giovedì 31 gennaio 2008

Thinking blogger award



L'amica Romina (che ringrazio e con la quale mi scuso del ritardo) mi ha coinvolto in un giochino (si chiamano “meme”) che solo apparentemente è tale. In sostanza, dopo essere stato indicato come “blogger” che “si tiene a mente e crea il percorso, cioè la storia della propria esistenza in internet” si richiede di citare altre cinque blog che abbiano come requisito “la capacità di far pensare”.


L'invito e l'indicazione mi lusingano e non lo affermo per semplice “affettuosità” tra bloggers, ma perché colei che mi ha indicato gode di notevole apprezzamento da tempi non sospetti, perciò la gratificazione riveste un valore importante. E tuttavia, dopo la piccola soddisfazione, nasce e rapidamente si diffonde l'imbarazzo. Perché quando mi si chiede di indicare i blog migliori entro in uno stato di confusione. Nulla di drammatico, s'intende, ma confesso apertamente di essere sprovveduto sotto questo punto di vista.


I blog preferiti si identificano con quelli già linkati e con gli altri che andrò ad aggiungere per l'indispensabile aggiornamento.


Di fare una classifica non me la sento, non sono in grado. Ciascuno dei “preferiti” ha una storia propria e differente, come diversi sono i generi, gli indirizzi, gli argomenti che li caratterizzano. Come faccio ad escludere, selezionandone cinque? E avrebbero ragione di sentirsi esclusi ingiustamente gli altri? E quali parametri potrei adoperare? Quante volte dovrei rifare la classifica? Non ci riesco, insomma. Però quando maggiore diventa questa incapacità ecco un lampo nel buio.


Intanto i blog da citare si riducono a quattro, perché seppur fuori concorso sono inserite d'ufficio le "intersezioni" di Romina. Noblesse oblige. Così restano quattro caselline vuote. Ne riempio subito due seguendo l'anzianità di servizio. Masso57 di "Blue River" e Ziby di "Thesilentscreen" non sono soltanto bloggers, ma amici ormai di “vecchia” data, capitani di lungo corso con i quali ho affrontato la blogosfera quando era ancora in nuce. Oltre a gestire blog di prim'ordine, eccellenti nelle intuizioni e nell'esposizione, sono anche due ottime persone. Il secondo personalmente conosciuto, mentre con il primo si tratta solo di una questione di tempo. Penso che il criterio dell'anzianità ovvero della primitiva conoscenza si ponga al disopra di ogni classifica.


Ultime due caselle in bianco. Me la cavo con la prima rifacendomi al requisito primario: “la capacità di far pensare”. E allora chi meglio di un blog intitolato “cogito ergo sum”, gestito da un'altra bella persona come il vecchio della montagna può rientrare nella categoria? Mi pare che il primato sia incontestabile.


Rimane ancora un posto da riempire e qui a soccorrermi giunge la casualità che mi porta sulle tracce di un blog tenuto da una giornalista e scrittrice che non conoscevo. Lei si chiama Lisa Corva e si presenta con post del genere:


Se sono armati lo sono di rose notturne”


(Jean Sénac)


Così sogniamo le rivoluzioni: pacifiche. Così ci immaginiamo i colpi di stato: con i fiori nei fucili. No, non è voglia di protesta. Ma piuttosto la gratitudine per la democrazia e la pace, dove le rose notturne sono quelle dei nostri giardini. Oppure quelle, malinconiche, stanche e ignorate, dei venditori per strada


Non aveva ambizioni. Era solo una matita, che scriveva, tratteggiava, si fermava, trovava la strada lungo una pagina oscura. Ma amava il suo destino” (Deborah Garrison)


Ci sono persone-pennarello, che sottolineano la vita con l’evidenziatore. Persone-stilografica, attente e nostalgiche. Persone-biro: veloci, rapide. E poi persone-matita, che attraversano la vita leggere, ma senza paura di essere cancellate.


(Il libro di poesie di Deborah Garrison l’ho trovato curiosando a The Strand Bookstore a New York: si intitola “A working girl can’t win”, Random House)


Pensieri lievi eppure intensi destinati ad accompagnare la giornata, pennellate sulla tela del quotidiano. Uno stile garbato, frizzante e finto-glamour. Una terapia utilissima per esorcizzare banalità e stupidità che ci investono appena spalancata la finestra sul mondo.

sabato 26 gennaio 2008

Venere contro

 


 Esiste uno stupido luogo comune secondo cui le ragazze che praticano sport tendono a mascolinizzarsi, perdendo le caratteristiche femminili. In tempi, peraltro non troppo lontani, si osservava pure, con una certa malignità, che si dedicavano allo sport quelle che non erano in grado di attirare i ragazzi. E, comunque, si aggiungeva che costava troppa fatica, troppo impegno.


In Maria Sharapova, la bionda russa e Ana Ivanovic la bruna serba risulta improbabile cercare tracce di “mascolinità”, eppure praticano sport ad altissimo livello. Infatti si contenderanno tra poche ore a Melbourne l'Australian Open di tennis, il primo dei quattro tornei del Grande Slam. La bionda ha 21 anni, è alta 1,88, pesa 59 chili ed è la numero 4 al mondo. La bruna ha 20 anni (sono separate da sette mesi, in realtà), è alta 1.86, pesa 69 chili, nel ranking mondiale occupa, virtualmente, la seconda posizione.


Belle e vincenti (chi scrive è incantato da Ana Ivanovic) non solo prenderanno a violentissime racchettate la pallina, ma ridurranno in minuscoli frammenti quello stupidissimo luogo comune. Entrambe rappresentano il più formidabile manifesto contro l'anoressia. La finale di questa notte in Australia andrebbe prescritta come terapia per sconfiggere il male oscuro che consuma le adolescenti. Maria e Ana: quando il tennis diventa lo sport più bello del mondo e anche le dee nell'Olimpo restano a guardare.

venerdì 25 gennaio 2008

Da Porto Alegre a Ceppaloni

 

Martha Medeiros è una bella donna, nata 47 anni fa a Porto Alegre. Giornalista e autrice di 11 libri, è con “Lettino”, che ha venduto in Brasile più di 100 mila copie, a ottenere un notevole successo di pubblico e di critica. Il romanzo è stato tradotto in numerosi altri paesi, tra cui la Francia, il Portogallo e la Spagna. Da ieri, però, ha ottenuto una definitiva consacrazione anche in Italia.


Muere lentamente/ quien se transforma en esclavo del hábito,(...)” . Vi dicono niente questi versi? Si intuiscono ugualmente, ma la traduzione italiana chiarirà. “Lentamente muore/ chi diventa schiavo dell'abitudine,(...)”. La poesia, troncata (ed è chiaro il motivo) nelle ultime strofe (“Soltanto l'ardente pazienza/ porterà al raggiungimento/di una splendida felicità”.) è stata malamente letta ieri pomeriggio al Senato da Clemente Mastella, quello tutto Ceppaloni, Chiesa e Sacra Famiglia (in villa con piscina a forma di conchiglia).


Standing ovation alla fine della sua pasticciata esibizione, anche se il poeta era un comunista. Ma ecco il grande pasticcio favorito da Internet. Con l'errato titolo di “Lentamente muore” (in realtà è “Ode alla Vita”) questa poesia viaggia da alcuni anni sul web, riscuotendo grande successo, ma accentuando la confusione. Perché la vera autrice è, in realtà, la bella signora ritratta nella foto che pubblicò i versi nel 2000 su un giornale brasiliano a cui collabora. L'equivoco, se così può definirsi, è stato chiarito da Adriana Valenzuela, direttrice della Biblioteca della Fondazione Pablo Neruda, che ha sede a Santiago del Cile, la quale non ha mai saputo spiegarsi chi e in quali circostanze l'abbia attribuita al poeta cileno, celebrato anche nel film “Il Postino”, ultima interpretazione di Massimo Troisi. Ovviamente ancor più rammaricata è Martha Medeiros, scippata di una sua opera intellettuale.


La giornalista, scrittrice e poetessa brasiliana se ne faccia però una ragione, perché il malaccorto e improvvisato lettore, che ha calpestato i suoi versi, ha millantato uno stato d'animo che non gli apparteneva di certo. Anzi, con la faccia di bronzo delle migliori occasioni, ha certificato che in questo Paese capovolto un indagato con sette capi d'accusa può rivendicarlo con orgoglio, abbandonare un governo (già messo molto male di suo) alla deriva e ritirarsi sdegnato. Per ora. Mentre la di lui moglie, agli arresti domiciliari, viene accolta, in auto blu, tra applausi e petali di rose e può delirare, senza che alcuno avverta l'insensatezza, che la persecuzione nei confronti della coppia avviene perché sono cattolici.

mercoledì 23 gennaio 2008

Come le foglie sugli alberi in autunno



Se ne vanno ineluttabilmente uno dopo l'altro. Alcuni mesi fa Giovanni Pesce, il comandante “Visone”, ieri un altro grande partigiano come Arrigo Boldrini, il mitico comandante “Bulow”, prestigiosa figura di combattente, medaglia d'oro al valor militare, membro dell'assemblea Costituente e quindi parlamentare (deputato e senatore) per varie legislature. Si spengono i testimoni della guerra di Resistenza in Italia, quella soggetta negli ultimi anni ad un becero revisionismo. Per dirna una perfino Wikipedia cita tra le sue fonti un libro di Giampaolo Pansa, il propulsore della storiografia rivista e corretta.


Restano le memorie, resta il ricordo affidato agli ultimi partigiani viventi. Ma quando l'ultimo di essi sarà morto cosa resterà a garantire una fetta così importante della storia italiana? Si dovrà, a quel punto, accettare la vulgata corrente che parifica i ragazzi di Salò a quelli che scelsero la strada della clandestinità e delle montagne per riprendere da lì la libertà conculcata dalla dittatura nazifasacista? Una libertà oltraggiata oggi con la volgarità e l'arroganza degli inquilini del Palazzo, questa casta che esercita e consolida il Potere, che non è al servizio dei cittadini ma delle rispettive baronie.


Onore al comandante Bulow, addio compagno Boldrini. Che la terra ti sia lieve.





                                                                          Medaglia d'oro al valor militare


BOLDRINI Arrigo


Tenente di cpl. - Fanteria - Partigiano combattente


luogo di nascita: Ravenna (RA)


Motivo del conferimento


Ufficiale animato da altissimo entusiasmo e dotato di eccezionale capacità organizzativa, costituiva in territorio italiano occupato dai tedeschi due brigate di patrioti che guidava per più mesi in rischiose e sanguinose azioni di guerriglia. Nell’imminenza dell’offensiva alleata nella zona, sosteneva alla testa dei propri uomini e per più giorni consecutivi, duri combattimenti contro forti presidi tedeschi, agevolando così il compito delle armate alleate. Successivamente, con arditissima azione, costringeva il nemico ad abbandonare un'importante località portuale adriatica che occupava per primo. Benché violentemente contrattaccato da forze corazzate tedesche e ferito, manteneva le posizioni conquistate, contrastando con inesauribile tenacia la pressione avversaria. Si univa quindi con i propri uomini alle armate anglo-americane con le quali continuava la lotta per la liberazione della Patria. Ravenna (Porto Corsini), 15 novembre - 7 dicembre 1944.







domenica 20 gennaio 2008

Della perduta moralità


Cosa sta succedendo in Italia?” mi chiede al telefono un'amica stupefatta, allarmata e indignata. “Calma e gesso” mi verrebbe da rispondere e invece, devo ammettere, che questo Paese sottosopra sta offrendo uno dei suoi passaggi peggiori. L'amica, residente italiana, vorrebbe capire e lo vorrei tanto pure io. Una pretesa esagerata?

A Napoli e nell'hinterland a dominare sono i rifiuti che sommergono ogni parvenza di vivere civile, umiliano gran parte della popolazione fatta di gente perbene ed esaltano la criminalità organizzata eletta a Sistema. Eppure tutto ciò non è sufficiente al governatore della Campania per riconoscere che sarebbe doveroso farsi da parte. Lui e la classe dirigente. Neppure il rinvio a giudizio rende impellente questa esigenza di elementare democrazia. Ma d'altra parte ha ragione, in un'ottica distorta, Antonio Bassolino. Se non ha subito ancora alcuna condanna, perché dovrebbe dimettersi? Non rimane forse al suo posto il presidente della Regione Sicilia Cuffaro, fresco di condanna, in primo grado, a cinque anni per favoreggiamento, il quale anzi festeggia e ringrazia i fedeli che hanno pregato per lui?

Non se ne va neppure il grande e indefesso collezionista di rinvii a giudizio, che è il tesserato P2 n°1816, il quale ha aggiunto, come le uova fresco di giornata, quello richiesto dai pm di Napoli, come imputato per le attricette raccomandate a Saccà.

In questo paese all'incontrario accade che il ministro della Giustizia si scagli contro la magistratura in un violentissimo discorso al Parlamento, dove riceve il plauso quasi unanime dei compari della “casta” e poi si presenti, come se niente fosse, a Piazza S. Pietro, nella giornata della “divina commedia” come titolava “il manifesto” stamattina. Una giornata riparatrice a causa di quei quei cattivoni che hanno impedito al papa di parlare all'inaugurazione dell'anno accademico nella più importante Università italiana. Laddove si censura la censura a Benedetto XVI, si rivendicano libertà di espressione che il Vaticano ha sempre potuto, esageratamente, esercitare con continue intromissioni negli affari interni (e nelle coscienze) di uno Stato estero.

Mirabile una scheggia di “Blob”, qualche sera fa che mostrava la solita espressione “illuminata” di Buttiglione mentre scherniva gli altri interlocutori, forte di possedere la Verità rivelata e degno incarnatore della tolleranza (si fa per dire). Accanto un alto porporato, monsignor Fisichella, con vistoso crocifisso d'oro al collo apostrofato, giustamente, da Pannella: “Siete dei potenti, prepotenti e anche impotenti”.

In questa Italia, ormai diventata un gigantesco immondezzaio morale, lo sfascio generale è confermato dall'ininterrotta litania di morti sul lavoro, autentici omicidi come a Torino e a Porto Marghera, inutili vite sacrificate, per salari vergognosamente bassi, in nome del profitto che prevale su ogni altra valutazione.

Quanto di cristiano ci sia in tutto questo potrebbero spiegarlo prelati con monile al collo, volgarmente esibizionisti. E, perché no, anche Benedetto XVI (che ha tratto un enorme beneficio dal “gran rifiuto”) e tutti quegli “atei devoti”.

E' tanto conculcata la libertà di espressione dei cattolici che ogni domenica, nelle edizioni principali dei Tg, non manca mai il servizio sull'”Angelus” del papa, cioè sulla preghiera che un sovrano di uno Stato estero recita pubblicamente. Oggi, il Tg1 delle 13,30 per non farsi mancare nulla ha dedicato un'ampia apertura all'evento mediatico. Questa chiamata (metaforica) alle “armi”. Notevole un passaggio che sottolineava come fosse presente Casini con tutta la famiglia, vale a dire una persona che ha convissuto more uxorio con la figlia di uno degli imprenditori più celebrati d'Italia. Fulgido esempio di cattolicesimo anche tutti i baciapile improvvisati che hanno affollato il teatrino e afferrato il microfono, graziosamente offerto.

Ecco quello che succede in Italia, nell'anno di grazia 2008, quello che celebrerà tra alcuni mesi a Pechino l'imponente liturgia dei Giochi Olimpici con assenso quasi unanime, perché si sa che la Cina rappresenta un'opportunità, gli affari una priorità, i diritti umani e le esecuzioni capitali (non fu detto: “quinto non ammazzare?”) un'inutile seccatura. Si prega perciò di non disturbare, please.

giovedì 17 gennaio 2008

Un mondo di plastica


Se guardassimo più frequentemente al di fuori dei nostri confini (non solo mentali), ci potremmo accorgere che in alcune parti del mondo si prova ad alleviare gli acciacchi del pianeta attraverso balsami poco costosi, eppure efficaci. Si dispone di essi in tempi brevi, senza perdersi dietro precisazioni, decreti attuativi, interpretazioni autentiche, che hanno il solo scopo di procrastinare il più possibile decisioni ancora a livello di buone intenzioni, ma troppo scomode per gli interessi di parte. Per questo motivo l’articolo pubblicato su “il manifesto”, nella rubrica “terraterra”, mi è sembrato degno di attenzione e meritevole di qualche riflessione, alla luce della disastrosa situazione ambientale che ci circonda e di cui, prima o poi, pagheremo purtroppo tutti le conseguenze, continuando in questo dissennato sfruttamento del territorio, nel suo mancato rispetto e nella totale indifferenza delle regole che permettono,  generalmente, la convivenza civile.


Se quarantanni fa c’era la “minaccia” della risata omerica che ci avrebbe seppellito (ripresa dal movimento anarchico di fine ‘800), oggi a sotterrarci sarà la “munnezza”. Quando si dice: il progresso.


 


terraterra


Il giro del mondo in una busta (di plastica)


Manuela Cartosio


Dal primo gennaio a Tisbury, un villaggio del Wiltshire, non si usano più le buste di plastica. Non si tratta di un provvedimento calato dall'alto. I 2 mila abitanti hanno convenuto d'andare al supermercato portandosi da casa la borsa della spesa. Di tela, di carta, di paglia. Non di plastica e non usa e getta. Quel che si dice una minoranza virtuosa.


In Cina si usano 3 miliardi di buste di plastica al giorno. Il consumo pro capite di shopper è inferiore rispetto all'occidente ricco ma, moltiplicato per un miliardo e 300 milioni di abitanti, l'impatto ambientale è imponente e di lunga durata (una busta di plastica serve per una manciata di muniti e dura una vita). Si aggiunga il costo della materia prima - il petrolio - da cui si ricavano le plastiche da imballaggio. La Cina ne brucia a questo scopo 37 milioni di barili l'anno. Ci sono questi due fattori dietro la decisione del governo cinese, annunciata a sorpresa martedì scorso, di mettere al bando dal primo giugno i sacchetti di plastica più sottili (sotto 0,025 millimetri di spessore) e di «tassare» quelli più robusti. Per disincentivarne l'uso, i negozianti dovranno addebitare il costo del sacchetto ai clienti.


L'Australia ieri si è messa sulla scia della Cina. Il neo ministro dell'ambiente Peter Garrett ha annunciato un piano per ridurre drasticamente entro la fine dell'anno l'uso dei sacchetti di plastica. Un segnale doveroso per il centro sinistra che lo scorso novembre ha vinto le elezioni grazie ai temi ambientali (gli elettori hanno punito il governo di destra ostile al protocollo di Kyoto). Garret non è entrato nei particolari di un piano che discuterà ad aprile con i rappresentanti dei sei stati e dei due territori in cui è articolata l'Australia. Si è limitato a dire che «personalmente» preferisce mettere al bando i sacchetti di plastica piuttosto che farli pagare ai consumatori. D'accordo con il ministro, riferisce l'agenzia Reuters, Ian Kiernan, presidente dell'associazione Clean Up Australia che cita il caso dell'Irlanda, dove dal 2002 sui sacchetti di plastica grava una tassa scaricata ovviamente sui consumatori. «Il disincentivo all'inizio ha funzionato, ma nel lungo periodo l'effetto sta scemando». Non sappiamo quanti sacchetti di plastica usino ogni giorno venti milioni di australiani. Secondo il ministro, nel quasi continente ce ne sarebbero in giro (nei posti sbagliati) circa 4 miliardi.

Da tempo la città di San Francisco ha vietato i sacchetti di plastica nei negozi di alimentari. Questa settimana l'amministrazione di New York ha votato una legge che obbliga i grandi negozi a dotarsi di contenitori per riciclare i sacchetti di plastica. A Londra stanno per scattare divieti e disincentivi. Il Giappone, sull'esempio irlandese, ha messo un'imposta sulle buste di plastica. Sudafrica, Uganda e persino il Bangladesh hanno adottato misure per liberarsi dalla buste invasive.


E in Italia? Interrogarsi sulle buste di plastica mentre la Campania soffoca sotto tonnellate di immondizia è quasi patetico (eppure gli imballaggi costituiscono una quota sempre più consistente dei rifiuti). Annegata nella passata finanziaria c'era la messa al bando entro il 2010 dei sacchetti di plastica, con l'obiettivo di ridurre la produzione di rifiuti e incentivare l'industria dell'agri-tech (sembra che dal mais si possano ricavare sacchetti davvero biodegradabili, senza dover aggiungere metalli pesanti). In un anno nulla è stato fatto per concretizzare l'impegno fissato dalla finanziaria.

I dati sui sacchetti di plastica sono piuttosto ballerini. Secondo Legambiente, ogni anno nel mondo se ne producono 500 miliardi. L'Italia ne sforna 300 mila tonnellate, l'equivalente di 430 mila tonnellate di petrolio e di 200 mila tonnellate di CO2 emesse in atmosfera. Nel nostro paese, sempre ogni anno, finiscono tra i rifiuti 2 milioni di tonnellate di plastica e vengono consumati 4 miliardi di sacchetti. Tempi di degrado delle buste di plastica tra i 10 e 20 anni.


il manifesto (11 gennaio 2008)

domenica 13 gennaio 2008

La città bifronte


I due volti di Napoli sono racchiusi in queste foto che meglio di qualsiasi commento rimarcano l’assedio che il capoluogo partenopeo subisce. Rappresentano l’ostentazione, elevata alla massima potenza, di quel cancro che è "il Sistema" o, se si preferisce, la camorra, in grado di pulire strade e quartieri, a sua discrezione, lasciando che la "munnezza" imprigioni altre zone della città. Le foto testimoniano come lo Stato abbia ceduto ogni prerogativa legale sul territorio, confermano la lontananza immensa e colpevole di Roma, come colpevoli sono gli intrecci del sottobosco politico, gli ammanicamenti con i capiclan per i quali l’immondizia è oro. E, dunque, ce n’è per tutti. Il personale disincanto accompagna i proclami di queste ultime ore, l'affannarsi dell’enensimo commissario, l’impiego dell’esercito (ma per fini logistici, si puntualizza) quasi terrorizzati che un’azione di forza possa sparigliare gli accordi presi, gli equilibri preesistenti. I rifiuti e l’immondo, nonchè lucroso traffico degli stessi, da nord verso sud rischiano di provocare una secessione che neppure il legaiolo più sanguigno e idiota avrebbe mai potuto auspicare. La destra ci inzuppa i panettoni avanzati, il centrosinistra è belante. Il presidente della Regione, pomposamente denominato "governatore", ribadisce che rimarrà al suo posto, chè andarsene adesso - chiosa - equivarrebbe ad una fuga. Ma, se non ora, quando le dimissioni sue (e del garrulo sindaco)? La fuga, caro governatore, dello Stato e dei suoi apparati è già avvenuta da tempo. A governare Napoli e la Campania ci sono i clan malavitosi. Come è sempre stato. Quelli che lasciano provocatoriamente i sacchetti a circondare l’Asia e puliscono gli ampi vialoni di Scampia. Il messaggio, anche al resto dell'Italia, è chiaro: qui non si muove foglia che la camorra non voglia.



A sinistra: Scampia - Distretto Asia (l'azienda che si occupa dello smaltimento dei rifiuti e sotto: Foria- Piazza Cavour A destra: Scampia - Via Baku e sotto: Quartieri Spagnoli.  Nelle due foto in alto: Sanità e Santa Teresa.


FOTO: http://www.multimedia.ilsole24ore.com


venerdì 11 gennaio 2008

L'oro di Napoli

*Ci mancava altra spazzatura


Avevo in mente di scrivere su altri argomenti, ma mi sono imbattuto in questo interessante articolo sul sito del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e, come sempre accade quando trovo qualcosa di utile, ho pensato subito di condividerlo. Infatti, pur avendo seguito con attenzione i notiziari dei giorni scorsi, non mi ricordo di aver mai sentito parlare del Thor: lacuna informativa oppure mia colpevole distrazione? Comunque la pensiate ecco il contributo. La fonte è autorevole e dunque sotto silenzio non può passare.


Rifiuti: arriva Thor, il sistema di riciclaggio ‘indifferenziato’


Quanto sia oneroso e problematico il trattamento dei rifiuti, lo dimostra la “tragedia” della Campania alla quale media e istituzioni stanno prestando la loro allarmata attenzione in questi giorni. Ma i rifiuti solidi urbani, com’è noto, possono rappresentare anche una risorsa. In questa direzione va Thor, un sistema sviluppato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche insieme alla Società ASSING SpA di Roma, che permette di recuperare e raffinare tutti i rifiuti e trasformarli in materiali da riutilizzare e in combustibile dall’elevato potere calorico, senza passare per i cassonetti separati della raccolta differenziata.


Un passo oltre la raccolta differenziata e il semplice incenerimento, con cui i rifiuti diventano una risorsa e che comporta un costo decisamente inferiore a quello di un inceneritore. Thor (Total house waste recycling - riciclaggio completo dei rifiuti domestici) è una tecnologia ideata e sviluppata interamente in Italia dalla ricerca congiunta pubblica e privata, che si basa su un processo di raffinazione meccanica (meccano-raffinazione) dei materiali di scarto, i quali vengono trattati in modo da separare tutte le componenti utili dalle sostanze dannose o inservibili.


Come un ‘mulino’ di nuova generazione, l’impianto Thor riduce i rifiuti a dimensioni microscopiche, inferiori a dieci millesimi di millimetro. Il risultato dell’intero processo è una materia omogenea, purificata dalle parti dannose e dal contenuto calorifico, utilizzabile come combustibile e paragonabile ad un carbone di buona qualità.


“Un combustibile utilizzabile con qualunque tipo di sistema termico”, aggiunge Paolo Plescia, ricercatore dell’Ismn-Cnr e inventore di Thor, “compresi i motori funzionanti a biodiesel, le caldaie a vapore, i sistemi di riscaldamento centralizzati e gli impianti di termovalorizzazione delle biomasse. Infatti, le caratteristiche chimiche del prodotto che viene generato dalla raffinazione meccanica dei rifiuti solidi urbani, una volta eliminate le componenti inquinanti sono del tutto analoghe a quelle delle biomasse, ma rispetto a queste sono povere in zolfo ed esenti da idrocarburi policiclici”. E’ possibile utilizzare il prodotto sia come combustibile solido o pellettizzato oppure produrre bio-olio per motori diesel attraverso la ‘pirolisi’. L’impianto è completamente autonomo: consuma infatti parte dell’energia che produce e il resto lo cede all’esterno.


Il primo impianto THOR, attualmente in funzione in Sicilia, riesce a trattare fino a otto tonnellate l’ora e non ha bisogno di un’area di stoccaggio in attesa del trattamento; è completamente meccanico, non termico e quindi non è necessario tenerlo sempre in funzione, anzi può essere acceso solo quando serve, limitando o eliminando così lo stoccaggio dei rifiuti e i conseguenti odori. Inoltre, è stato progettato anche come impianto mobile, utile per contrastare le emergenze e in tutte le situazioni dove è necessario trattare i rifiuti velocemente, senza scorie e senza impegnare spazi di grandi dimensioni, con un costo contenuto: un impianto da 4 tonnellate/ora occupa un massimo di 300 metri quadrati e ha un costo medio di 2 milioni di euro.


L’impianto può essere montato su un camion o su navi. In quest’ultimo caso, la produttività di un impianto imbarcato può salire oltre le dieci tonnellate l’ora e il combustibile, ottenuto dal trattamento, reso liquido da un ‘pirolizzatore’, può essere utilizzato direttamente dal natante o rivenduto all’esterno.


“Un impianto di meccano-raffinazione di taglia medio-piccola da 20 mila tonnellate di rifiuti l’anno presenta costi di circa 40 euro per tonnellata di materiale”, spiega Paolo Plescia. “Per una identica quantità, una discarica ne richiederebbe almeno 100 e un inceneritore 250 euro. A questi costi vanno aggiunti quelli di gestione, e in particolare le spese legate allo smaltimento delle scorie e ceneri per gli inceneritori, o della gestione degli odori e dei gas delle discariche, entrambi inesistenti nel Thor. Quanto al calore, i rifiuti che contengono cascami di carta producono 2.500 chilocalorie per chilo, mentre dopo la raffinazione meccanica superano le 5.300 chilocalorie”.


Un esempio concreto delle sue possibilità? “Un’area urbana di 5000 abitanti produce circa 50 tonnellate al giorno di rifiuti solidi”, informa il ricercatore. “Con queste Thor permette di ricavare una media giornaliera di 30 tonnellate di combustibile, 3 tonnellate di vetro, 2 tonnellate tra metalli ferrosi e non ferrosi e 1 tonnellata di inerti, nei quali è compresa anche la frazione ricca di cloro dei rifiuti, che viene separata per non inquinare il combustibile”. Il resto dei rifiuti è acqua, che viene espulsa sotto forma di vapore durante il processo di micronizzazione. Il prodotto che esce da Thor è sterilizzato perché le pressioni che si generano nel mulino, dalle 8000 alle 15000 atmosfere, determinano la completa distruzione delle flore batteriche, e, inoltre, non produce odori da fermentazione: resta inerte dal punto di vista biologico, ma combustibile”.


Un’altra applicazione interessante di Thor, utile per le isole o le comunità dove scarseggia l’acqua potabile, consiste nell’utilizzazione dell’energia termica prodotta per alimentare un dissalatore, producendo acqua potabile e nello stesso tempo eliminando i rifiuti soldi urbani.


Roma, 7 gennaio 2008


 

martedì 8 gennaio 2008

Oh Capitano! Mio Capitano!





Le feste di fine anno che l’’Epifania, giusto ieri l’altro si è incaricata – come da tradizione – di far scomparire, hanno costituito una buona opportunità di flirtare con i film in sala (“L’amore ai tempi del colera”), in dvd (“Signore e signori”), in tv (“Colazione da Tiffany”, “I tartassati” e “L’attimo fuggente”) tutti elencati in rigoroso ordine cronologico di visione.


Gli sfolgoranti paesaggi fotografati a Cartagena e dintorni, incantevoli nella loro bellezza, non sono però riusciti a rendere “L’amore ai tempi del colera” memorabile, né a lasciare impresso un protagonista. Non ho ancora letto il libro di Garcia Marquez, da cui il film di Mike Newell è tratto, ma in genere è la visione cinematografica che segue, e non precede, l’opera a cui fa riferimento. Temo che questo mi condizionerà fortemente. In ogni caso si è trattato del ritorno in sala, cosa che non accadeva da alcuni mesi e poter seguire interamente la pellicola, senza intervallo, ha fatto accettare di buon grado il quarto d’ora circa di pubblicità iniziale. Che è indubbiamente meglio dell’interruzione di un’emozione, come si andava delirando (visti gli esiti) qualche anno fa.


Non avevo mai visto il film di Pietro Germi “Signore e signori”, uno dei capisaldi della commedia all’italiana. Ferocissima e spietata satira del perbenismo, in un Veneto cattolicissimo e bigotto, ambientato a Treviso (oh Treviso!) in un bel bianco e nero. Anno di grazia 1965, ma per i contenuti e i temi resta di strettissima attualità, precorrendo i tempi e anticipando le successive trasformazioni della società italiana. Bel film, in agrodolce, ma la satira e l’’irrisione non conoscono, per intrinseca natura, la lacrima facile né la compassione.


La tv delle feste ha sorpreso dal punto di vista cinematografico, con  piacevoli riproposte, sovente intelligenti. Ne ho potuto cogliere soltanto una parte, ma va bene anche così.


Ignota anche la visione di “Colazione da Tiffany” appartenendo ad un genere, quello della commedia americana, che non mi attrae particolarmente, pur trattandosi di produzioni sovente di livello alto. In questo caso uno degli evergreen, basti solo rammentare l’intramontabile e struggente “Moon River”. Gradevolissimo il film, indimenticabile la fragile Audrey Hepburn, deliziosi i paesaggi e i dialoghi che rappresentano uno dei punti  di forza della commedia americana, quella a cinque stelle intendo, per il brio e la varietà degli argomenti. Una storia che si può anche gustare piluccando qua e là i vari momenti, rimanendo costanti l’incanto ed il sorriso, quello lieve e mai artefatto.


Anche per “I tartassati” si è trattato di una personalissima prima visione integrale, perché - come spesso capita - i film di Totò sono così citati che intere sequenze sembra di conoscerle da una vita. Piacevoli assai i duetti tra il grande comico napoletano e Aldo Fabrizi, magari non scoppiettanti come quelli con Peppino De Filippo, la tradizionale spalla di Totò, ma nella circostanza sarebbe stato sbagliato cercare di individuare a tutti i costi colui che faceva da spalla. Anche in questo caso, pur trattandosi di una pellicola del 1959, il tema della cronica, paranoica e stomachevole evasione fiscale non è affatto arcaico. Davvero singolare come certe opere non denuncino il passare degli anni, riproponendo temi che la globalizzazione, la rivoluzione informatica, il cinismo e l’arroganza di massa non sono riusciti ad offuscare, anzi oserei dire che dal progresso (?) ne sono stati esaltati.


Singolarmente collocato per ultimo (così ha voluto la sorte) il film che maggiormente ha inciso nel cuore, vale a dire “L’attimo fuggente” con il memorabile professor Keating interpretato da uno straordinario Robin Williams. Non vedevo questo lungometraggio di Peter Wair da molti anni e non lo ricordavo così struggente ed esaltante nello stesso tempo. Un tonico formidabile per sviluppare e stimolare la curiosità, la conoscenza e la formazione individuale come persona autonoma e pensante, critica, ma con le capacità  - almeno abbozzate - per poterlo fare in seguito e sempre meglio.


Walt Whitman e la sua celeberrima ode costituiscono il leit motiv dell’opera. Ma accanto a lui figurano le citazioni di Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau. Alla fine, superato il brivido che percorre la schiena quando l’allievo più timido si affranca dal blocco psicologico e sale sul banco, si viene investiti dalla voglia di sfogliare pagine su pagine di poesia e letteratura americana, per sfruttare l’onda lunga favorevole all’assimilazione e alla conoscenza, tormentati da una sorta di bulimia intellettuale che ha dovuto fronteggiare quella personale gastronomica (e non solo) ritraendosi sconfitta parzialmente. In fondo era il periodo delle feste e proprio l’attimo fuggente andava colto nella sua totalità.


 


 


 

venerdì 4 gennaio 2008

Profumo di donna


Questa volta no. Questa volta non ho accettato di veder partire il treno e così, dopo averla salutata sulla carrozza e sceso a terra, sono uscito rapidamente dalla stazione e mi sono infilato sul primo autobus che passava. Illudendomi anche di poter subito rientrare nella quotidiana realtà, mentre però guardavo l’orologio, verificando a distanza i suoi movimenti.


Ecco: già dovevo immaginarla quella donna che avevo tenuta stretta a me fino a pochi istanti prima, che avevo accarezzato a lungo per rassicurarla che anche questo ennesimo e inevitabile distacco sarebbe stato provvisorio. Proprio come gli altri che lo avevano preceduto e come quelli che seguiranno. Per adesso è un continuo rincorrersi.


Ritrovarsi e poi lasciarsi. Non diventerà mai un’abitudine, non sarà mai possibile assuefarsi ad un rituale crudele che prevede la conclusione, provvisoria certo provvisoria, di un rapporto che questa volta si è dipanato lungo undici giorni. Sempre troppo pochi. Inadeguati nella loro ristrettezza, anche se composti da 24 ore, come quelli vissuti prima, da solo. Giorni volati tra le feste di fine anno.


Feste? Ma che tipo di festa potrà mai essere quella che prevede rituali di congedo ispessiti di malinconia e tristezza?


È che ad un certo punto si vive proiettati in avanti. Il primo gennaio, nella circostanza, era già il 2 appena svegliato dall’inebriante profumo del caffè fumante proprio sotto al mio naso. Il caffè a letto: una tenera sorpresa che restituiva quella fatta all’inizio del viaggio. Almeno non ci avrei fatto l’abitudine. È un peccato dover sprecare in siffatto modo una giornata, ma pensare a come sarà 24 ore dopo è inevitabilmente insopportabile. Puoi pure sdrammatizzare, osservando la sera che si tratta dell’ultima cena, ma i sorrisi si spengono.


Eppure non è giusto circoscrivere alle ore finali un periodo che invece è stato di benessere, di felicità assortite, di tenerezze ineguagliabili, di calore, di carnalità. Ma pure di confronti dialettici talora aspri, di breve durata e senza residui irritanti.


Accetto volentieri, si capisce, che la mia solitudine venga violata, l’interferenza è impetuosa e travolgente a tratti. Riesce tutto bene in due. C’è armonia di gesti e movimenti.


La resistenza alla tentazione di essere per primo a svegliarla è dura da contrastare, eppure il bacio del mattino ha davvero qualcosa di speciale, come se le labbra inoperose nella notte riscoprissero un desiderio sempre nuovo al sorgere del sole. Anche se poi il sole si leva molto prima.


Perciò si vorrebbe fermare il tempo, o almeno lo si vorrebbe congelare in certi momenti. Così particolari che appare sommamente ingiusto che anche quelli siano contemplati nel computo finale. Ci sono minuti che dovrebbero durare 61 secondi, ci sono ore che dovrebbero durare 61 minuti e, di conseguenza, giorni di 25 ore.


Indimenticabile un momento di straordinaria intensità emotiva, omaggiato da una tenerezza che mai nessuna donna mi aveva regalato e che, naturalmente essendo solo nostro, non varcherà la porta della zona notte.


Non si chiede poi molto al destino se non quello di potersi ritrovare con arrivi e senza partenze. Di considerare una stazione ferroviaria come il luogo in cui lavorano molte persone. Di transito. Con le emozioni da vivere dopo, fuori dall’edificio e che invece sotto la sua cupola vengono compresse all’eccesso, fino ad essere frantumate quando il treno si mette in movimento.


Scendo dall’autobus, controllo l’orologio: tra cinque ore sarà a destinazione. Lontana. E io, tra poco, rientrerò a casa, tra mura incapaci di restituirmi foss’anche l’eco della sua voce squillante. Adesso sarà il telefono la sua voce. Fino alla prossima volta.