolo. Agli italiani è stato vietato di avvicinarsi: dovevano rimanere a 10-12 chilometri di distanza dalla zona. Il nome ha subito fatto pensare ai killing box creati in altri conflitti per sconfiggere la guerriglia: porzioni di territorio proibito alle forze amiche dove si colpiva dal cielo, alternate ad altre affidate ai rastrellamenti delle truppe d’assalto. Anche dentro Tripoli box c’erano zone di “caccia libera”, dove squadre di marines si appostavano per sbarrare i movimenti dei talebani: cecchini nascosti che segnalavano i fondamentalisti ai bombardieri o agli elicotteri Apache. Villaggi e snodi stradali invece erano presidiati da unità scelte americane e afghane, queste ultime accompagnate da contractors e mercenari: personale inviso alla popolazione. Per un anno la densità di combattimenti è stata altissima, finché a luglio 2010 i generali americani non si sono convinti che la Tripoli Box fosse “pulita” e l’hanno passata agli italiani, spostando i battaglioni d’elitè dei marines sulla caldissima frontiera pachistana.
AVANTI A META’
Il controllo della Tripoli Box è una sfida che ha messo in crisi il coordinamento della missione italiana. Nella zona abbandonata dagli americani non c’erano fortini con strutture di lungo presidio, ma solo avamposti dei marines: trincee, sacchetti di sabbia e terrapieni dove la protezione era garantita dalla potenza di fuoco americana ossia mortai pesanti, cannoni e bombardieri sempre in volo mentre tutti i rifornimenti arrivavano con gli elicotteri. Ma soprattutto mancavano reparti addestrati dell’esercito afghano, che aveva pochi uomini asseragliati in fortezze ottocentesche, per aiutare gli italiani a controllare un territorio così difficile. Per la nuova missione si è deciso di usare gli alpini della brigata Julia in supporto alla Tridentina impegnata tra Bala Murghab, Farah e Shindand. La prima compagnia spedita nella Tripoli Box ha trovato condizioni disastrose dentro e fuori la vecchia caserma afghana: una frequenza di attacchi altissima e le zecche nei giacigli. Il resto del battaglione della Julia è rimasto per quasi due mesi chiuso nella cittadella di Herat in attesa dell’ordine di partire. Probabilmente si attendeva che Kabul mandasse nuovi reparti della 207ma divisione, l’unità afghana addestrata dagli italiani e che combatte al fianco degli alpini. Rinforzi che finora non sono arrivati.
SOLI NELL’INFERNO
La realtà è stata spiegata dal comandante in capo Claudio Berto in un’intervista al “Resto del Carlino”: nel Tripoli Box le forze italiane sono inferiori per numero a quelle statunitensi e non hanno il supporto dei soldati afghani di cui disponevano gli americani. Gli italiani sono quindi andati a presidiare un territorio ad altissimo rischio con meno truppe degli americani – che lì schieravano i migliori combat group dei marines -; senza il sostegno della fanteria afghana – che fornisce la massa di manovra per le operazioni – e senza nuovi mezzi, soprattutto elicotteri, che compensassero questa inferiorità. Perché? Chi lo ha ordinato? E perché nessuno in Italia si è accorto di quanti pericoli ci stavamo assumendo? Il generale Berto è un ufficiale di poche parole, un alpino estremamente concreto che conosce bene i talebani.
Nel 2003 ha guidato la prima missione italiana nell’Afghanistan orientale e da allora si è preparato per comandare i quasi 4000 soldati schierati nella Regione Occidentale. È un pianificatore, che medita ogni mossa e appare freddo mentre in realtà custodisce nel silenzio il tormento per la morte dei suoi uomini. Lui era conscio dei rischi della Tripoli Box, dalla quale anche i parà della Folgore erano stati tenuti lontani. La Julia ha atteso prima di entrare nella zona proibita, nella speranza di ottenere rinforzi afghani o dagli alleati. Poi quando l’offensiva anglo-americana su Kandahar ha reso indispensabile l’intervento nel Gulistan per sbarrare la fuga dei guerriglieri, gli alpini sono partiti. Hanno cominciato a potenziare la base Ice lasciata dagli Usa e a costruirne una seconda: i capisaldi da cui pattugliare la zona. I miliziani li hanno colpiti subito: un attacco combinato, il più potente organizzato finora contro gli italiani, che hanno risposto con tutte le armi inclusi i razzi Panzerfaust.
Ma i talebani sono sempre più addestrati e ben equipaggiati: l’ordigno che ha distrutto il Lince è stato fatto esplodere nonostante i jammer, gli strumenti elettronici che bloccano i telecomandi. Uno dei tanti indicatori che mostrano quanto stia peggiorando la situazione. E mettere le bombe su quattro aerei non cambierà il corso della guerra.
(10 ottobre 2010)