sabato 28 luglio 2007

I luoghi del cuore


Una delle tappa dell’ultimo Giro d’Italia si concludeva nella “sua” città. La prima palpitazione. Da quando l’avevo conosciuta compulsavo ogni volta il percorso della nota gara ciclistica, al momento della sua presentazione, con la speranza che la corsa rosa transitasse da quelle parti, incrociando lungo il percorso “la località” oppure sfiorandola. Quest’anno è stata la volta buona e in un caldo pomeriggio di maggio mi sono inusualmente piazzato davanti al teleschermo.


In realtà sarebbe bello poter seguire tappa dopo tappa il Giro, perché mettendo da parte lo stato preagonico in cui versa il ciclismo dopo i veleni del doping e dunque disinteressandosi dell’aspetto agonistico (come si può apprezzare una performance atletica senza essere assediati dai soliti e fondati sospetti?) c’è invece modo di apprezzare la bellezza del paesaggio italiano. Le tecniche di ripresa, continuamente rivoluzionate, visualizzano perfino nei dettagli ciò che avviene lungo le strade, s’insinuano nella quotidianità delle persone, riprendono scorci ad ampio raggio di un Paese ormai brutalizzato, anche sotto il profilo ambientale, laddove invece è capace di lasciare in uno stato di stupefazione.


Intanto avevo acceso. Intanto era iniziata l’attesa. Di che cosa non so bene, neppure di quello che avrei provato. Curiosità emozionale, poteva essere definita. Sentimenti sfioriti, ma che si ravvivavano pensando a com’ero in quel periodo. Felice. O meglio. Disperatamente felice. Nell’intervallo tra due lutti. Il primo recente, l’altro ben lontano dall’essere preconizzato. E così i problemi erano altri, sempre appropriati in ciascuna fase della vita. Come se il carico di sopportazione si adeguasse a ciò che siamo, che sentiamo di essere. Adesso quei tremori e quei timori, che nella fase nascente si delineavano, appaiono assolutamente innocui e non solo per il dissolvimento di quella relazione, quanto per la precarietà dell’esistente.


Ma ecco che, poco alla volta, dal video rimbalzavano zone abbastanza familiari, in cui riscontravo affinità, ritrovavo le visioni del passato. Poi riecheggiava “quel” nome: la Località. Ed ecco che diventavano molto familiari. Le palpitazioni crescevano come la massa del pane lievitato e poggiato sulla tavola. E il nome veniva ancora ripetuto, perché lo dettavano le esigenze di cronaca, ma il giornalista non poteva immaginare come ad ogni citazione il cuore salisse in gola. Doveva essere in questa fase ascensionale che qualcosa s’inumidiva. E non era sudore.


La conferma, neppure troppo stupefacente in fondo, quando lo schermo rimandava una sfolgorante ripresa aerea della piazza principale che i ciclisti attraversavano per poi girare a sinistra e proseguire verso il traguardo. Come in una volata rocambolesca e confusa i colori delle maglie si mescolavano ai colori dei sentimenti, le voci concitate dei cronisti alle voci che riemergevano dal profondo del cuore che andava più veloce del corridore che aveva tagliato il traguardo, mentre io ero ancora fermo, in uno stand-by emozionale, a quella piazza, a quella via che tante volte avevamo percorso. Al mattino per recarci a fare colazione al bar, nel pomeriggio per andare al cinema oppure fare uno shopping spesso solo visivo, o una visita in libreria. Talora a zonzo, senza una meta, per il solo piacere di girare insieme.


Non rivedevo quella piazza da oltre tre anni. Certo ci sono le foto in Rete, ma le immagini sono piene di quella magia che rende vivi i paesaggi, le case, gli orizzonti, gli skyline, mentre ogni cosa è dal sole illuminata. E quella piazza mi restituiva ogni colore e calore a livello emotivo, disegnando arabeschi seducenti. Io ero lì, in quel momento, in una sospensione del tempo, forse pericolosa, ma che mi restituiva stati d’animo non più sbiaditi. Si trattava di una malìa che proseguiva oltre il traguardo. Forse stavano ormai premiando il vincitore. Mi ritrovavo con gli occhi lucidi e non distinguevo più niente. 


 

giovedì 26 luglio 2007

Il sacrificio degli innocenti


Piazza Magione – Palermo. C’è una targa attaccata al muro del palazzo dove c'è scritto "Da qui dove nacque Paolo Borsellino, nel primo anniversario della strage di Via D'Amelio, parte il recupero del centro storico" http://www.flickr.com/photos/ilriccio/135304960/



In un altro paese gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nelle condizioni di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario”. È il cuore del racconto di Alexander Stille, nello sconvolgente e bellissimo documentario andato in onda su RaiTre lunedì scorso (prima serata: la collocazione è decisamente un evento). Un film che ha tenuto incollati alla poltrona non per il caldo umido e appiccicoso, ma per la tensione che lo sorreggeva e l’amarissima consapevolezza che non si trattava di fiction. Da brividi alcuni momenti di alta tensione, commoventi le testimonianze dei colleghi per un dolore che dopo 15 anni resta profondamente inalterato. Le lacrime del magistrato De Francisci mentre ricordava il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. "E' stato un prezzo altissimo che hanno pagato, loro con la loro vita, e le persone morte con loro. Un prezzo che hanno pagato per il nostro Stato, per la Sicilia, per creare un futuro migliore per tutti noi. Io me lo sono chiesto negli ultimi anni: ne è valsa la pena? Che siete morti a fare? Me lo sono chiesto più volte al punto in cui siamo. E non riesco a trovare una risposta". Pensare che vive in Italia un tale che ha definito “matti” i magistrati e trova milioni di ascoltatori-consumatori-elettori che sono d’accordo con lui.


Ho trovato su “l’Unità” del 20 luglio scorso un commento molto interessante di Saverio Lodato, uno dei più noti e stimati giornalisti palermitani, autore di una monumentale opera su Cosa nostra (“Trent’anni di mafia”) che propone interrogativi inquietanti e riflessioni che meritano attenzione.


L’OPINIONE Le domande intorno alla morte di Borsellino: perché una strage così vicina a Capaci? Che fine ha fatto l’agenda rossa? Perché restano solo un pugno di parenti e magistrati a chiedere?


Se la politica vuol essere credibile riparta dall’antimafia


di Saverio Lodato


L’impettito uomo dei servizi (o dovremmo dire imperterrito?) che si aggira e scompare fra la nuvolaglia di fumo con in mano la borsa di Paolo Borsellino. La borsa che, alla fine di quel tragitto, non conterrà più l’agenda. Fatta sparire, altro che volatilizzata. Il punto di osservazione sul luogo della strage, ideale e tenebroso, rappresentato dal Castello Utveggio. Le misteriose utenze telefoniche che il giorno dell’Apocalisse, a pochi minuti dalla strage di via D’Amelio, entrano in fibrillazione da Palermo in direzione degli “States”. Per notificare l’accaduto? Tranquillizzare? Chiedere conforto al dante causa dello sterminio appena commesso? Sollecitare altre direttive?


La mano che premette il telecomando innescando la catena dell’esplosione? Mai trovata, Figuriamoci il corpo del killer, il corpo del mandante. E poi perché, e per chi, furono uccisi Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Trama e Agostino Catalano? Cui prodest? Qualcuno sa dirlo, spiegarlo, motivarlo? No. Diversamente non saremmo ancora a discuterne. Allora, nel giorno canonico dell’anniversario di via D’Amelio, è il momento adatto per stilare un piccolo promemoria a uso dei tanti smemorati di Collegno che spesso frequentano le stesse fila della lotta alla mafia.


Strage bastarda. Strage commessa da bastardi. Se si potesse declinare una scala di valori dello stragismo, diremmo che quella di via D’Amelio è la strage più bastarda di tutte. Orfana di spiegazioni, orfana di una logica, indipendentemente dalla personalità incommensurabile di Paolo Borsellino. Cercheremo di spiegare la pesantezza di questa affermazione, specificando che tutte queste considerazioni si riferiscono a quanto risulta acquisito per tabulas processuali. Non al senso comune della gente, nel cui immaginario collettivo era ed è fin troppo ovvio che dopo Falcone doveva scoccare l'ora di Borsellino. Ma anche per questa banalissima rifles­sione: solo un club di pazzi incoscien­ti avrebbe lanciato un secondo ordi­gno nucleare sullo stesso obbiettivo quando il fungo sollevato dal primo (la strage di Capaci) non si era anco­ra diradato e non si sapeva che reazio­ne ne sarebbe conseguita da parte del­lo Stato. E tutto si può dire dei mafio­si tranne che siano kamikaze. Vi­gliacchi, semmai, kamikaze no.


Riflettete: della strage di Capaci, quasi subito, si seppe tutto. Di quella di Via D'Amelio, quindici anni do­po, non si sa quasi nulla. A volere es­sere più precisi: mezze verità. Questa seconda parte della considerazione non è nostra, è di Rita Borsellino, l'al­tra sera, durante un dibattito a palazzo Steri, a Palermo, di fronte a quelli che potremmo definire gli Stati gene­rali dell'antimafia: i vertici della nuo­va Procura di Palermo al gran com­pleto. Una spiegazione c'è.


Altra considerazione della Borselli­no. Dopo Capaci, una valanga di pentiti. Dopo via D'Amelio, quasi nulla. E aggiungiamo noi: neanche le proverbiali "bocche cucite". Nean­che le proverbiali scimmiette del folklore mafioso: «nenti sacciu, nenti vitti, nenti dissi». Strano. Solo un povero diavolo, Enzo Scarantino, del quale forse si sono perdute le tracce anche all'anagrafe, che si pen­tì, ritrattò, si ripentì, e così all'infini­to. Un povero diavolo, indiscutibil­mente un ragazzaccio mafioso, che forse disse le cose che disse non secon­do scienza e coscienza, ma perché ri­tenne opportuno che dirle fosse me­glio che non dirle. E speriamo che la frase, per quanto ingarbugliata, in fondo renda bene l'idea. Scarantino non riuscì ad avvalersi del quarto comma della costituzione delle scim­miette del folklore mafioso che così re­cita: «signor presidente, e si chiddu chi dissi costituisci dittu ... comu si nun l'avissi dittu». (E se quello che ho detto rappresenta parola detta co­me se non l'avessi detta). Insomma, alla fine, le mezze verità di Scarantino furono in qualche modo utilizza­te. E Scarantino diventò così un Erco­le processuale sulle cui spalle furono caricate forse eccessive certezze.


D'altra parte, sono cose note agli addetti ai lavori, consegnate ai dibat­timenti. Non è vero infatti che queste vicende non ebbero mai riconosci­mento processuale. Se ne discusse in­vece. Eccome se ne discusse. E il croni­sta ne fu testimone, e non da solo: insieme a tanti altri colleghi. Se non al­tro perché furono i migliori avvocati di mafia a sollevarle. Gli stessi avvo­cati che hanno sempre goduto di buo­na stampa, anche se, nonostante la buona stampa, sia detto per inciso, gli avvocati dei mafiosi hanno collezionato una gran quantità di condan­ne per i loro assistiti a fronte di rare assoluzioni. Possibile che tutti abbia­mo dimenticato? Se si fosse dimostra­to che a fianco della mafia, dietro la mafia, o, a volerla dire più grossa, so­pra la mafia, c'era un'altra entità, gli imputati, alla fin fine, un sia pur pic­colo sconto di pena lo avrebbero ottenuto. Quelle che abbiamo elencate all’inizio sono le storie mai chiarite, sussurrate, qualche volta conclamate. Provate? Eh no: provate no, mai. Seduto in prima fila, Francesco Messineo, procuratore capo, impassibile tanto quanto attento a ogni parola dei suoi aggiunti o sostituti, sembra non gradire né flash né telecamere.


Guido Lo Forte: «L’uccisione di Emanuele Notarbartolo, fine 800. Il direttore del Banco di Sicilia che voleva recidere il nodo del credito concesso ai mafiosi dell’epoca. Tutto così chiaro... Condannati i killer, condannati i mandanti. Qualche anno dopo, invece: tutti assolti. Con banchetti e festeggiamenti a Palermo mentre il figlio di Notarbartolo morì in esilio». Roberto Scarpinato: «La mafia non è una patologia del sistema italiano, ma un fenomeno che dura almeno da 150 anni. È forse azzardato sostenere che la mafia rappresenta la fisiologia più che la patologia?».


Nino Di Matteo: «il problema resta lo stesso: il nodo mafia e politica. Quella che i mafiosi chiamano la spartizione della torta, o, in altre parole, sedersi al tavolino».


Antonio Ingroia: «Possiamo chiedere se e quando verranno cancellate le leggi vergogna che rappresentano un intralcio alla lotta alla mafia?» Conclude Beppe Lumia, vicepresidente dell’antimafia: «Non è giusto dire che non siano stati raggiunti risultati. Tante cose sono state fatte. Certo: la politica non mantiene le sue promesse: e questo è un problema...». Insomma: molti il bicchiere lo vedono mezzo vuoto, altri mezzo pieno. Direte: ma con la strage di via D’Amelio che c’entra? C’entra. Quelli che hanno parlato l’altra sera potevano spingersi sino a un certo punto. Ma non di soli magistrati e parenti delle vittime può vivere l’antimafia. La politica spesso ripete che vuole riconquistare il suo primato. Se non lo fa su questo tema è destinata a restare piccola piccola. E la lotta alla mafia, battaglia perduta in partenza


saverio.lodato@virgilio.it  


 



giovedì 19 luglio 2007

«Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ne ha una volta sola.» Paolo Borsellino


Un altro anniversario da celebrare. Quindici anni trascorsi invano a causa dello sgretolamento della legislazione antimafia, come annotava amaramente martedì sera, nell’ottima trasmissione giornalistica condotta da Riccardo Icona, il sostituto procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Ma almeno, a noi che è concesso, ricordiamo per ravvivare la memoria storica. In un altro paese Falcone e Borsellino sarebbero diventati eroi, tutelati dallo Stato e non isolati (è il senso del racconto di Alexander Stille che andrà in onda lunedì sera su Rai Tre alle ore 21:00). Ammoniva Bertold Brecht: “Beato il paese che non ha bisogno di eroi”. Noi, invece, che di eroi autentici avremmo bisogno, siamo solo uno sventurato Paese che corre impazzito verso la rovina, usurato eticamente e politicamente. Ormai in decomposizione.


Per ricordare, appunto, ho pensato che non ci fosse di meglio che rievocare quella maledetta domenica 19 luglio 1992, attraverso i resoconti giornalistici, nella fattispecie de “la Repubblica”. Ho scelto quattro pezzi, di cui uno scritto dopo la strage di Capaci, sulla possibilità che fosse proprio Paolo Borsellino ad essere nominato Procuratore nazionale antimafia. Due di martedì 21 luglio (la Repubblica a quel tempo non usciva il lunedì, sull’archivio digitale non c’è traccia di un’eventuale edizione straordinaria e la memoria non mi soccorre in questo momento). L’ultimo, del 22, contenente la terribile profezia di Paolo Borsellino. Assieme al magistrato morirono in via D’Amelio gli agenti di scorta Agostino Catalano (caposcorta), Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto è Antonino Vullo. (fonte Wikipedia).


la Repubblica - Sabato, 30 maggio 1992 - pagina 2


dal nostro inviato GIUSEPPE D' AVANZO


L' ASSALTO ALLO STATO Le reazioni del magistrato dopo la proposta del ministro dell'Interno Scotti


E BORSELLINO ORA ATTENDE


' Superprocuratore? Vedrò se candidarmi...'


PALERMO - Alle otto in punto, come sempre, Paolo Borsellino è nel suo ufficio di procuratore aggiunto di Palermo. Con un peso sulle spalle in più. Detto nel più semplice dei modi, il governo - il ministro degli Interni - vede in lui l'uomo che può raccogliere l'eredità di Giovanni Falcone, il giudice che può continuare il lavoro interrotto dal tritolo di Capaci. Vincenzo Scotti glielo chiede esplicitamente: deve essere Borsellino il nuovo procuratore nazionale antimafia. Paolo Borsellino è nervosissimo. Ha il volto tirato, ha modi inusualmente bruschi. E' stato a Roma nel pomeriggio di giovedì, è tornato a Palermo nella notte. Dalle 8 in punto il telefono non smette di trillare. Paolo Borsellino è stanco di interviste. Lo dice chiaro e tondo: "Non posso vivere così, signori miei. Non sono abituato e non voglio abituarmi a lavorare con i giornalisti in attesa fuori la porta". Ma è l'uomo del giorno, è l'uomo che la strage di Capaci ha chiamato sotto i riflettori. Procuratore Borsellino, quando il governo ha chiesto la sua disponibilità per la Procura nazionale antimafia? "Nessuno ha chiesto la mia disponibilità". Nessuno le ha anticipato la proposta del ministro degli Interni Scotti? "No, ho ascoltato per la prima volta la proposta di Scotti in pubblico, come tutti alla presentazione del libro di Pino Arlacchi". In ogni caso, ora, la proposta c'è. Scotti, a nome del governo si augura che, dopo la morte di Giovanni Falcone, si riaprano i giochi per l'incarico di Superprocuratore e auspica che lei presenti la sua candidatura. Che cosa farà? "Io non considero questo problema attuale. Non posso non considerare che è in corso una procedura che deve avere, avrà i suoi sbocchi naturali". Martelli ha annunciato oggi che sta predisponendo un provvedimento legislativo che possa riaprire i termini per la presentazione delle candidature. Ora ammettiamo che quest'iniziativa vada in porto. Lei presenterà la domanda? "Quando, e se, il problema diventerà attuale come tutti gli altri possibili ed eventuali candidati valuterò l'opportunità di presentare domanda". Della necessità di un organismo giudiziario che coordini le indagini antimafia Borsellino non ha dubbi. Lo ha ripetuto anche ieri dai microfoni del Gr1. Gli hanno chiesto: rimane l'esigenza di avere un nucleo centrale dove convogliare le indagini? Ha risposto: "La gestione del tutto insoddisfacente delle dichiarazioni di Calderone hanno inciso enormemente sulla decisione di Falcone di lasciare la procura di Palermo. Giovanni si era reso conto che, con l'imposizione di una visione parcellizzata del fenomeno mafioso, non fosse possibile da un'unica sede giudiziaria ripetere quello che era successo nella fase originaria del maxi- processo. Ebbe l'occasione di andare a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia dove si impegnò soprattutto nello studio di un'organismo giudiziario che potesse ricreare, anche se per diversa via, quelle condizioni che erano proprio alla base della filosofia del pool antimafia". Allora, qual è la chiave? "Il lavoro di Falcone al ministero ebbe, sotto questo profilo, successo. Si è arrivati alla creazione di questo organismo in grado di avere una visione d'assieme rispetto alle singole fette dei vari processi che si occupano di organizzazione mafiosa. Purtroppo l'assassinio ha stroncato la possibilità di utilizzare questo strumento che avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operò, nel suo periodo migliore, il pool antimafia di Palermo". Paolo Borsellino oggi più che della sua candidatura preferisce parlare di quanto sarebbe stato utile Falcone come procuratore nazionale antimafia. Procuratore, tuttavia, Giovanni Falcone si è trovato molto isolato quando ha sostenuto la nascita della Direzione nazionale antimafia. "Giovanni a volte peccava di ottimismo presupponendo che i magistrati potessero sostenere le sue iniziative. Peccò di ottimismo quando doveva prendere il posto di Antonino Caponneto all'ufficio Istruzione, quando si candidò al Consiglio superiore della magistratura, quando si mise in corsa per la Superprocura. In più occasioni non è stato sostenuto dall'associazione dei magistrati, dal Csm". Non è che a Palermo, Falcone abbia avuto miglior sorte "Voglio sfatare questo luogo comune. Io credo che a Palermo, presso la magistratura siciliana, la media del consenso nei suoi confronti sia stata più alta che altrove. La gran parte dei magistrati di Palermo, anche quelli che hanno avuto con lui dei disaccordi, sapevano che il procuratore nazionale antimafia doveva essere lui". Lei si è dato molto da fare nella sua corrente per sostenere la candidatura di Giovanni Falcone... "Io ho assunto posizioni pubbliche. Ad un convegno a Torino di Magistratura Indipendente ho sostenuto che la corrente dovesse appoggiare Giovanni Falcone...". Risulta, in verità, che lei abbia fatto di più: con la collaborazione di Ernesto Staiano, avrebbe conquistato il consenso per Falcone di quattro dei cinque membri di Magistratura Indipendente presenti nel Csm. Voti utilissimi che avrebbero dato a Falcone la maggioranza nel plenum del Consiglio. "Sì, io avevo tratto la conclusione che la nomina di Giovanni a procuratore nazionale antimafia era sostenuta dai numeri, era cosa fatta". Ora potrebbe toccare a lei diventare procuratore antimafia. Hanno molto impressionato in questi giorni alcune sue dichiarazioni. L'ultima in ordine di tempo è questa. Lei ha detto stamattina al Gr1: "Ciò che è difficile questa volta è trovare lo stesso entusiasmo. Spero che l'entusiasmo me lo possa far tornare una rapida conclusione delle indagini sull'assassinio di Falcone". "Non nascondo, l'ho detto pubblicamente, di avere paura di perdere l'entusiasmo per il mio lavoro di magistrato. Nonostante questo timore continuerò a lavorare in questo ufficio dove mi trovo benissimo, continuerò a lavorare come sempre, come da anni faccio, con lo stesso impegno".


la Repubblica - Martedì, 21 luglio 1992 - pagina 4


dal nostro corrispondente ATTILIO BOLZONI


L' ITALIA IN TRINCEA Tra accuse e dolore si cerca una pista per il massacro: la mafia di Agrigento o i segreti di Falcone?


DI STRAGE IN STRAGE


'Avevamo chiesto più controlli in quella strada'. L' esplosivo - quasi un quintale - era nascosto sotto un'auto in sosta. Borsellino, grazie ai pentiti, era sulle tracce dei killer di Livatino


PALERMO - E' stato un bombardamento, hanno bombardato Palermo per seppellire fra le macerie di un quartiere il cadavere di Paolo Emanuele Borsellino. Con il suo coraggio di siciliano onesto, con i suoi segreti di procuratore, con la donna e i quattro uomini che lo proteggevano servendo lo Stato. Carne da macello, sopravvissuti di un'altra èra, bersagli inermi saltati in aria in un caldo pomeriggio d'estate alla periferia di una città senza scampo. Perché l'hanno ucciso? E cosa dobbiamo scrivere questa volta? Volete sapere come muore un magistrato della Repubblica in Sicilia, volete sapere perché ci sono volute nove ore per ritrovare pezzi di gambe e di braccia disseminati lungo una strada sventrata dall'autobomba? Bene, probabilmente nessuno ve lo racconterà mai, nessuno sarà mai in grado di dirvelo, di spiegarlo ai suoi figli, di spiegarlo ai figli, ai fratelli, alle madri e ai padri di quei poliziotti morti sul campo di Palermo, morti in guerra, bruciati, disintegrati da 80 chili di esplosivo sintetico piazzato sotto un'anonima "Seat Ibiza" di colore azzurro. Dietro l'ultima strage, dopo l'ultima strage annunciata, c'è il tutto e c'è il niente, ci sono mille piste e nessuna, ci sono indizi che si perdono nel vuoto e voci, le più incredibili voci che accompagnano quindici anni di inchieste che attraversano mezza Sicilia. La mafia di Agrigento, le cosche di Mazara del Vallo, i boss che confessano le loro colpe solo a lui, gli intrecci con la politica, i segreti confidati dall'amico Falcone, una nuova pista sul delitto Lima, una vecchia pista sulle guerre fra cosche, un nuovo pentito di Caltanissetta, un vecchio pentito di Trapani. Chi potrà mai dire perché è morto Paolo Emanuele Borsellino? Chi lo scoprirà mai in questa Sicilia, qui dove non s'è scoperto mai niente? Il giorno dopo un pomeriggio di angoscia passato a fissare i vigili del fuoco che non riescono a estrarre la gamba di una ragazza poliziotto incastrata nel cemento, passato a respirare le folate di nafta portate dal vento caldo, a vedere i frammenti di cervello umano incollati al quinto piano di un palazzo, il giorno dopo resta l'incubo e l'incertezza. Le indagini? Se ne dicono tante, tutti parlano ma nessuno sa qualcosa di sicuro, di vero, tante piccole tracce che conducono alla mafia di provincia, alla mafia più feroce e più potente, a quella mafia che per Falcone e lo stesso Borsellino "comandava su Palermo". E cominciamo allora a raccontarvi del viaggio che aveva in programma Paolo Borsellino, una missione in Germania per ascoltare un pentito. Uno di quelli che stava svelando grandi misteri sull' organizzazione denominata Cosa Nostra. Chi è? Il suo nome è top secret, come sarebbe dovuto rimanere segreto anche quello di un altro collaboratore della giustizia della provincia di Caltanissetta che ha deciso di parlare. Tutti e due, il "tedesco" (un agrigentino che vive in Germania) e quello di Caltanissetta, hanno svelato nelle ultime settimane molte cose sulla mafia, molte cose degli ultimi mesi, notizie di prima mano. E a riceverle era stato soprattutto lui, Paolo Emanuele Borsellino. Di lui si fidavano, in lui credevano. Ecco cosa ci ha detto un magistrato molto amico di Borsellino: "Ho sentito Paolo sabato mattina, gli ho chiesto che ne pensava della sentenza della Corte di Assise di Appello nel processo Lipari, mi ha risposto: ' Ne parliamo quando torno dalla Germania, ma ormai ho tutto chiaro, su Agrigento ho capito tutto, ho capito tutto sulla morte del giudice Rosario Livatino, ho capito tutto sulla morte del presidente Saetta, ho idee chiare anche sull' uccisione del maresciallo dei carabinieri Guazzelli e sulla mafia di Palma di Montechiaro' ... questo mi ha detto Paolo sabato mattina, il giorno prima...". E questa è una pista, la prima pista con un minimo di concretezza per tentare di dare un movente alla strage di domenica. E' vero, è un po' poco, ma è tutto quello che c'è. E sempre sulla frontiera della provincia mafiosa il procuratore aggiunto di Palermo, che da sei mesi aveva ricevuto l'incarico di indagare proprio sulle cosche di Agrigento, di Trapani, di Caltanissetta, aveva confidato a un altro amico magistrato: "Il mio problema è il tempo, lotto da giorni contro il tempo, devo fare presto, molto presto...". Il procuratore temeva qualcosa, sapeva che doveva chiudere subito le sue inchieste sulla mafia di provincia con una serie di operazioni, era sicuro che non poteva aspettare oltre. Anche perché uno di quei pentiti che aveva incontrato (proprio quello di Caltanissetta, un sicario, il suo nome è inspiegabilmente noto a tutti già da un mese) ha svelato pure il piano per uccidere due poliziotti della sua città. E' nella rabbia e nella potenza dell'inesplorata mafia di provincia la firma della strage di domenica? Dietro quei sei morti c'è però dell'altro, ci sono parole pronunciate da Borsellino appena un paio di giorni dopo l' uccisione di Giovanni Falcone. Il procuratore Borsellino ha parlato a lungo con il procuratore Celesti, il magistrato che fino a una settimana fa conduceva l'inchiesta sul massacro dell' autostrada. E al suo collega ha raccontato molto probabilmente tutto quello che sapeva sull'uccisione del suo amico Giovanni, gli ha raccontato tutto quello che Falcone gli aveva detto, tutto quello che non sempre si può scrivere subito in un rapporto, che non può diventare subito atto ufficiale. E anche in questo faccia a faccia fra procuratori, in questa "Falcone story" descritta da Borsellino può nascondersi il movente della sua morte. Per quello che ha detto, per quello che ha annunciato di rivelare, a cominciare dai diari: "Sono autentici... Giovanni me li ha fatti vedere...". Questa è la seconda pista per decifrare l'autobomba. Pista nebulosa che arriva da lontano, almeno dalla mattina del 12 marzo. Mondello, i vialetti che portano il nome di antiche principesse, l'onorevole Lima che muore ammazzato. E appena due mesi dopo c'è la strage dell'autostrada, e appena altri due mesi dopo c'è Borsellino che salta in aria con la sua scorta. Tre massacri legati uno all'altro, un uomo che muore su una sponda, tutti gli altri che cadono sull'opposto fronte ma colpiti tutti probabilmente dalla stessa fazione, dalla stessa mafia. Un'azione di guerra dentro la città di Palermo, l'ultima terrificante scorribanda nella città laboratorio di morte e di veleni. "Sì, è un fatto di guerra che rientra nelle pagine più tragiche della storia del terrorismo internazionale, sono pagine degne di città come Beirut", dice con un filo di voce il capo della polizia Vincenzo Parisi appena sbarca in Sicilia. Beirut è in via D'Amelio, sei palazzi, il più basso di otto piani, il più alto di tredici. Quasi trecento metri di strada cosparsa dall'olio e dalla benzina di 51 auto volate in cielo alle 16,55 di domenica, quasi trecento metri di distruzione. Beirut è in via D'Amelio. Dove una volta c'era il covo di Nino Madonia, quello trovato dalla polizia e da Falcone nell' 89 con il librone delle estorsioni. Dove non ci sono mai state quelle "zone rimozioni" anti autobomba disseminate a ogni angolo di Palermo. Eppure lì abitava la madre di uno degli uomini più "a rischio", eppure già due settimane fa qualcuno aveva chiesto maggiori protezioni su quella strada. E lo gridavano domenica notte gli uomini delle scorte. Il ministro Martelli ha voluto spiegazioni dal prefetto e dal questore sulle misure di sicurezza che non c'erano. Il prefetto risponde che nessuno ha mai chiesto nulla. Ma che importa adesso? Che importa, la "Seat Ibiza" sotto la quale hanno sistemato quegli 80 chili di Sintex era addirittura l'auto di un inquilino del palazzo di via D'Amelio 19. Più facile di così, i mafiosi assassini non hanno fatto neanche fatica. Forse qualcuno li ha visti, ma neanche questo importa adesso. Adesso che l'Fbi offre un'altra volta la sua collaborazione per la ricerca dei colpevoli "del codardo attentato", adesso che una cartomante e una confidente spiegano che loro "l'avevano detto che un giudice doveva morire", adesso che s'è anche scoperto che il radiocomando è stato azionato da un punto X a meno di 200 metri. Adesso che una breve nota di agenzia informa sui risultati dell'autopsia: "La tremenda esplosione ha tranciato di netto a Borsellino gambe e braccia...". Adesso che un vigile del fuoco trova in un angolo di via D'Amelio una mano, una mano con unghie ben curate, la mano destra della poliziotta Emanuela Loi. Adesso, qui, a Palermo, città senza scampo.


la Repubblica - Martedì, 21 luglio 1992 - pagina 1


di GIORGIO BOCCA


LE BRIGATE NERE DELLA PIOVRA


NON VEDEVO Paolo Borsellino da quattro anni, da quando lavorava con Falcone, Di Lello e Ayala al pool antimafia, piano terreno del Palazzo di giustizia, a Palermo, reparto di massima sicurezza e noi cronisti del continente vi entravamo con emozione e rispetto, era la prima volta che incontravamo uno Stato giovane e forte, un corpo di giudici crociati nella guerra contro la Mafia, una forte speranza nella Palermo che Durrenmatt ricorda "come rosa dalla lebbra". E INVECE, ora lo sappiamo, erano quei quattro gatti coraggiosi, invisi alla maggioranza dei quindici, gelosi della loro notorietà, preoccupati o infastiditi per la breccia che avevano aperto nella loro routine. L'ho rivisto nel dicembre scorso e in quell'incontro Borsellino mi ha spiegato le ragioni per cui è morto. Né presago né rassegnato, anzi ben deciso a battersi e persino ottimista. La prima ragione della morte sua e di Falcone è l'isolamento in cui vivono e operano i giudici coraggiosi. Gli chiesi di come era stato combattuto e spaccato il pool antimafia e lui diceva, con quella sua capacità di storicizzare, di mettersi come fuori dalla vicenda: "Guardi, io non credo a un disegno politico che partiva da Andreotti e attraverso i Lima, i Vitalone e i Carnevale arrivava al Consiglio superiore della magistratura e da esso a Palermo. Forse è bastato il radicato vizio della corporazione, la regola principe dell'anzianità che fa grado, che ti permette di programmare una vita, che uccide il senso della responsabilità e copre tutto con la patina della routine. Nel sangue della maggioranza dei magistrati c'è come un anticorpo per il magistrato diverso che osa, che fa, che inventa dove tutti tirano a campare. Si dice in giro che Corrado Carnevale è inviso ai giudici di merito, ai giudici giudicanti. Non è vero, è colui che gli ha suggerito gli strumenti garantisti e supergarantisti che gli consentono di atteggiarsi a giudici 'terzi' imparziali esecutori della forma giuridica". Già, ecco la prima ragione per cui i Borsellino e i Falcone muoiono e gli altri, molti altri, vanno avanti all' infinito senza mordere mai nel corpo velenoso della Mafia. La seconda ragione per cui Falcone e Borsellino sono morti, Borsellino me la diceva nella sua casa, nel suo studio da notaio umbertino, da avvocato dannunziano come lo sono ancora, spesso le case degli italiani moderni e innovativi in tutto fuor che in quella scenografia casalinga, ed era l'uso dei pentiti, il passo decisivo nella lotta alla mafia che sono i pentiti. "Vede - diceva - i pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro ma vogliono che sia affidabile, che sappia davvero usarli per colpire i loro nemici. E' un do ut des che ha i suoi rischi: loro vogliono vendetta, noi giustizia. A Totuccio Contorno la Mafia ha ucciso quarantasei parenti, a Buscetta trentasei. Ma chi è il giudice a cui un pentito si rivolge? Un giudice tira a campare che si laverà le mani del loro caso e della loro sicurezza? No, è un giudice disposto a battersi. Ma un giudice che dispone di grandi pentiti agli occhi dei colleghi appare come un privilegiato, uno che fa un gioco scorretto. Di Falcone hanno detto addirittura che aveva fatto venire Contorno dagli Stati Uniti per uccidere i corleonesi, che lo lasciava libero perché uccidesse i corleonesi. Il giudice che sa guadagnarsi la fiducia dei pentiti è in lotta su due fronti: contro la Mafia per cui il pentito più che un testimone pericoloso è l'eresia, l' uscita dalla chiesa mafiosa e contro la corporazione". Aveva perfettamente ragione Borsellino anche se non era per nulla presago, anche se era pieno di voglia di fare, di scoprire. La terza ragione per cui Falcone e Borsellino sono stati uccisi è quella di cui ha parlato anche il presidente della Repubblica quando ha detto: lo Stato per essere credibile deve essere rappresentato da persone credibili. Ma questo non lo è, nel governo di questa Repubblica, nel Parlamento di questa Repubblica ci sono, e tutti le conoscono nome per nome, persone che sono lì per i voti della Mafia o della Camorra. Chiedevo a Borsellino: "Lei che idea si è fatta del rapporto politica- Mafia?" Diceva: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui si possono accordare è la spartizione dei beni pubblici, il profitto illegale sui lavori pubblici. Ecco perché i mafiosi e i camorristi hanno deciso di entrare nei municipi, nelle Usl, nelle province, nelle regioni e per noi giudici è sempre più difficile stare al passo di queste combinazioni, non è facile essere i difensori di uno Stato in cui molti, troppi sono amici dei mafiosi". Non è davvero facile. I colpi di mitra che hanno ucciso Lima e Ligato volevano dire: non si esce impunemente dalla nostra società. Le cariche di dinamite che hanno ucciso Falcone e Borsellino vogliono dire: nessuno si metta in testa in questo paese di fare sul serio la guerra alla Mafia. Nel disfacimento di questo regime i mafiosi sembrano avere la parte sanguinaria e crepuscolare che nella repubblica di Salò ebbero le brigate nere. Gli uomini di regime, i politici, tenevano pronto l'abito borghese per fuggire, avevano già trovato mezzi e amicizie per salvarsi, ma gli altri, quelli senza scampo continuavano a far strage. Sì, c'è un legame fra questo sistema che si estingue e la ferocia mafiosa.


la Repubblica - Mercoledì, 22 luglio 1992 - pagina 5


di UMBERTO ROSSO


IL GIORNO DELL'IRA


BORSELLINO SAPEVA: ' QUEL TRITOLO E' PER ME'


Ma nel rapporto ci sono altri 4 nomi. In un documento segreto del Ros, il reparto operativo speciale dei carabinieri, erano indicati i nuovi bersagli della Piovra. Che fine hanno fatto le informative che annunciavano la strage? Scoppia il giallo sugli avvertimenti e sulle segnalazioni non raccolte. Le piste si accavallano. Si parla di intercettazioni telefoniche, di pedinamenti, di una talpa che ha tradito il giudice


PALERMO - "Il tritolo è arrivato anche per me, lunedì scorso...". Paolo Borsellino sapeva. Sapeva perfettamente che ormai era soltanto una questione di giorni. Era arrivata una segnalazione precisa: Cosa nostra intendeva chiudere, subito, anche questo "conto" in sospeso. E la segnalazione precisa era contenuta in un rapporto del Ros, il reparto operativo speciale dei carabinieri, dove, sulla base di notizie confidenziali, erano stati evidenziati i nuovi probabili obiettivi della mafia. Paolo Borsellino in primo luogo, e il suo più stretto collaboratore, il maresciallo Carmelo Canale. Quindi un capitano del Ross, Roberto Sinico, e poi due politici, Salvo Andò, attuale ministro della Difesa e l'ex ministro per il mezzogiorno Calogero Mannino. Adesso si apre un giallo su questi avvertimenti non raccolti dagli organi di sicurezza, mentre altri elementi rendono il copione drammaticamente simile a quello della strage Falcone. E' sbarcata la squadra dell'Fbi, per collaborare alle indagini, mentre sono stati nominati i quattro superesperti del Cis per le perizie sull'esplosivo. Cominciati gli interrogatori dei colleghi di Borsellino: fra i primi ad essere sentiti il procuratore Giammanco e altri tre sostituti. Ascoltati soprattutto per ricostruire le ultime indagini di Borsellino, in particolare quelle sui pentiti. Per il resto, continua il balletto sulla ricostruzione dell'attentato: adesso si torna all'ipotesi dell'auto imbottita di esplosivo, e non a quella di un borsone al tritolo piazzato sotto un'auto in sosta. Di certo c'è che Paolo Borsellino sapeva d'essere in gravissimo pericolo. Una prima segnalazione era già arrivata ai primi di luglio, parlava di un carico di esplosivo in viaggio per la Sicilia, destinato proprio a lui. Lo stesso Borsellino però non aveva dato gran peso all'informativa, gli sembrò una delle tante minacce di morte. Poi, la settimana scorsa, è accaduto qualcosa: con tutta probabilità un secondo segnale. Stavolta fortissimo, attendibile, dettagliato. E Borsellino capisce che la sua vita è ormai appesa a un filo. Lo confida, appena qualche ora prima di saltare in aria, a Giuseppe Tricoli a casa del quale aveva pranzato. Gli rivela appunto che quel tritolo è pronto. Tricoli ricorda anche che l'amico Paolo gli disse di aver informato moglie e figli del tunnel nero ormai vicinissimo. E il giorno prima dell'"appuntamento" con la morte, il procuratore aggiunto di Palermo entra nella chiesetta di Santa Luisa de Marillac - dove si celebreranno i suoi funerali - e si inginocchia. Prega, poi si confessa per l'ultima volta. Ma che fine hanno fatto quelle segnalazioni, le informative che annunciavano la strage? In via D'Amelio non è mai scattata la zona rimozione antibomba. Si alza, incontrollabile, il solito balletto di smentite e di polemiche. LA TALPA - C'è un traditore? Per rispondere il pool del procuratore Giovanni Tinebra sta cercando di risolvere un rebus. Paolo Borsellino era già stato in via D'Amelio, sabato pomeriggio, esattamente ventiquattro ore prima dell' attentato. Era andato, ancora una volta, a trovare la madre, che stava aspettando una visita medica domiciliare. Il medico poi telefonò, spostando all'indomani l'appuntamento. Ma perché il commando non entrò in azione quel giorno, quando Borsellino spuntò nella strada della morte? E' una domanda cruciale per le indagini. La risposta: perché il commando non aveva ricevuto l'informazione giusta, l'input di morte arrivò invece il giorno successivo. Sembra difficile ipotizzare infatti uno scenario diverso, cioè che il commando abbia agito senza disporre di infiltrati. In questo caso i killer avrebbero dovuto seguire i movimenti del magistrato, disporre di una base operativa nella zona. Assolutamente pronti, allora, a premere il bottone all'arrivo del bersaglio prescelto, in qualunque momento. C'è poi un altro particolare: da un paio di settimane il giudice non andava a trovare la madre. I killer, allora, sarebbero dovuti rimanere per una quindicina di giorni nascosti in zona. Troppi. LE INTERCETTAZIONI - Ma si parla anche di telefoni sotto controllo, come ha ipotizzato ieri lo stesso ministro Mancino. Dal cellulare di Paolo Borsellino potrebbe essere partita la telefonata che preannunciava alla madre il suo arrivo. Con uno "scanner", si possono intercettare i telefonini, ma soltanto in circostanze fortuite. Per questo la pista non viene giudicata molto attendibile, anche se gli esperti stanno ricostruendo tutto il traffico e le telefonate effettuate dal magistrato. La stessa operazione compiuta sul telefonino di Giovanni Falcone. Ma anche qui torna l'altra ipotesi, quella che cioè Borsellino sia stato semplicemente pedinato. Il giudice era abbastanza abitudinario, di rado saltava la visita domenicale alla madre. LA PROTEZIONE - Resta ancora senza una spiegazione ufficiale quel mancato divieto di sosta antibomba nella strada della strage. Ayala ha confermato: quella via era al secondo posto nella scala delle zone a rischio di Palermo, da quindici giorni si parlava invano di far scattare misure adeguate. Borsellino, al ritorno da un viaggio in Germania, dove a Mannheim ai primi di luglio aveva sentito un pentito, raccontava - assai impressionato - delle misure di protezione predisposte dai tedeschi: otto vetture lo avevano tutelato, con un macchina "apripista", era stato registrato sotto falso nome in albergo e i suoi telefoni tenuti sotto controllo dalla polizia. LA PISTA TEDESCA - Proprio in Germania sarebbe tornato per continuare gli interrogatori di un pentito di Agrigento che stava raccontando i retroscena dei delitti Livatino, Guazzelli, Saetta. Ma altri tre collaboratori si "confidavano" con il procuratore aggiunto. Nomi ora forse bruciati, dopo le "confidavano" con il procuratore aggiunto. Nomi ora forse bruciati, dopo le indiscrezioni finite sui giornali, fra la grande rabbia dei giudici. C'è un grosso trafficante di droga che sta parlando della rotta orientale dell'eroina, ma anche un ex esponente della "alta finanza" milanese che parla del denaro sporco e del riciclaggio.


 


 

martedì 17 luglio 2007

Un programma in pensione

È stranamente defilato (taglio basso) un commento (che condivido) pubblicato su il manifesto del 14 luglio scorso, relativo al dibattuto argomento delle pensioni, con particolare riferimento al ripetutamente evocato (e auspicato?) conflitto generazionale che potrebbe scatenarsi tra padri e figli. Per questo motivo mi pare opportuno attribuirgli un maggiore rilievo. Aggiungo, anche, quelle parti del programma dell’Unione relative alla vexata quaestio, un programma che evidentemente era destinato (dopo) a diventare carta straccia come accaduto, ad esempio, per i patti di convivenza sociale, meglio definiti come unioni civili (pag 72).


Giovani Caro zio Walter non ce la racconti


E' vero, ai giovani delle pensioni non frega niente. Sono troppo presi a tirare a campare tra un lavoretto precario e l'altro, semplicemente pensano che non la prenderanno mai. E allora è fin troppo facile agitare lo scontro generazionale tra poveretti. Le pensioni sono un privilegio dei vecchi? E allora basta difendere questa gerontocrazia conservatrice piena di soldi e di diritti consolidati. Il gioco è fin troppo semplice e sfacciato, prima togliamo il diritto al lavoro ai giovani, poi li usiamo per togliere il diritto alla pensione pubblica a tutti. Sono solo due facce della stessa medaglia, un profluvio di dati e saggi si divertono a spacciare per moderno un tremendo salto all'indietro: fare piazza pulita del diritto al lavoro e dello stato sociale. Ma parlare di giovani fa tanto moderno anche se la retorica paternalista del sacrifico dei padri per il bene dei figli è vecchia e bacucca. Dall'articolo della domenica di Scalfari, alla lettera ecumenica di Walter Veltroni, la Repubblica, organo di stampa del nascente Partito Democratico, si è scoperta giovanilista. I giovani drogati, bulli, no global, tanto amati dai cronisti, sono all'improvviso diventati i nostri bravi ragazzi. E se invece decidessero di non accettare pacche sulle spalle da giornalisti superprotetti con la barba bianca e politici giovanili ma già vecchi visto che la pensione la prendono dopo sole due legislature? Se al posto di sbavare davanti alla nuova Cinquecento come fosse la nazionale di calcio mandassero in panchina Montezemolo, che si permette di dire che i sindacati rappresentano i fannulloni? E se al posto di invidiare i loro vecchi mandassero a quel paese i «progressisti» che li hanno costretti ad una vita flessibile e ora vogliono usarli per fregare anche i nonni? Per carità, che non pensino alla pensione altrui e restino al loro posto precario, a prendersi le pacche sulle spalle di zio Walter. G.Sal.


il manifesto (14 luglio 2007)


Una previdenza sicura e sostenibile (pag 166)


Come nella quasi totalità dei paesi europei, anche per ciò che riguarda l'Italia le attuali tendenze demografiche avranno un'incidenza rilevante sugli equilibri futuri della previdenza. Tuttavia, riferendosi alle analisi più recenti, riportate anche nei documenti ufficiali del governo, si osserva che nel nostro paese, a partire dal 1993 fino al 2001, il ritmo di crescita del rapporto tra spesa pensionistica e PIL ha registrato un sostanziale rallentamento. Ciò è conseguenza di una più ridotta dinamica della spesa in termini reali dovuta all'effetto congiunto di diverse modifiche introdotte con le riforme degli anni '90. Dal 2002, il rapporto tra spesa pensionistica e PIL ha ripreso a crescere, in parte per l'aumento di una quota delle maggiorazioni sociali, ma soprattutto a causa della dinamica molto rallentata del PIL. In prospettiva, per il prossimo quinquennio, prima dell’innalzamento rigido dell’età pensionabile introdotto con la riforma previdenziale del governo Berlusconi, le previsioni indicavano che la spesa totale per pensioni al netto dell'indicizzazione sarebbe dovuta crescere ad un tasso medio annuo di circa il 2%, un po’ più elevato rispetto alla seconda metà degli anni '90 ma molto inferiore al tasso di crescita sperimentato in periodi precedenti.(...)


Sulla base di ciò, noi crediamo necessario intervenire con misure migliorative e di razionalizzazione dell'esistente. In particolare puntiamo a:



- ribadire la necessità di attenersi alle linee fondamentali



previste dalla riforma "Dini" che senza altre continue



ipotesi di riforma del sistema pensionistico che minano



la sicurezza sul futuro dei lavoratori - rappresentano



già la principale garanzia di sostenibilità finanziaria



del sistema;



- eliminare l’inaccettabile “gradino” e la riduzione del numero delle finestre che innalzano bruscamente e in modo del tutto iniquo l’età pensionabile, come prevede per il 2008 la legge approvata dalla maggioranza di centrodestra;


- affrontare il fenomeno dell'evasione contributiva con



opportuni strumenti di controllo e accertamento, compreso


un aumento di organico degli ispettori del lavoro del


Ministero e degli enti, dai quali verrebbe anche un consistente


aiuto per la lotta al sommerso;


- per compensare la tendenza al ribasso dei trattamenti


pensionistici, intervenire sull’adeguamento delle pensioni


al costo della vita e approntare misure efficaci che


accompagnino verso un graduale e volontario innalzamento


dell'età media di pensionamento.


Con la tendenza all’aumento della vita media e all'interno


di una modifica complessiva del rapporto tra tempo di vita e


tempo di lavoro, l’allungamento graduale della carriera


lavorativa, tenendo conto del diverso grado di usura provocato


dal lavoro, dovrebbe diventare un fatto fisiologico.


Il processo va incentivato in modo efficace, con misure


incisive, che non mettano a rischio l’adeguatezza della


pensione. In particolare, occorre fare leva su meccanismi


di contribuzione figurativa, a cui abbinare incentivi per


le imprese che mantengano nel posto di lavoro le persone


sopra i cinquant’anni.


Noi crediamo che gli incentivi contributivi debbano essere


accompagnati da “politiche per l’invecchiamento attivo” del


tipo sperimentato in altri paesi europei, che mirino a creare


ambienti più adatti al lavoro delle persone in età matura,


avvalendosi di schemi misti basati su part time integrato


con una pensione parziale e di incentivi per riduzioni


d’orario finalizzate all'apprendimento e all'aggiornamento


permanente delle qualifiche professionali.


In funzione di un rafforzamento della pensioni più basse, crediamo che debba essere riconsiderato il sistema di indicizzazione delle pensioni. Tale revisione, per rispettare l’equilibrio finanziario del sistema, deve essere indirizzata verso le fasce inferiori dei trattamenti pensionistici a partire dai minimi e dalle soglie più elevate di età. In questo ambito va anche previsto l’aumento degli assegni sociali e dei trattamenti di invalidità civile più bassi.(…) (pagg. 168 e 169).


(…) In generale, nel valutare gli interventi in favore dell’adeguatezza delle pensioni, non va comunque trascurato il fatto che le misure di carattere ridistribuivo, nella misura in cui fanno leva su risorse “esterne” al sistema previdenziale, tendono a innalzare il debito pubblico. Sarà quindi necessario considerare attentamente le modalità di copertura finanziaria delle misure stesse per non aggravare l’evoluzione del debito pubblico in rapporto al Pil. In questo ambito si darà vita la confronto con le parti sociali al fine di fare la verifica sul funzionamento della riforma Dini, così come era previsto che avvenisse nel 2005, verifica disattesa dal governo Berlusconi.(pag 170).


martedì 10 luglio 2007

In ogni spazio, in ogni luogo


I sogni, si sa, finiscono inevitabilmente all’alba, ma c’è un attimo di sospensione del tempo in cui, stropicciando gli occhi cisposi, si vogliono allontanare gli ultimi frammenti degli incubi che hanno popolato il sonno, ovvero conservare ancora per qualche istante le immagini liete ormai in dissolvenza. Quando la luce del giorno e della consapevolezza si è insediata nella camera, i pensieri volano già altrove e il sapore agrodolce della notte accompagna i primi gesti del mattino.


Talvolta, poi, accade che durante la giornata un accenno, uno spunto, richiamino le sequenze oniriche e si sviluppi, nello stesso tempo, l’improbabile tentativo di ricostruire storie e vicende, ormai prive di ogni consistenza. Mi capita, più che altro, di rievocare le atmosfere, le palpitazioni, ma non sono mai sicuro se ciò faccia parte del sogno oppure che lo stesso sogno interpreti me stesso. È frequente ricordare le situazioni più ripetute, vale a dire correre da solo senza apparenti motivi, in una gara, inseguire o essere inseguito. I dettagli ovviamente sono assenti.


Tuttavia c’è un sogno che, più ripetutamente di altri, mantiene stranamente intatte le emozioni procurate la prima volta. Mi trovo all’interno del bar della piazza, seduto tra arredamento e attrezzi che appaiono senza dubbio moderni. Sconosciute invece le persone attorno. Ma è chiara la situazione che scorgo attraverso la porta d’ingresso spalancata: fuori ci sono gli anni ’50. Lo denunciano le rade automobili che transitano lungo la strada, i passanti che indossano lunghi cappotti (ma non sarà freddo con quella porta aperta?) e la facciata di un edificio ancora inalterata. Non entrano avventori nel bar, durante la mia permanenza e nessuno nota la palese incongruenza. Io mi allungo sulla sedia, ma non esco (forse sono impossibilitato a farlo), eppure vorrei tanto sapere e capire.


E’ singolare come questo sogno, che ha poi la durata di un lampo, continui a esercitare fascino a distanza di tempo, producendo ogni volta i medesimi interrogativi e suscitando l’impossibile curiosità. Io credo di sapere perché accade questo: in un improbabile ritorno al passato mi piacerebbe vivere in quegli anni. Di più. Esserci, ma invisibile e con le conoscenze di adesso. Così, almeno, ho sempre creduto fino a qualche giorno fa, quando mi sono ritrovato tra le mani un cd su cui un conoscente aveva scaricato alcune vecchie foto del paese e me ne aveva fatto omaggio. Non ero ancora riuscito a guardarlo e la curiosità ha prevalso facilmente in un’ora in cui, le persone per bene, si preparano ad andare a dormire.


Poche foto, undici e l’incipiente delusione che stava montando, perché temevo di non ritrovare la suggestione che scaturisce dalle immagini del passato di luoghi conosciuti e frequentati abitualmente. Clic dopo clic guardavo corrucciato e in modo distratto, fino a quando sono approdate nel magico splendore di un bianco e nero d’annata. Due foto d’incomparabile bellezza, una dietro l’altra.


Erano sicuramente i primi anni ’70 (lo evidenziavano alcuni particolari) e quella piazza raffigurata era proprio impressa così nei miei ricordi. Sole, molto sole, primo pomeriggio. Le serrande abbassate dei negozi, un paio di uomini per strada. Qualcuno seduto davanti al bar, il tradizionale bar dello sport. C’era un auto ferma a sinistra, all’ombra di un tendone. E c’era proprio un auto, forse sempre la stessa, al massimo due, su quel lato della strada (dove adesso è vietata la sosta) anche nella mia memoria del tempo che confrontavo. Poche macchine parcheggiate davanti agli esercizi commerciali: una Bianchina, una 850 (manca una 500 che sarebbe stato bello rivedere nel cinquantenario). Assenza di segnaletica orizzontale. La chiesa poco lontana (c’è sempre anche una chiesa nella piazza di un paese). Un senso di pace.


Ma è sulla seconda che rischiavo di celebrare la personale “notte bianca”. In primo piano la mia vecchia scuola elementare. Un furgone e un auto posteggiate a pochi passi. La strada vuota che riverberava il sole. Nessuna presenza umana sullo sfondo, né l’ombra che ne denunciasse l’arrivo. Avvolto nella bambagia del silenzio notturno ero calamitato da quella foto. Forse si trattava dell’inizio dell’estate? Oppure di un pomeriggio particolarmente radioso? E chissà se era stata scattata nello stesso giorno dell'altra che la precedeva? Divoravo l’immagine con gli occhi, cercando di catturare ogni dettaglio, assaporando le sfumature, quasi a voler irrompere in quel solare pomeriggio. Chissà dov’ero io quel giorno? Era forse una domenica? E perché non si anima, perché non riesco a venir assorbito dall’icona che ho fuso con il pensiero? Si potrà mai riuscire in ciò che ora appare arduo persino formulare? A me basterebbe appena qualche minuto da trascorrere nel paese incantato. Scaraventato su quella via, mi guarderei attorno e poi cercherei, dietro l’angolo, l’impossibile risposta a tutte le mie inquietudini.

martedì 3 luglio 2007

Niente e così sia


L’ignoranza e il nulla si sono intrecciati in un focoso amplesso generando un mostro, alimentato dall’informazione di casa nostra. Solo così si può spiegare l’irrompere baldanzoso sulla scena mediatica di Fabrizio Corona. Ne scrive in modo eccellente Michele Serra nella sua rubrica “L’amaca” su “la Repubblica”; ne commenta la prestazione a Matrix Norma Rangeri, nei seguitissimi “Vespri” su “il manifesto”. Temo che neppure una pernacchia ci salverà dalla degenerazione in atto. E sulla macchietta che è ormai l’informazione televisiva italiana ne scrive a suo modo, cioè brillantemente, Marco Travaglio su “l’Unità” di oggi. Il suo “Uliwood Party” si trova qui, come sempre.


Il mondo rutilante del bordo-piscina


Come ampiamente previsto Fabrizio Corona, il suo chignon, le sue lenti a specchio e i suoi quattrini facili sono diventati un’icona italiana. "L’Italia vuole questo", dice scendendo e salendo dalla Porsche bianca della flottiglia di Lele Mora. E firma autografi, e dispensa saluti alla piccola folla di aspiranti fichetti e fichette che vedono in lui il lider maximo del Terzo Boom: il primo fu quello della fabbrica, il secondo quello della Borsa, questo qui punta tutto sul rutilante mondo del bordo-piscina. Molto invitato da radioline e radiolone private, futuro protagonista dei palinsesti (potete giurarci), ha davanti a sé un futuro luminoso: dice di avere contratti "per un milione e mezzo di euro", e certamente sa già come investire il suo tesoretto privato (al netto delle tasse, speriamo). Una cosa, però, gli andrebbe detta più spesso, e siccome quasi nessuno gliela dice, mi prendo la briga di dirgliela io: non tutta l’Italia "vuole questo", non tutta lo invidia, non tutta si compiace delle sue gesta. Un sacco di persone considerano quel mondo, sia detto con cordiale liberalità, un mondo miserabile e ridicolo. Da ignorare e/o da compiangere. Gli basterebbe levarsi le lenti nere per almeno trenta secondi per accorgersi che l’Italia è parecchio più grande del divano di una discoteca.


Michele Serra


la Repubblica (28 Giugno 2007)


Corona e la tv, binomio perfetto


Norma Rangeri


Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere a vedere la performance di Fabrizio Corona, il simbolo della Milano da sniffo, il re del gossip, ospite di Matrix (giovedì, Canale5).

Poltrona rossa, scrivania scura, abbronzatura perfetta, gessato vistoso, capelli impomatati, orologio, anelli, braccialetti e logorrea inarrestabile, il protagonista del sottobosco televisivo, sotto inchiesta per estorsione, fa il suo show. Corona si difende accusando. «Dottor Mentana lei mi deve far parlare sennò me ne vado». Non ci sta a fare la parte del cattivo, preferisce quella della vittima. Ben pagata, tuttavia, da chi gli chiedeva di non pubblicare interviste e fotografie. A cominciare dal dirigente della Fiat, che, secondo la sua versione, lo chiamò per bloccare la vendita ai giornali e alla televisioni dell'esclusiva intervista con il transessuale che Lapo Elkan frequentava e sul cui letto stava morendo per overdose. L'affare è delicato e anche imbarazzante perché finché interviene la Fiat si capisce, ma Corona tira in ballo anche «la telefonata di un alto dirigente di Mediaset che mi telefonò per bloccare l'intervista». Tra l'altro lui quell'intervista l'aveva offerta anche a Mentana. Che conferma, specificando però che di quella telefonata lui non sa niente e che l'intervista al transessuale non l'ha voluta perché «non in sintonia con l'opinione pubblica, e perché Lapo in quei momenti era in pericolo di vita». Insomma per rispetto e delicatezza. Corona invece pensa che quella scelta fosse dettata dalla pubblicità di Fiat a Mediaset. Poi arriva il turno di Francesco Totti e del suo flirt con Flavia Vento. Il calciatore sapeva della trattativa che i dirigenti della Roma avevano con Corona per evitare la pubblicazione della storiella, che tuttavia esce ugualmente su un settimanale. Ma Corona rimedia, fa uscire, su un altro settimanale, una seconda intervista dove la ragazza smentisce tutto. E per il favore riceve 50 mila euro dal dirigente della squadra. Con fattura? Non scherziamo, di certi affarucci non va lasciata traccia. In studio c'è il ministro Antonio Di Pietro, che un po' fa la parte del magistrato un po' difende la categoria dei giudici, un po' scherza. La serata ha infatti un tono allegrotto, corrono battute sul mondo delle vallette e dei calciatori. Solo il vicedirettore de La Stampa, Massimo Gramellini, non ha voglia di ridere e stoppa il Corona-pensiero del così va il mondo e se uno è furbo ci guadagna. «Questa non è la vita», obietta Gramellini. Vero, questa spazzatura, tuttavia, è la benzina, pompata dai giornali, che entra nelle case con la tv, inquinando il senso comune. Serata con grande ascolto (37 per cento di share). Corona e la tv sono fatti uno per l'altra.


nrangeri@ilmanifesto.it  il manifesto (30 giugno 2007)