sabato 30 agosto 2008

The Dream


È cominciato tutto con un incipit che mette i brividi, assieme ai presupposti per la realizzazione di un sogno, esattamente 45 anni dopo lo storico discorso di Martin Luther King che, quel sogno, vagheggiava. Qui si fa la Storia e questa volta anche noi ne saremo testimoni, per oscurare la mediocrità sconfortante dei cosiddetti leader e dei fantomatici statisti del cortile di casa che, uniti, rappresentano il nulla (visto a “Blob” il servo Fede interrompere il servizio dagli Usa, perché stava per parlare in diretta l'ometto B., tessera P2 n°1816).


Vai Barack Obama, fino alla vittoria. Che tutti gli dei possano assisterti.


Questo è il testo del discorso pronunciato dal senatore Barack Obama dopo l' annuncio della vittoria nel caucus dell'Iowa.


«Grazie, Iowa. Dicevano che questo giorno non sarebbe mai arrivato, che avevamo aspettative troppo alte. Dicevano anche che questo Paese è troppo diviso, disilluso per unirsi intorno a un medesimo obiettivo. Invece, in questa notte di gennaio, in questo momento cruciale della Storia, voi avete fatto ciò che gli scettici dicevano fosse impossibile. Avete fatto ciò che l'America intera può fare in questo nuovo anno, il 2008. In code e in lunghe file fuori dalle scuole e le chiese, nelle cittadine, nelle grandi metropoli, vi siete uniti, democratici, repubblicani, indipendenti, tutti insieme per affermare che siamo un'unica nazione. Siamo un solo popolo ed è giunta l' ora del cambiamento. Voi avete affermato che è giunto il momento di superare l'amarezza, la meschinità, la rabbia che consuma e logora Washington; di porre fine a una strategia politica che ha creato soltanto divisione. Noi stiamo scegliendo la speranza, non la paura; l'unità, non la divisione, e stiamo mandando un forte messaggio: in America è in arrivo un cambiamento. Voi avete dichiarato che è l'ora di dire ai lobbisti che pensano che i loro soldi e il loro potere parlino con voce più alta delle nostre che non sono padroni di questo governo. Noi siamo i padroni, e siamo qui per riprendercelo. È l'ora che un presidente sia onesto riguardo alle scelte e alle sfide cui dobbiamo far fronte, che vi dia ascolto. Se nel New Hampshire mi darete la stessa chance che mi avete dato questa sera in Iowa, io sarò quel presidente per l' America. Vi ringrazio. Sarò un presidente che finalmente renderà l'assistenza medica accessibile e disponibile per ogni americano. Sarò un presidente che pone fine agli sgravi fiscali per le società che trasferiscono oltreoceano i nostri posti di lavoro; che utilizzerà l'ingegno di contadini, scienziati e imprenditori per affrancare questa nazione dalla tirannia del petrolio. Sarò un presidente che porrà fine alla guerra in Iraq e finalmente riporterà a casa i nostri soldati; che ripristinerà il nostro prestigio morale; che saprà che l'11 settembre non è un mezzo per spaventare gli elettori, bensì una sfida che deve unire l'America e il mondo contro le minacce comuni del XXI secolo, il terrorismo e le armi nucleari, il cambiamento del clima e la povertà, il genocidio e le malattie. Stasera siamo un po' più vicini a questa visione di America, grazie a ciò che voi avete fatto qui in Iowa. E a proposito di ringraziamenti penso sia giusto che io ringrazi l'amore della mia vita, la roccia della famiglia Obama, la persona che mi è più vicina nella campagna elettorale, Michelle Obama (ndr la moglie). So che quanto avete fatto stasera non l'avete fatto per me, ma perché credete negli ideali americani. So che è così, perché non potrò mai dimenticare che sono arrivato fin qui dalle strade di Chicago, dove facevo ciò che molti di voi hanno fatto per questa campagna: organizzare, lavorare, combattere, per rendere la vita di tutti un poco migliore. So quanto sia difficile, quanto poco si dorma, quanto poco si ottenga, quanti sacrifici si fanno. Ci sono giorni di grandi delusioni, ma poi, ogni tanto, solo ogni tanto, ci sono serate come questa, una notte che da adesso e per gli anni a venire sarà ricordata come la notte in cui abbiamo fatto i cambiamenti in cui credevamo, affinché più famiglie possano permettersi un dottore, affinché i nostri figli - Malia, Sasha e i vostri bambini - ereditino un pianeta un poco più pulito e più sicuro, affinché il mondo consideri in modo diverso l'America e l'America si consideri una nazione meno divisa e più unita. Voi un giorno ripenserete a questa notte con grande orgoglio e potrete affermare: "Fu quello il momento in cui tutto ebbe inizio". Questo è il momento in cui l'improbabile ha sconfitto ciò che Washington diceva che sarebbe stato inevitabile. Questo è il momento in cui abbiamo abbattuto le barriere che ci dividono da troppo tempo, in cui abbiamo unito in una causa comune gente di tutti i partiti e di tutte le età, in cui finalmente abbiamo dato agli americani che non si sono mai interessati alla politica una ragione per alzarsi e occuparsene. Tra qualche anno, ripensando a questa notte ricorderete che questo è il momento, questo è il posto, nel quale l'America si è ricordata di che cosa significa sperare. Abbiamo sempre saputo che la speranza non è cieco ottimismo, non significa ignorare l'enormità dei compiti che dovremo affrontare o gli ostacoli che intralceranno il nostro cammino. Non significa sedersi in disparte e sottrarsi a una battaglia. La speranza è quella cosa che dentro di noi insiste, malgrado tutto lasci intuire il contrario, che il futuro ci riserva qualcosa di meglio se avremo il coraggio di tendergli la mano, di lavorare per esso, e di combattere per esso. Speranza è ciò che ho visto negli occhi di una giovane donna di Cedar Rapids che lavora al turno di notte dopo un'intera giornata al college e ciò nonostante non riesce a garantire alla sorella ammalata le cure di cui necessita, una giovane donna che crede ancora che questo Paese le concederà una chance per realizzare i propri sogni. Speranza è ciò che ho sentito nelle parole di una donna del New Hampshire che mi ha detto di non essere quasi in grado di respirare da quando suo nipote è partito per l'Iraq, e che tutte le sere va a letto pregando che egli possa tornare sano e salvo a casa. Speranza è ciò che ha indotto un manipolo di coloni a ribellarsi a un impero, che ha spinto la più grande delle generazioni a liberare un continente e guarire una nazione, che ha incoraggiato tanti giovani uomini e donne a sedersi e sfidare gli idranti o a marciare per Selma e Montgomery per la causa della libertà. Speranza è ciò che mi ha portato qui oggi per quello che sono, figlio di un kenyano e di una donna del Kansas, con una storia alle spalle che può esistere solo qui, negli Stati Uniti d' America. La speranza è la culla di questa nazione, la fede che il nostro destino non è scritto per noi ma da noi, da tutti gli uomini e le donne che non sono soddisfatti di come va il mondo, che hanno il coraggio di volerlo cambiare. È a tutto ciò che abbiamo dato vita questa sera in Iowa. È lo stesso messaggio che può cambiare questo Paese mattone dopo mattone, strada dopo strada, con le mani piene di calli: insieme, noi, gente normale, possiamo fare cose straordinarie, perché non siamo un insieme di Stati rossi e Stati blu. Noi siamo gli Stati Uniti d'America. E adesso siamo pronti a crederci ancora. Grazie, Iowa».

la Repubblica (5 gennaio 2008)


E questa è la cronaca del bel pezzo di Mario Calabresi.


Il quarantenne nero che trascina i bianchi


La colonna sonora era la stessa del giorno in cui annunciò agli americani che si sarebbe candidato alla presidenza degli Stati Uniti: «City of Blinding Lights» degli U2. Anche la temperatura era la stessa: 11 gradi sotto zero. Ma sul palco, in mezzo a migliaia di giovani in delirio, non è salito il giovane idealista naif amante delle sfide impossibili, ma l'uomo del cambiamento, capace di spazzare via la potente macchina elettorale dei Clinton e l'organizzazione capillare costruita dai sindacati di John Edwards. Improvvisamente tutto il resto è sembrato vecchio: Bill Clinton magro e rauco con i suoi capelli bianchi, Hillary che parla di esperienza e si fa accompagnare dalla madre quasi novantenne, l'America di Bush, di Rudy Giuliani e dell'11 settembre. Tutto improvvisamente superato da un quarantenne nero che riesce a galvanizzare uno Stato di agricoltori, con l'età media più alta d'America e in cui i bianchi di origine tedesca, danese o irlandese sono il 92 per cento.


Barack Obama aveva messo la cravatta e nonostante avesse scelto un tono più sobrio e più composto del solito è riuscito a far esplodere i suoi sostenitori: «Abbiamo realizzato quello che i cinici definivano una sfida impossibile e abbiamo dimostrato che la speranza non è cieco ottimismo, ma coraggio di combattere». Lo spettacolo dell'arena di Des Moines, con i ragazzini neri che imprimevano il ritmo alla folla picchiando sui tamburi, era di una potenza acustica e visiva impressionante, come l'onda che dalla capitale dell'Iowa si è diffusa in tutta l'America. Il messaggio è stato chiaro: la scommessa di superare il colore della pelle e le appartenenze è riuscita: «Mio padre veniva dal Kenya, mia madre dal Kansas, e la mia è una storia che può accadere solo negli Stati Uniti. Per questo vi dico: possiamo cambiare questo Paese, le persone normali possono fare cose straordinarie». E straordinaria è stata la partecipazione al voto, quasi raddoppiata, cifre da record assoluto.


Barack Obama ha vinto con i giovani, che non l'hanno tradito, con le donne che lo hanno preferito a Hillary, con gli indipendenti che hanno rotto gli indugi e si sono schierati e perfino con una fetta di elettori repubblicani che hanno saltato il confine. Nella notte di mercoledì l'America profonda è stata capace di fare una rivoluzione. La strada è lunga, i Clinton esperti e potenti, i repubblicani agguerriti, ma il messaggio è chiaro: l'unico nero americano ad avere un seggio nel Senato di Washington, esattamente alle spalle di quello che fu di John Kennedy, ha tutte le carte in regola e ha passato l'esame per diventare l'uomo più potente del mondo.


Il profumo della svolta era chiaro sentendo parlare le famiglie che in fila indiana, nei vialetti scavati in mezzo alla neve, andavano ai caucus. L'atmosfera era serena, tanto che l'immagine ricordava più la gente che va a messa la notte di Natale che non il pellegrinaggio ad un'assemblea elettorale. «Andremo a votare per Obama perché c'è bisogno di cambiamento e questo non ce lo può dare una dinastia: mio figlio da quando è nato non ha mai visto un presidente che non si chiamasse Bush o Clinton. E ha 18 anni: è ora di voltare pagina» ci racconta Kathy, che con il marito gestisce un'azienda agricola. Il loro sentimento è sintetizzabile con una parola ripetuta parecchio in questi giorni: "clintonfatigue". La stanchezza verso i Clinton. Da una parte Bill è l'asso nella manica di Hillary - al comizio finale dell'ex first lady molte nostalgiche sostenitrici avevano la spilla della campagna del 1996 - dall'altra è una presenza che parla di passato. Allyson, una ragazza nera che sostiene Obama, ha discusso animatamente con le amiche che le dicevano di preferire la Clinton: «Ma come potete: dobbiamo votare per il nostro futuro, non con la testa girata agli Anni Novanta, non è un voto sul passato ma sulla vita che ci aspetta».


Hanno votato 220mila persone ai caucus democratici, un record assoluto: 100mila in più di quattro anni fa. Lo storico deputato di Des Moines, l'anziano Leonard Boswell, è convinto che la sua gente di campagna guardi al mondo molto più di quanto si possa immaginare e ci dice: «Siamo preoccupati di ricostruire la nostra credibilità e la nostra immagine». Anche Spencer e Chris, che sono compagni di banco all'ultimo anno di liceo e voteranno a novembre per la prima volta, sono usciti di casa spinti dalla stessa molla: «Dobbiamo dare un messaggio nuovo al resto del mondo e a tutto il nostro Paese e la scelta di un afro-americano è la più simbolica possibile». Quasi il cinquanta per cento dei partecipanti ai caucus democratici erano al loro primo voto, come Spencer e Chris, e quattro su cinque hanno scelto Obama. Quattro anni fa nella palestra della scuola media Merril, di fronte all'Art Museum dove una donna malinconica dipinta da Hopper scruta i visitatori da sotto il cappello, erano in 360. Questa volta si presentano in 554 e per registrarli tutti si inizia con tre quarti d'ora di ritardo.


Siamo in uno dei più grandi caucus di tutto lo Stato e qui in piccolo si produrranno sotto i nostri occhi esattamente le dinamiche che hanno portato al risultato finale: primo Obama, secondo Edwards, terza Clinton. La composizione sociale del distretto elettorale sembrerebbe favorevole a Hillary, come lo era sulla carta quella dell'Iowa: ceto medio borghese con un'età superiore ai quarant'anni. Tutti bianchi. Nel settore di Obama ci sono quasi 300 persone, soltanto quattro sono nere, tre donne e un uomo e tutte le età sono rappresentate. Il capitano dell'assemblea, l'avvocato Jeffery Goetz, è raggiante mentre fa la conta dei presenti: «È una serata storica, l'hanno presa davvero sul serio». Il duello dialettico tra gli elettori, raggruppati negli angoli della palestra a seconda del candidato che hanno scelto, gira intorno alla preferenza tra esperienza e carisma, tra testa e cuore. La rappresentante della campagna di Hillary, Sally Pederson, cerca di convincere gli indecisi: «È lei la più preparata per combattere i repubblicani e guidare il Paese: dovete scegliere l'esperienza, qualcuno che conosca la Casa Bianca e sia eleggibile». Guarda alle donne che sostengono i candidati minori, cerca di convincerle, ma la folla di Obama grida incessante: «Vi vogliamo con noi, vi vogliamo con noi». E la maggioranza delle mamme con i bambini in braccio, delle signore con i capelli raccolti e molti chili di troppo, sorridendo si fa convincere più dal cuore e dalla voglia di fare qualcosa di inaspettato. Ogni migrazione verso il canestro sotto cui c'è il grande cartello con la scritta «Hope», speranza, simbolo di Barack Obama, viene sottolineata dagli applausi.


Alle nove la partita non ha più storia, quando le tre signore dall'aria compita, che tutto il quartiere conosceva come repubblicane, fanno la loro scelta per il senatore nero significa che è finita davvero. Il capitano fa la conta: Clinton 120, Edwards 131, Obama 289. La palestra esplode. I ragazzi con le spillette pacifiste corrono al comizio con Barack e lui non li delude: «Il tempo del cambiamento è arrivato: sarò il presidente che riporterà a casa i soldati dall'Iraq, che garantirà la sanità a tutti gli americani e metterà fine ai regali fiscali alle grandi multinazionali». La festa continua nella notte, ma Obama sa che questo è solo l'inizio. Hillary è già volata nel New Hampshire, le sue forze in campo sono intatte e i sondaggi ancora la assistono, Edwards è sfinito e se mollasse potrebbe passare il voto dei sindacati ai Clinton. Chiede ai ragazzi di continuare, di prendere treni e aerei e trasferirsi sull'Atlantico, di non fermarsi, il suo momento di grazia potrebbe trasformarsi in un attimo nel sogno di una notte d'inverno: «Bisogna ripetere tutto ogni settimana fino a novembre e solo tra un anno, quando il nuovo presidente giurerà davanti al Campidoglio, allora potrete guardare indietro e ricordarvi che tutto è iniziato qui».


la Repubblica (5 gennaio 2008)  




 




martedì 26 agosto 2008

Le due realtà


Non è stata la stessa cosa.


Soltanto quando l’ultimo ciuffo di capelli viene inghiottito dal sottopassaggio della stazione mi rendo conto di essere nuovamente da solo. La mia condizione primaria, dunque agevole da ritrovare. Ma dopo due settimane trascorse con lei “azzeccato azzeccato” come direbbe fintamente infastidita, il ritorno alla realtà è desolante.

I ricordi impregnano la mente, invadono il  cuore, penso che se c’è l’angelo custode sia come lei che è attenta, sensibile, calorosa, istintiva, dolce, tenerissima. Anche capricciosa certo, insopportabile, ma con la straordinaria capacità di passare immediatamente ad una fase  in cui lo sgarbo (banalissimo), l’insofferenza (modestissima) vengono miniaturizzati dalle sue labbra avide di dare e di ricevere baci. Il tassametro sentimentale è impazzito nel tentativo di aggiornare la contabilità. Si è bloccato dopo la prima ora.


Eppure non è stata la stessa cosa.


Nel sacchetto da viaggio ha insistito per infilarci sei crostatine, due panini (erano tre nei suoi propositi iniziali venuti meno quando le ho fatto osservare che così diventavo tutto ciccia e brufoli) imbottiti con formaggio e salame, un paio di banane, la bottiglia d’acqua. Alle chiavi di casa troverò poi agganciato un campanellino.


Ma non è stata la stessa cosa.


Non ho pianto. Non piango mai quando la lascio. Una diga emotiva riesce ancora a tenere sotto controllo le lacrime. Se dovesse saltare… Solo la voce a volte s’incrina, bloccandosi un istante, poi si ripristina. Gli sforzi che però faccio nella circostanza sono titanici. Se indugiassi a srotolare la collezione di immagini si sovrapporrebbero momenti importanti e ancora tiepidi.


Però non è stata la stessa cosa.


Mi arricchisce questa donna che vorrei accanto non per un paio di settimane in agosto, qualche giorno nelle feste comandate, ma più a lungo. Sono ormai inadeguati questi ritagli di calendario.

Mi arricchisce e mi completa, anche perché mai a nessuna ho permesso di conoscere tanto (credo ormai tutto) di me. Si è impadronita delle chiavi del mio cuore, ha indovinato la giusta combinazione aprendolo e si è intrufolata dentro. Adesso abita lì.


No, non è stata la stessa cosa.


Paradossalmente, ma in modo significativo, più si sta insieme (sebbene nella miseria di 14 giorni) e più si evidenziano le difficoltà di poter prolungare questi giorni in futuro. Se ci sarà poi un futuro per noi due.


Non è stata la stessa cosa, in questo contrasto tra il vissuto e ciò che vivo adesso, perché lei una famiglia ancora ce l’ha. Io no. Non più. Il piano della vita è sfalsato.

Un’osservazione banale, ma racconta la realtà più efficacemente di tante metafore. Che infatti stonano, fino ad apparire incongrue e totalmente fuori registro.


Ecco perché non è stata la stessa cosa, voglio dire la medesima magia delle altre volte. È bastata una normale considerazione, ovvia fino alla stucchevolezza, a rovesciarmi addosso un profluvio di appiccicose negatività. E spegnermi.

sabato 9 agosto 2008

Chiusura estiva


Come è usuale in questo periodo il blog chiude per ferie. Naturalmente auguro ai passanti riposo intelligente e mi scuso con le amiche e gli amici linkati che hanno ricevuto, negli ultimi mesi, una modestissima attenzione da parte mia. Non è stato voluto, ma le scuse mi sembrano il minimo nei vostri confronti. Spero in tempi migliori. Magari tra qualche giorno sarò di nuovo qui. Nulla so al riguardo.

Buone vacanze, per chi può naturalmente.


venerdì 8 agosto 2008

La libertà di scegliere, la dignità di morire


“È bene ricordare che al tempo di Terry Schiavo queste tesi (il risveglio sempre possibile) hanno addirittura portato a dire che la donna parlas­se. Si è poi fatto subito scen­dere una cortina di silen­zio sui risultati dell'autop­sia che ha confermato la quasi completa distruzio­ne del talamo e l'impossibi­lità di ogni relazione e ca­pacità di dolore. La situazione di Eluana è tragica, ma va risolta guar­dando in faccia alla realtà. E soprattutto vanno rispet­tate le scelte dei genitori Englaro, troppo spesso og­getto di critiche poco ri­guardose. La Consulta di Bioetica sostiene la scelta degli Englaro e spera che, col sostegno di tanti citta­dini, i valori secolari già prevalenti tra la gente ab­biano maggiore rilievo sul piano pubblico e più ade­guata rappresentanza su quello politico e istituzio­nale”. (m.m.)


SOTTO LA LENTE Perché è più dignitosa e giusta la scelta che è stata fatta.

Dieci domande sul caso Englaro

di Maurizio Mori*


*(Presidente della Consulta di Bioetica On/us, Professore di bioetica, Università di Torino)


Il 16 ottobre 2007 la Corte di Cassazione ha deciso il riesame del "caso Englaro" stabilendo che la richiesta dei genitori di Elua­na di sospendere la terapia che da 16 anni la tiene in Stato Vegetati­vo Permanente (SVP) fosse valuta­ta sulla scorta dei due seguenti criteri:

1) l'assenza di possibilità di risve­glio oltre ogni ragionevole dub­bio,

2) l'accertamento della volontà che Eluana non avrebbe voluto vi­vere in quella condizione.

Dopo gli opportuni approfondi­menti, il 9 luglio 2008 la Corte d'Appello di Milano ha accolto la richiesta Englaro, consentendo la sospensione delle terapie. Diversi sondaggi d'opinione confermano che circa l'80% degli italiani condi­vide la scelta degli Englaro. Ma la chiesa cattolica si oppone con un grande fuoco di sbarramento, che è giunto persino a sollecitare contrasti tra istituzioni statali. Esami­niamo qui le principali critiche mosse dando a ciascuna di esse una breve risposta razionale.


Obiezione 1: La decisione della Corte d'Appello «è un attac­co al mistero della vita, alla sua sacralità» (mons. L. Negri, Av­venire, 12 luglio, p. 4).

Risposta. La Corte non muove al­cun "attacco" ma solo constata che il "mistero" della vita sta dis­solvendosi, perché la scienza ci for­nisce conoscenze sempre più pre­cise. Come ha scritto il professor Mario Manfredi, già Presidente della Società Italiana di Neurolo­gia, dopo un periodo di oltre 16 an­ni la residua possibilità di ricupero è «estremamente minima». La Corte aiuta i cittadini a guardare in faccia la realtà e consente a per­sone come gli Englaro di decidere con responsabilità sul da farsi, sen­za continuare a vivere secondo il vecchio criterio sacrale connesso all'alone di mistero che avvolgeva il vivente e che ancora evoca emo­zioni profonde. È vero, comun­que, che la crisi del principio di sacralità della vita umana genera in molti sconcerto, sgomento e an­che panico. Hanno l'impressione è che il mondo intero crolli senza scampo e prevedono omicidi e la fine della convivenza civile. Di qui le preghiere e gli altri riti di purifi­cazione richiesti per riparare la vio­lazione dei tabù. L'abbiamo già vi­sto, ad esempio, al tempo del di­vorzio, quando la crisi dell'indisso­lubilità sembrava provocasse la di­sgregazione della famiglia e la dis­soluzione della civiltà stessa. Inve­ce le famiglie continuano a formar­si ed assumono nuove forme più rispettose degli affetti e dei diritti personali. Forse c'è stato un miglio­ramento, che potrebbe ripetersi anche con l'abbandono della sa­cralità della vita. La crescita civile esige una visione razionale che metta da parte i sentimenti atavici e la viscerale paura del nuovo.


Obiezione 2: La decisione della Corte d'Appello è sbagliata perché «la vita è qualcosa di assolutamente indisponibile all'azione umana» (card. A. Bagnasco, Avvenire, 13 luglio, p. 4).

Risposta. Quest'obiezione è una conseguenza della sacralità e cade con essa. Conosciamo i meccani­smi dei processi vitali e li modifi­chiamo in tanti modi: continuare a ripetere che la vita è indisponibi­le è chiudere gli occhi di fronte al­la realtà. Volenti o nolenti la vita umana è nelle nostre mani. Chi continua a desiderare o prescrive­re che la vita debba seguire un pro­prio misterioso e imperscrutabile corso cerca solo di sottrarre l'uo­mo alle proprie responsabilità. Queste a volte sono gravose, ma vanno affrontate.


Obiezione 3: «Il paletto dell'in­violabilità della vita... (DEVE) prevalere, sia pure dolorosamente, sull'interesse del singolo che, non senza le pro­prie ragioni, richiede allo Sta­to di farlo saltare... a difesa di tante altre vite deboli... Vedo all'orizzonte troppe vittime se saltasse questo paletto» (dr. P.P. Donadio, Avvenire 19 luglio, p. 12).

Risposta. Un clinico riconosce che la sacralità della vita non vale più in sé: il singolo ha ottime ragioni per farlo saltare! (soprattutto dopo oltre 16 anni di SVP). Ma andrebbe difeso per presunte ragioni di utilità generale! Quest'errore nell'intendere l'utilità generale dimo­stra come la sacralità della vita sia irrispettosa delle persone.


Obiezione 4: «Un "risveglio" non si può mai negare" (Avve­nire, 17 luglio, p. 11), perché 25 "luminari" della neurolo­gia italiana affermano che non c'è la «certezza di irrever­sibilità» del SVP.

Risposta. L'errore sta nel fatto che nulla è certo circa il futuro: nean­che che domani il Sole sorga anco­ra. Dobbiamo accontentarci delle (altissime) probabilità. E queste ci dicono che dopo 16 anni è fuor di dubbio che per Eluana non ci sarà mai più un «risveglio». Voler alimentare la speranza contro ogni dato ragionevole è un modo di ri­proporre la sacralità vitalista, che a volte ricorre ad affermazioni in­fondate come quella che circa «metà delle diagnosi (DI SVP) so­no sbagliate» (G.B. Guizzetti, Tem­pi 17 luglio, p. 11) per spaventare facendo terrorismo psicologico.


Obiezione 5 : «Togliere idratzione e nutrimento nel caso spe­cifico è come togliere da man­giare e da bere a una persona che ne ha bisogno, come ne ha bisogno ognuno di noi»(card. A. Bagnasco, Avvenire, 16 lu­glio, p. 9).

Risposta. «Mangiare e bere» è un'azione volontaria con sensazio­ni: da oltre 16 anni Eluana non «mangia né beve». Le iniettano so­stanze chimiche con la terapia nu­trizionale. Ecco dove sta la diffe­renza. Eluana non voleva conti­nuare quella terapia.


Obiezione 6: Farla morire di fa­me e di sete è «la morte peg­giore che possa essere inflitta a un essere umano» ("Medicina e Persona", Comunicato Stampa). Se non soffre «qualcuno mi spieghi allora perché il tribu­nale raccomanda di sedarla» (dr. G. Gigli, Avvenire, 13 luglio, p. 5).

Risposta. Far credere che Eluana soffrirà la fame e la sete è specula­zione di basso profilo tesa a suscita­re ripugnanza e raccapriccio facen­do appello a immagini note di va­rio tipo (dal conte Ugolino a Walt Disney). In realtà i centri nervosi responsabili delle ricezione del do­lore sono distrutti e la morte avver­rà per deperimento. Il tribunale ha raccomandato la sedazione come misura di rispetto e di precauzio­ne. Anche la British Medical Association raccomanda l'anestesia per i morti cerebrali prima del prelievo d'organo (per sopprimere i ri­flessi viscerali). Non ne discende che i morti soffrano. Assodato que­sto, si potrebbe pensare ad un in­tervento attivo che chiuda la parti­ta in modo più rapido. Dal punto di vista morale può essere meglio, ma da quello giuridico non è con­sentito, per cui ci si deve limitare alla sospensione della terapia- punto garantito dal diritto italiano.


Obiezione 7: Come si fa a dire che Eluana non avrebbe volu­to vivere in stato vegetativo? È vero che lo ha detto prima dell'incidente, quando aveva 20 anni ed era sana: «parole che chiunque potrebbe pro­nunciare e sottoscriverebbe, ma che non possono avere va­lore di "testamento biologi­co"» (L. Bellaspiga, Avvenire 16 lu­glio, p. 9).

Risposta. Sarebbe meglio se il vitali­sta dicesse chiaro e tondo che il consenso (pregresso o attuale che sia) non vale niente di fronte al va­lore sacro della vita. Welby lo die­de qualche minuto prima della so­spensione della terapia ben sapen­do che cosa significasse: ma nean­che lì il suo consenso contava, e il dr. Mario Riccio ha avuto guai! Se anche ci fosse una firma apposta a 20 anni su un foglio scritto, che va­lore avrebbe mai?! Non c'è, e ci si aggrappa anche questo, in stile Az­zeccagarbugli. Quelle espresse da Eluana sono le sue ultime volontà e non possiamo immaginarcene altre, essendo subito caduta in uno stato che - per via della distru­zione della corteccia - non consen­te di averne più. Se vale il consen­so, allora le parole pronunciate da Eluana e fedelmente riportate da testimoni hanno valore decisivo per procedere alla sospensione del­la terapia nutrizionale.


Obiezione 8: Ma quella nutri­zionale non è una terapia, an­che perché lo stato vegetativo «non è una malattia» (dr. G.B. Guizzetti, Avvenire 19 luglio, p. 10) ma è «una grave disabili­tà» da tutelare. L'alimenta­zione artificiale, poi, non è ac­canimento terapeutico per­ché non c'è «nessuna macchina, nessun supporto tecnolo­gico».

Risposta. Evito le discussioni sui concetti di malattia e di disabilità, anche se l'idea che lo SVP sia una semplice diminuzione di capacità sembra dire che lo zero sia un «uno rimpicciolito». Concedendo che lo SVP sia una disabilità estre­ma, non ne consegue che la sua tu­tela debba portare al prolunga­mento della vita: se l'interessato non voleva vivere in quello stato, sarebbe «farle un torto». Il rispetto dovuto a un disabile comporta il ri­spetto delle sue scelte. L'insistenza «pro vita» è una forma di indebita violenza poco rispettosa della fragi­lità di chi ha scelto. Che dire poi della pompa che si usa per l'ali­mentazione artificiale? Non è for­se una «macchina»? A parte que­sto, dire che c'è accanimento solo in presenza di macchinalr è un modo ingenuo di ragionare, come quello che porta a credere si possa torturare solo col fuoco, ruota e ur­la di dolore. Come ci può essere tortura anche senza fuoco, mac­chine ecc., così ci sono forme più sottili di accanimento anche sen­za macchinari: quando non c'è vo­lontà e consenso c'è accanimento.


Obiezione 9: Non sarebbe me­glio lasciare Eluana alle suo­re che la curano, invece di procedere alla sospensione della terapia?

Risposta. Non so se sia davvero me­glio continuare a vegetare o inve­ce chiudere con dignità. Ma è cer­to che quand'anche «vegetare» fosse un qualcosa di positivo, non sarebbe «buono» ove non fosse vo­luto. Dare una carezza o un’ele­mosina sono gesti in prima battu­ta positivi (che non fanno male) ma diventano cattivi ove fossero imposti ad una persona che non li vuole. Solo un residuo di vitali­smo può indurci a credere diversa­mente: eccessiva è l'insistenza po­sta nel dissuadere i genitori Engla­ro. Esemplare è il modo fermo con cui difendono la dignità della fi­glia, (a cura di m.m.)


La Consul­ta di Bioetica Onlus, associazio­ne culturale che promuove la bioetica in prospettiva laica. Per informazioni: www. consultadibioetica.org o chiamare il nu­mero 0258300423. Come onlus può ricevere donazioni ed essere destinataria del 5 per mille: nella dichiarazione dei redditi basta mettere la firma nello spazio riservato alle onlus e indicare il codice fiscale: 97362610152


l’Unità (26 luglio 2008)


Io, naturalmente, sto con Giuseppe Englaro.

Il pezzo che segnalo all'attenzione l'ho trovato interessante e illuminante. Ma ancora una volta, l'ennesima, questo Paese deve fare i conti con l'ormai ingombrante presenza di uno Stato nello Stato che pretende che sia legge ciò che è un personale e anacronistico punto di vista.