martedì 30 agosto 2005

Prima e dopo

Tanto tuonò che piovve, anche se ancora non è diluvio, ma potrebbe diventare nubifragio. E’ stato come spalancare una porta, mettere il naso fuori ed essere investiti da un colpo di vento, che fa vacillare. Si vorrebbe rientrare, ma ormai non è più possibile. Sei dentro e devi restare.

Certo non è il massimo tornare al lavoro e trovarsi assaliti da un numero, veleno sottile che si insinua tra le persone, determina ora e caratterizzerà maggiormente, in futuro, atteggiamenti e comportamenti, influenzerà notevolmente i rapporti umani, velando amicizie, interrompendo sodalizi, in un mutamento costante e financo inarrestabile.

Dalla prossima settimana l’azienda attiverà tutte le procedure per la collocazione in cassa integrazione straordinaria, a zero ore per due anni, di 80 dipendenti. Nel giro di uno, massimo due mesi, questa sarà la nuova realtà.

Va subito precisato che il periodo richiesto è il massimo consentito, ma non necessariamente si prolungherà tanto. La determinazione imprenditoriale, oltre che la speranza, è quella di riassorbire tutti i lavoratori anche prima della scadenza. Non solo. Ma anche la quota dei dipendenti è stata volutamente gonfiata, perché verosimilmente si arriverà a 50-60 che rimane, comunque, una percentuale considerevole rispetto al numero (350) di addetti, almeno nella sede principale.

Le banche, con cui verranno rinegoziati i finanziamenti correnti, senza aprire nuove linee di credito, hanno accolto favorevolmente il piano di ristrutturazione presentato dai vertici aziendali. Nei prossimi mesi verranno immessi sul mercato nuovi prodotti, mentre si è arrivati alle ultime fasi per la conclusione di un contratto di 10 milioni di dollari. La strategia commerciale muterà e verranno coinvolte Provincia e Regione per definire corsi di riqualificazione per il personale, attualmente impegnato nei reparti che verranno ristrutturati, destinato alla cassa integrazione.

Fin qui la cronaca. E’ però doveroso aggiungere, come già prefiguravo in un post di un paio di mesi fa, credo, che personalmente non sarò coinvolto in questa rivoluzione copernicana.

Mai la ditta aveva fatto ricorso ad ammortizzatori sociali, al contrario si era trovata a rilevare, in passato, un paio di aziende in fallimento. Tuttavia, l’impressione è di uno stordimento. Perché, per quanto molto annunciata da voci che si rincorrevano da mesi, trovarsi adesso immerso in una realtà estranea, doversi destreggiare tra termini conosciuti attraverso quotidiani e notiziari, che riguardavano “altri”, determina uno stato di stupefazione più che di inquietudine. Toglie serenità, scava in profondità ed erode punti di riferimento, facendo germogliare quesiti.

Chissà come sarà lavorare in un’azienda che ha fatto ricorso alla cassa integrazione? In che modo si svilupperà la convivenza? Come muteranno i rapporti  tra colleghi, intendo quelli della “lista nera” e gli esclusi? Quale sarà lo stato d’animo prevalente ogni mattina? Ma, soprattutto, potranno spuntare finalmente lo spirito di corpo aziendale, la condivisione di situazioni, la partecipazione, tutti elementi finora gravemente carenti?

Tanti interrogativi, come è ovvio che sia, hanno sopraffatto un raccontino che avevo intenzione di proporre e che, invece, ho dovuto accantonare come la stretta attualità imponeva. Così è la vita.

venerdì 26 agosto 2005

Porceddu'



Si legge, come un gustoso gossip di fine estate, la testimonianza di una cameriera che ha lavorato a Villa Certosa e rivela l’ometto in intimità. Il pezzo che segue l’ha pubblicato il 22 agosto “l’Unità”. Il titolo del quotidiano, che aveva anticipato alcuni eloquenti passaggi nell’ormai mitica “striscia rossa” di apertura, era: “E la mattina, uno sculaccione a tutte...”. Gosford Park a villa Certosa. Io, per esigenza di massima sintesi, ne ho scelto un altro che vuol essere scherzoso, fondendo una delle più rinomate specialità culinarie sarde con lo sfizio mattutino della persona. Meglio precisare, perché non si sa mai.

 


“Diario di una cameriera, a villa Certosa. L’ha pubblicato il “Giornale di Sardegna” venerdì scorso, e ne esce un curioso ritratto del premier in pantofole. Anzi, senza pantofole. Scrive il giornale, a cui finora non è giunta nessuna smentita: «La prima colazione con il ciambellone, l’ossessione dell’ordine, il benvenuto con la barzelletta raccontata in milanese stretto e un curioso rito: “Quando il dottore arrivava veniva a salutarci una per una in cucina. E per ciascuna di noi c’era uno sculaccione: nulla di sconcio o volgare, per lui era una sorta di gesto scaramantico, beneaugurante “».

Il dottore è lui, il Cavaliere, il presidente del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi. E chi parla è una signora della Gallura, il cui nome è taciuto, che ha lavorato come cameriera nella villa di Porto Rotondo per alcuni anni, a partire dal 1999. «Dai suoi ricordi - scrive il quotidiano sardo - emerge un profilo insolito, familiare del presidente del Consiglio e della moglie Veronica Lario, ritratti nell’intimità della magione in riva al mare di Punta Lada. Un Berlusconi sempre cordiale, accentratore al punto da seguire in prima persona anche lavori di poco conto nella proprietà, letteralmente adorato dai cortigiani della Certosa».

Già, perché la testimone non solo non è reticente, ma persino benevola, nonostante gli sculaccioni: «Sa farsi volere bene - dice - già dal primo momento. Quando arrivava per le vacanze, ci incontrava tutte in cucina. Prima la barzelletta in dialetto, ma la capiva solo lui e infatti nessuna di noi rideva. Poi lo sculaccione. Io arrivavo a lavorare alle otto ma lui era già in piedi da un pezzo, diceva sempre che non poteva permettersi di dormire troppo. Faceva colazione abbuffandosi con un ciambellone preparato da una pasticceria di Arzachena, poi usciva con i collaboratori a fare footing nel parco della villa». Al fisico tiene: «Passa ore nella sauna e a farsi massaggiare, ha sempre un sacco di creme e unguenti attorno. E al minimo dolorino, convoca subito Vito Frau, il dottore di fiducia».

Preciso, pignolo ma, per la signora, sono peccati veniali: proprio come i beneaguranti sculaccioni. «Una sera mi ricordo che a cena c’era Emilio Fede - prosegue la testimone - e quando il dottore è arrivato, ha iniziato a fissare con fastidio la mise en place. Secondo lui la riga della tovaglia non era perfettamente nel mezzo, ha voluto che si levasse tutto e si apparecchiasse di nuovo» E ancora: «In ogni stanza della Certosa ci sono un telefono e un paio di occhiali, una persona è incaricata di levare la polvere del cerone rimasta sulla cornetta quando lui parla: non la regge».

Idiosincrasie da ricchi. Che male c’è? Tanto più che «era sempre gentile ed educato, anche

quando intuivi il suo fastidio. Ad esempio, lo irritava il fatto che nel viale d’ingresso si depositassero le foglie cadute dagli alberi, le faceva levare subito. Gli piacciono gli oggetti in marmo, sa dove sono dislocati tutti quelli che ci sono nella villa e li sposta di persona se qualcuno non è al suo posto». Si abbuffa di ciambellone a colazione, ma a tavola è parco, più attento alla presentazione dei cibi che ai sapori: «Detesta aglio e cipolla, non ama le pietanze troppo saporite anche perché è sempre a dieta, ma adora il cioccolato e il gelato al pistacchio. Pranza sempre all’aperto, in tavoli ovali, sentivamo Apicella suonare mentre lui mangiava. Le cene erano trionfi di buffet e composizioni floreali, bada molto all’immagine».

E il vino? Lo beve nel calice personale: «Vetro di Murano e base in oro zecchino. Glielo portava Giuseppe, il cameriere di fiducia, su un vassoio, lui diceva che da quello il vino si gusta meglio»”.

 

 

 

 

 

 

mercoledì 24 agosto 2005

A tutta velocità


Foto tratta dal sito: www.fiat500mylove.it


Negli ultimi giorni, le immagini più ricorrenti nei telegiornali sono state quelle tradizionali (e francamente monocordi) del primo grande controesodo (espressione sobria), allietato – magari era proprio questa la notizia – dal maltempo. Così tutte le aperture sono state dedicate a tale fenomeno, con gli inviati (penso sempre si tratti di quelli che hanno colpe da espiare) a presidiare le sale della società Autostrade, per osservare i monitor che mostravano lunghe file di auto. Il clou nel prossimo fine settimana quando, assieme al secondo e ultimo (così è stato stabilito) controesodo, si aggiungerà la riapertura delle grandi fabbriche del Nord.


Non so se usi ancora adoperare questo termine impegnativo (certo meno riaprire le fabbriche), ma il binomio funziona, o funzionava, in ogni caso. La mestizia che sempre accompagna i filmati, accentuata dai commenti ad hoc, era resa ancora più visibile dal comunque insolito panorama, con la pioggia e il vento (e temperature in calo) che flagellavano le auto.


Primi anticipi di autunno, esordiva con neppure troppa cautela qualcuno perché, si sa, occorre sempre porsi un passo avanti a tutti. Anche al calendario. Da qui in poi a ruota libera e così ho potuto ascoltare una brillante giornalista, sempre tale anche se del tg regionale, che si faceva portavoce dei lamenti, descrivendo il ritorno a casa. Raccontava di famiglie, appena rientrate e con le valigie da svuotare, che dovevano essere subito pronte a riempire gli zaini dei figli per l’imminente inizio dell’anno scolastico. Perciò, in una domenica grigia e piovosa che aveva tenuto lontano dalle spiagge (ma non si era rientrati dalle vacanze?) era partita la corsa agli acquisti di ogni genere di materiale scolastico. Ma perché? Perché, mi chiedo, tutto sempre di corsa, come uno stupido modello di consumo impone?


Dopo aver corso per la partenza estiva, dopo aver corso, si può esser certi, per compiere il viaggio di ritorno, non si può neppure rifiatare, perché ancora una corsa, l’ennesima e quindi - tempo due mesi circa - ne scatterà un’altra, di corsa, ovviamente quella per i regali di Natale e, in mezzo, si susseguiranno l’inevitabile e virtuale dottore televisivo, quello sempre sorridente e in camice bianco con stetoscopio al collo, oppure nel taschino anteriore, che dispenserà amorevoli consigli su come fronteggiare l’influenza e quella sesquipedale* (mi perdoni la citazione l’immenso Giòanbrerafucarlo) sciocchezza, a cui i bambini vengono addomesticati fin dalla più tenera età, di Halloween, mentre ancora mi chiedo cosa si aspetti a celebrare anche da noi, anche in Italia dico, la festa del Ringraziamento, come Usa docet.


E sempre tutto in affanno, all’assalto (altra immagine molto ricorrente, specie con i grandi numeri) di qualunque cosa. Perché nulla deve sfuggire alla delirante voracità onnivora dell’epoca presente. Di corsa, già, ma dove?



 



*enorme, colossale, secondo il calciolinguaggio di Gianni Brera, un grande giornalista e scrittore sportivo, morto alcuni anni fa.


martedì 9 agosto 2005

Poeti per caso

J.Donne


Seduti in autobus, dietro di me, tre ragazzi discutono in modo insolitamente (poi spiegherò il perché di questo avverbio) colto di musica. Confrontano melodie, canzoni, “attacchi” di chitarra, si esaltano per le scoperte estemporanee di affinità che riscontrano tra le parole. Quello dei tre che sembra essere il leader, anche per la posizione centrale che occupa, raccoglie ed elabora i vari spunti, traduce all’istante pure i versi dall’inglese all’italiano. Mi sorprende non solo la familiarità con la lingua, ma anche le citazioni che vengono fatte.


Parla del testo di una canzone che è poi una poesia di John Donne. Recita a memoria. E’ un vero e proprio divertimento culturale, sebbene ancora non riesca a capire di quale gruppo si tratti e che tipo di musica li attragga così tanto.


La conversazione non pare proprio esaurirsi. Sono sorpreso anche per la durata e per l’assenza di banalità. Immagino che suonino da soli o in una band. Certo frequentano concerti.


Poi il mistero comincia a svelarsi, il genere musicale è quello che mi rifiuto di riconoscere (metallica) come tale, ma devo ammettere che attraverso le loro parole scopro aspetti inediti e impensabili. Un punto di vista che rischia di diventare perfino accattivante. E mentre rincorro i versi citati, mi accorgo che adesso il loro dialogo sta declinando verso vallate più prosaiche che confermano quell’”insolitamente” con cui avevo etichettato la loro conversazione.


Si decantano, infatti le virtù non solo musicali, di un chitarrista che pare renda al meglio se ubriaco “Ma no, che non era ubriaco” - precisa uno dei tre – “solo un po’ brillo” e qui la disquisizione diventa sottile, perché scende verso i vari... gradi che definiscono una sbronza. Perciò aver bevuto mezzo litro di vino a digiuno, scolato altri bicchieri sparsi qua e là (le prodezze del musicista) autorizza a parlare di ubriacatura. Adesso è tra loro che avviene il confronto, ossia sulla quantità di vino oppure di birra che riescono a reggere.


Ma ormai mi disinteresso di queste farneticazioni, concentrandomi invece sulla ricerca che andrò a compiere.


Per inquadrare il poeta mi aiuta Wikipedia (www.wikipedia.org).


John Donne, pron. Dùn (Londra, 1572 - 1631), fu un religioso inglese, decano della cattedrale londinese di St. Paul, ed uno fra i più grandi poeti metafisici. Scrisse sermoni e poemi di carattere religioso, traduzioni latine, epigrammi, elegie, canzoni e sonetti. Celeberrimi sono i suoi versi di "Nessun uomo è un'isola" contenuti in Meditation XVII e citati da Hemingway in Per chi suona la campana.Attento ai mutamenti della sua epoca - diviso tra la scienza di Copernico e Keplero e la filosofia di Bacone e Calvino - fu il primo a citare in un componimento (Ignatius his Conclave del 1611) Galileo Galilei.Cresciuto in una famiglia che professava il cattolicesimo, Donne studiò dal 1584 a Oxford e, successivamente, a Cambridge; viaggiò per l'Europa e nel 1595 accompagnò il conte di Essex nelle spedizioni inglesi a Cadice e alle isole Azzorre. Ritornato in patria divenne segretario del barone Ellesmere Egerton, di cui sposò clandestinamente nel 1601 la nipote Anne More; iniziò a questo punto la sua attività letteraria. Suoi primi lavori furono canzoni satiriche e sonetti, che costituiscono il corpus giovanile della sua opera e sono apprezzabili soprattutto per il loro realistico e sensuale stile.Le nozze clandestine con Anne More non giovarono alla sua reputazione, cosa questa che influenzerà notevolmente la sua successiva produzione letteraria. Contestualmente, si avvicinò all'anglicanesimo affrontando da un punto di vista differente dubbi e tematiche politico-sociali, ma anche scientifiche e filosofiche, del suo tempo.Tra mille difficoltà finanziarie, sull'orlo della disperazione (e forse anche del suicidio), sebbene fosse ormai diventato un predicatore affermato (molti suoi lavori saranno raccolti nel 1624 nelle sue Devotions) e per due volte (1601 e 1614) membro del parlamento, prese i voti e fu ordinato decano della chiesa anglicana dal re Giacomo I d'Inghilterra.Dal 1617, anno in cui morì la moglie, la sua poesia si farà sempre più cupa, privilegiando temi funerei e pessimistiche considerazioni esistenziali.


Nessun uomo è un'isola,


completo in se stesso;


ogni uomo è un pezzo del continente,


una parte del tutto.


Se anche solo una nuvola


venisse lavata via dal mare,


l'Europa ne sarebbe diminuita,


come se le mancasse un promontorio,


come se venisse a mancare


una dimora di amici tuoi,


o la tua stessa casa.


La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce,


perché io sono parte dell'umanità.


E dunque non chiedere mai


per chi suona la campana:


suona per te


Ma, pur apprezzando, non sono i versi che cerco. Trovo anche una struggente poesia.


Canzone



Mio dolcissimo amore, non fuggo

per stanchezza di te,

né perchè spero che il mondo possa offrirmi

un amore più degno;

ma poiché è destino

che io debba infine morire, è molto meglio

che mi prenda per scherzo l'abitudine

di morire così di qualche morte finta.



Ieri sera anche il sole era fuggito,

eppure oggi è qui.

Lui non ha desideri e non ha sensi,

nemmeno un corso breve come il mio:

dunque non ti preoccupare per me,

credi che tutti i miei viaggi

saranno assai più rapidi, perchè io

ho più ali e più sproni di lui.



Ma come è fragile il potere dell'uomo,

che se anche ha buona fortuna

non vi si può aggiungere un'ora di più,

nè richiamare un'ora che ha perduta!

Ma venga pure la cattiva sorte:

le aggiungeremo la nostra forza,

le insegneremo l'arte e la portata,

così che su noi tragga vantaggio.



Quando sospiri non sospiri vento,

ma esali la mia anima;

quando piangi, scortesemente cortese,

corrompi il sangue della mia vita.

Non è possibile che tu mi ami

come dici di amarmi se disperdi

con la tua la mia vita,

tu che di me sei la parte migliore.



Il tuo cuore da oracolo

non mi preannunci alcun male: il destino

potrebbe prendere anche la tua parte,

realizzando così le tue paure;

pensa piuttosto che noi

ci siamo solo voltati le spalle nel sonno;

coloro che a vicenda si tengono vivi

non sono mai separati.


Ma non era di amore che parlava la canzone e i versi non li rammento nell’esatto ordine. Continuo a cercare su Google, procedo per tentativi e infine, sì, ecco la poesia che stava declamando il “metallaro”, cupa, triste, come raccontato nella biografia.





Morte tu morirai


Morte, non essere orgogliosa, sebbene alcuni ti abbiano chiamato


Potente e terribile, perché tu non lo sei;


Poiché coloro che tu pensi di sconfiggere,


Non muoiono, povera morte, né tu mi puoi uccidere


Dal riposo e dal sonno che altro non sono che tue immagini,


Molto piacere si trae; e dunque da te un piacere molto maggiore si deve trarre.


E più in fretta i nostri uomini migliori se ne vanno con te,


Riposo per le ossa e liberazione dell'anima.


Ti sei schiava del destino, del caso, dei re e di uomini disperati


E convivi con il veleno, la guerra e la malattia.


E il papavero, o gli incantesimi ci fanno dormire altrettanto


E meglio del tuo fendente; perché dunque ti gonfi?


Dopo un breve sonno, ci svegliamo per l'eternità,


E la morte non esisterà più; Morte tu morirai


 


Mi accorgo che in questo modo sono riuscito ad infilare addirittura tre poesie che è un fatto insolito da queste parti, ma nello stesso tempo ho aggiunto qualche altro elemento di conoscenza, utile stimolo per approfondire.




Anche se sono rigorosamente astemio, che non c’entrerà con John Donne, ma con i tre tipo “colti per caso”, sì.



 


 




venerdì 5 agosto 2005

Vite spezzate






I funerali in piazza Maggiore. Foto tratta dal sito: www.stragi.it











Concludo, con questo post, la trilogia che ho voluto dedicare alla commemorazione della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Lo faccio proponendo un lungo racconto di Daniele Biacchessi, uno scrittore che ha narrato in un libro ciò che accadde quel giorno. Qui l’elenco delle vittime, proposto due giorni fa, acquista fisionomie meno virtuali. Alcune di esse riprendono a muoversi, ad agire, ad osservare. Conosciamo di loro ciò che erano, per qualcuno anche le speranze di quello che sarebbero potuti diventare.

In queste giornate, vissute all’insegna della memoria, ho potuto leggere testimonianze sconcertanti. Un fraterno blogger che riferisce, in suo post, di un viaggio, quel viaggio in treno mancato. Poteva esserci e, invece per fortuna, è qui e ha potuto farcelo sapere. Una squisita umanità che è in condizione di operare. Non l’ha scelto lui, è stato fortunato.

Un’apprezzata blogger che lascia il suo commento scarno ed essenziale: anche lei doveva esserci, poi ha cambiato idea all’ultimo momento e ha scelto l’auto e non il treno. La vita contro la morte.

Un’altra ancora, la cui sensibilità silenziosamente diffonde i suoi benefici, ha visto invece come passeggera com’era quella stazione dopo la deflagrazione.

E’ come se un minuscolo frammento di umanità fosse qui e altrove, a raccontare, riferire, far sapere, condividendo il ricordo e la mestizia.

Ho lasciato molto spazio anche alle immagini che reputo fondamentali per non dimenticare.

Per quanto mi riguarda, quella mattina la notizia improvvisa mi sorprese indaffarato nei preparativi per la partenza, in vacanza con amici, fissata per l’indomani. Avrei voluto credere alla versione della caldaia esplosa che i tg ripetevano, come se potesse essere più rassicurante, in mezzo a quel carnaio di vite spezzate, sapere che no, non era stata una bomba come si sospettava ragionevolmente, perché la rimozione era costante.

Eppure, nonostante la devastazione nell’animo, il giorno dopo si partì ugualmente. Ho sempre vissuto tutto ciò come un senso di colpa, compreso l’ascolto alla radio dei funerali (la località del nostro soggiorno era priva di televisore) questo forzato distacco. Non vedere e dunque ignorare. Per questo motivo, forse, la data del 2 agosto produce ogni anno un effetto così lancinante.

 

10,25: CRONACA DI UNA STRAGE

2 agosto 1980. La stazione di Bologna

di Daniele Biacchessi

 

SGUARDI

Scorre il tempo, lungo i binari della memoria, della giovinezza perduta, della

vecchiaia rattrapita. Il suono di un vecchio boato spezza i vetri dell'orologio,

ferma le lancette, le inchioda ad un presente che molti hanno voluto. Rimangono

i secondi dei minuti e delle ore che abbiamo passato a giocare. Felici. Quando

eravamo corpo, spazio e tempo.

 

L'orologio segna le 10,15. E' il 2 agosto 1980, stazione di Bologna. Sole e

caldo. C'è un ragazzo, ventun'anni da poco compiuti. Con una valigia aspetta

sotto la pensilina del primo binario. Prende un fazzoletto e si asciuga il

sudore, sotto il berretto guarda e osserva gli sguardi sconosciuti di una

stazione d'estate. Roberto Procelli è in servizio di leva, 121 Battaglione di

artiglieria a Bologna. Viene da San Leo di Anghieri, quattro case a quaranta

chilometri da Arezzo. Era partito per militare pochi mesi prima. Non avrebbe mai

voluto lasciare il paese, Rinaldo e Ilda, i suoi genitori e quella ragazzina che

gli faceva il filo da quando era poco più di un bimbo. Roberto si mette proprio

sotto l'orologio, dove c'è la sala d'aspetto di seconda classe. Attraverso il

vetro scorge i volti di quella gente, ascolta perfino i loro discorsi. C'è la

famiglia con i ragazzini che non stanno mai fermi,lo studente che disegna il

volto di una donna mentre allatta il figlio, una coppia in viaggio di nozze, i

boys scout che mangiano i panini, un giovane con lo zaino sulle spalle, militari

in libera uscita che vanno al mare, la nonna con il nipote e la loro valigia,

gente che dorme, gente che legge. Immagini di un paese che va in vacanza, con il

sorriso sul volto e il biglietto del treno in tasca. Accanto a Roberto c'è un

ragazzo di ventiquattro anni, spagnolo. Ferdinando Gomez Martinez viene da

Madrid. Sogna da anni un viaggio in Italia. I suoi amici gli hanno raccontato

delle avventure, di mare e sole, di belle ragazze, di monumenti, di storia. Si

pettina davanti a uno specchio. Aspetta l'annuncio del suo treno e ascolta quel

brusio di gente che corre in fretta. Sembra una melodia, un suono amico. C'é chi

attende la coincidenza mentre in biglietteria le persone formano una lunga coda.

"A che ora parte il treno per Basilea?" - chiede un signore - "Se si sbriga è

sul binario 1. Era in ritardo ma ora il capostazione ha dato il via libera".

Ferdinando entra nella sala d'aspetto e scorge, accanto al muro del self

service, tre ragazzi che parlano spagnolo. Pablo, Paco e Josè si erano appena

incontrati in Piazza Maggiore, quattro chiacchiere, un giro per la città e poi

in stazione per continuare il viaggio. Romeo Ruozi, 54 anni, vaga per la

stazione. Cerca Valeria, sua figlia. Poche ore prima Romeo le aveva detto "Vengo

a prenderti come al solito...ti aspetto al solito posto, al binario del treno

che viene da Verona, quello delle 11,56". Romeo é previdente, anticipa ogni

appuntamento. Lo fa per abitudine, da sempre.

Nel bar ci sono centinaia di persone, la porta si apre e si chiude in

continuazione. "I panini sono finiti - dice il cameriere alla cassiera - chiama

il proprietario, c'é troppa gente". L'altoparlante annuncia il diretto per

Firenze. Il treno è in partenza. Un ragazzo impreca a voce alta, sbuffa, allarga

le mani. E' convinto di trovare l'amico sul treno. Così si infila in un

sottopassaggio, corre e prende quel treno mentre il controllore fischia forte.

L'amico non lo vede: è a pochi passi da lui ma una comitiva di turisti tedeschi

li divide. Fuori, nel piazzale, c'è il parcheggio dei taxi. Fausto "Togliatti"

Venturi e Romeo Rota stanno appoggiati alla macchina, un 132 diesel. Aspettano i

clienti. Sono amici, di quelli veri. Parlano di calcio, degli ultimi acquisti

del Bologna, della settimana appena trascorsa a Chianciano, la cura e il riposo.

Togliatti guarda le belle ragazze che vengono dal nord: é scapolo, vive con la

madre, pensa a sposarsi ma non disdegna le mangiate con gli amici, il vino

frizzante bevuto là su in collina. Ma il fresco quel giorno é lontano e la fila

dei taxi é lunga. Con Togliatti e Rota ci sono anche i colleghi, seduti nelle

macchine senza aria condizionata e neppure un ventilatore. "Boia che caldo -

dice Fausto - Guarda la gente che parte e noi qui a lavorare". Con Fausto e

Romeo c'è Francesco Betti, i taxisti lo chiamano "Verbale". Francesco parcheggia

il taxi in terza fila, accanto alle catenelle che delimitano lo spazio delle

auto pubbliche. Si gira e guarda verso la sala d'aspetto di seconda classe.

Euridia Bergianti, 49 anni, sta dietro al bancone del self service."Mi fa un

cappuccino? -chiede un signore con il cappello - Caldo, mi raccomando... ma non

bollente". Euridia prende la tazza grande. Fa scendere il caffè, lentamente. Poi

lo zucchero in bustina, il cucchiaio, il vassoio, e il cappuccino caldo é

servito. Gesti quotidiani, meccanici, compiuti senza noia. Katia Bertasi è una

collega di Euridia. Impiegata alla contabilità del ristorante, è al telefono con

un fornitore. "L'ultima fattura del latte non andava bene... Mi raccomando, lo

dica al suo principale". Mentre Katia é al telefono, Nilla Natali entra negli

uffici dell'amministrazione. E' giorno di stipendi alla Cigar. "Katia....non ti

preoccupare....sono venuta a darti una mano per fare le buste paga.....tanto

oggi vado in ferie". Franca Dall'Olio é lì accanto a Katia e Nilla. Risponde al

telefono. "Uffa c'è un altro fornitore....ma non ci lasciano in pace neanche il

2 agosto". Franca prende la cornetta del telefono. "E' arrivata la merce?

.....venga su lei.... mi ha fatto venire in mente che devo fare un'altra

cosa.....poi vengo".

Nella sala d'aspetto i bambini sono sempre più impazienti. Giocano, scappano, si

nascondono poi si riprendono. "Dai.....non mi prendi....non sai correre". E il

padre non riesce a calmarli. C'è Sonia Burri, 7 anni. Ci sono i fratelli danesi

Eckhardt e Kai Mader. Corrono....corrono....senza sosta. "E' in arrivo sul

binario 3 il locale da Firenze". Sulla panchina del primo binario Francesco

Diomede Fresa, quattordici anni, legge un fumetto. Con la madre Enrica Frigerio

e il padre Vito aspetta di partire. Le valige sono pesanti, stracolme di

vestiti, costumi da bagno, magliette, scarpette da pallone. Vito è direttore

dell'Istituto di Patologia generale della Facoltà di Medicina di Bari. Poco più

in là c'è Iwao Sekiguchi, giapponese, vent'anni. E' in Italia da un mese.

Attende il treno per Venezia. Nella sala d'aspetto di seconda classe. Maria

Fresu parla con la sua bambina Angela, 3 anni. "Non essere impaziente... non

posso comprarti il gelato di mattina... Tra dieci minuti arriva il nostro treno,

andiamo al lago". Ma Angela è disattenta. Corre, corre, corre. Va verso le due

amiche della madre. Verdiana Bivona e Silvana Ancellotti si prendono cura della

bimba e giocano. Maria Fresu è contenta, spensierata, felice. Vive a

Montespertoli, un piccolo paese vicino a Firenze. Tutti i giorni prende il

locale per Empoli, si sveglia presto, otto ore in una fabbrica di confezioni.

Quel viaggio con le amiche lo aveva progettato da mesi. "Due settimane sulle

rive del Garda ci faranno bene" - amava dire alle colleghe.

Angelina e Domenica Marino sono appena scese dal treno che viene dalla Sicilia.

Vivono ad Altofonte, un paesone di case bianche e grige, adagiato lungo le

rocciose pendici di un monte arido, a dodici chilometri da Palermo. Altofonte,

diecimila abitanti, tanti anziani. I giovani emigrano verso il Nord. Angelina e

Domenica vanno nella sala d'aspetto di seconda classe e scorgono tra i tanti

volti quello che conoscono bene. Luca Marino vive a Ravenna da cinque anni.

Professione: manovale. Le aveva chiamate due mesi fa. "Ci vediamo il 2 agosto,

alla stazione, viene anche Antonella........ve la farò conoscere....é una

ragazza tanto carina". Angelina, Domenica, Luca e Antonella si incontrano alle

10,22, in stazione. I baci, l'emozione di chi viene da lontano, le storie di un

paese che si incontra.

Nazzareno Basso infila una mano in tasca e prende una ventina di gettoni. Si

appoggia a quel telefono che sta vicino al ristorante. Sono le 10,23. Compone il

prefisso di Venezia. Lentamente. Sa che nella sua piccola casa a Celtana di

Santa Maria lo aspetta la moglie Ines e le quattro bambine. Le aveva chiamate

quasi un'ora prima. "Non mi aspettate....mangiate pure......sono in ritardo ma

tra poco arrivo". Nazzareno lavora a Milazzo, Sicilia, profondo Sud. E dal

Nord-Est, zona non ancora ricca, si è spostato per cercare fortuna. Si ritrova

lì, in quella stazione d'agosto per un banale ritardo di un treno. Uno stupido

ritardo. I bambini corrono più forte. Nel ristorante vengono serviti decine di

caffè. 10,24. Roberto Procelli sta uscendo dalla stazione, verso piazzale

Medaglie d'Oro. E' a due passi dalla cabina telefonica. Sul treno fermo al

binario 1,le persone si sporgono dai finestrini del treno per Basilea. Qualcuno

fuma una sigaretta, altri parlano negli scompartimenti. Si sente un boato.

L'orologio segna le 10,25.

Lo scoppio.... Il rumore assordante.....Il vuoto d'aria.......tutto schizza e si

sbriciola.....le traversine dei binari si divelgono .....la sala d'aspetto di

seconda classe si sgretola.........Il ristorante va in pezzi......le grida di

aiuto........altre piccole esplosioni..........La morte.......Il

silenzio.......e poi le grida degli innocenti.

Alla stazione di Bologna c'è l'angoscia. La prima ambulanza arriva alle 10,27.

Poi ne giungono altre, e altre ancora. Sirene che nascondono la rabbia di una

città colpita al cuore. Da lontano si intravedono uomini in divisa rossa, vigili

del fuoco e volontari, soldati, carabinieri, poliziotti, gente comune. Sotto una

parte rimasta intatta della stazione, l'orologio si è fermato. Arrivano i mezzi

di soccorso, le scale, le pale. Ogni cosa serve a ritrovare i superstiti.

Qualche anno dopo scriverà Torquato Secci: "Ed è stato, da allora, un accorrere

incessante di medici, infermieri, carabinieri, vigili del fuoco, in un frastuono

di sirene, in un vortice di gente impazzita che usciva terrorizzata

dall'edificio colpito a morte, che cercava di entrarvi alla ricerca di un

figlio, di una madre, di un parente, di un amico. Ragazzi stranieri, che

attendevano una coincidenza per il mare, si chiamavano per nome e non si

ritrovavano più. Dalle macerie estraevano gli zaini insanguinati e le salme di

compagni di viaggio, degli amici che erano venuti a concludere a Bologna, in una

calda mattinata d'agosto, la loro breve esistenza....."

Si sente il rumore assordante delle ruspe che cercano tra le macerie. Scavano.

Tutti sperano di udire da qualche anfratto, tra le traversine, un lamento. La

zona è bloccata, circondata da un cordone di militari. E lì intorno detriti di

ogni tipo, vetri frantumati, persone smarrite. Molti corpi sono ancora nel

sottopassaggio che porta al terzo binario, sotto i mattoni infranti della sala

d'aspetto, del ristorante, della biglietteria. Due carrozze del treno

straordinario 13534 Ancona-Basilea sono sventrate. Doveva partire due minuti

dopo ma l'esplosione lo ha travolto. Nell'atrio delle partenze, militari e

vigili del fuoco accatastano tutto: scarpe, zoccoli, borse, bagagli abbandonati,

sacchetti di plastica con un po' di frutta, un orologio. L'Amministrazione

Comunale di Bologna organizza un ufficio di assistenza. Si recano in stazione

gli assessori comunali: provvedono al coordinamento delle iniziative di

soccorso. Arrivano 350 soldati della Brigata Trieste e del Genio Ferrovieri. Il

medico in servizio all'ambulatorio della stazione ha voglia di parlare. "Poco

dopo sembrava un mattatoio. Ho sentito un boato fortissimo, mi sono voltato di

scatto e ho visto le sale d'aspetto e del ristorante saltare in aria".

Un signore siciliano si trovava sul treno per Basilea. Stava con la moglie, su

quella carrozza. "Ero al finestrino per fumare una sigaretta quando ho visto

un'enorme fiammata uscire dal finestrino del ristorante". Un cronista del Resto

del Carlino é tra i primi a giungere alla stazione. "E' stata una cosa tremenda.

Ho visto un'enorme fiammata dai colori giallo, arancione, nero e subito dopo si

è formato una specie di fungo". Il giornalista bolognese Lamberto Sapori, alle

10,25 era sul piazzale. "E' stato terribile. Una specie di fungo di macerie e

fumo ha spaccato in due la sala d'aspetto della seconda classe, le schegge sono

volate via, fino all'ottavo piano dell'albergo di fronte". Marina Gamberini, 20

anni, viene estratta dalle macerie e trasportata all'ospedale. "Ho sentito che

tutto si capovolgeva e mi sono trovata la sedia addosso, non potevo muovermi e

la gente mi passava sopra. Era come se fossi in un incubo. Poi mi sono

addormentata".

Il racconto degli scampati é lucido. Ugo Natale, padre di Roberto, 13 anni.

Roberto era appena stato dimesso dall'ospedale. "Eravamo nella sala d'aspetto di

prima classe, proprio dove sono cadute più macerie, mi stavo allontanando quando

ho sentito un boato. Sono stato il primo a correre dentro quel polverone in cui

non si vedeva niente e ho scavato come un pazzo fino a quando ho trovato

Roberto. Era incastrato di fianco, sulla sedia della sala d'aspetto. Mi ci è

voluta un'ora per liberarlo". Viene ritrovata una bambolina rossa. La teneva in

braccio Sonia Burri che aspettava con i genitori il treno per Roma. Sonia è una

piccola vittima della strage. Ma non è la sola. Altri cinque ragazzini

attendevano il treno sul primo binario che li avrebbe portati a Rimini. Di loro

il capostazione vicario Azelio Scarpellini ricorda. "Li avevo visti, erano

irrequieti, quando è arrivato il treno per Basilea pensavano fosse il loro.

Volevano salire a tutti i costi ma il ferroviere ha detto di aspettare e loro si

sono seduti. E subito dopo sono stati spazzati via dall'esplosione. Ho chinato

la testa sulla scrivania, ho pianto come un bimbo, non riuscivo ad alzarmi".

Arriva una donna, era in vacanza in Versilia. "Mio marito, dov'è mio marito?".

Un militare le si fa accanto e le impedisce di avvicinarsi. C'è anche l'angoscia

di un giovane padre che attende la figlia. E' appoggiato ad una colonna . "Non

so, non mi chieda, cerco mia figlia, Patrizia. Doveva tornare con me ieri sera,

ma ha voluto fermarsi a Parma per andare a ballare in discoteca. Mi ha detto di

venirla a prendere qui, alle 10,30, sul piazzale della stazione. Non la trovo.

Dov'è?". Patrizia Messineo aveva 18 anni, una vita davanti, speranze, voglia di

vivere, sogni.

Vicino ad una trave d'acciaio crollata, c'è un uomo con gli occhi rossi. Ha i

capelli brizzolati. Luigi Balestri, 41 anni, è impiegato all'ufficio sanitario

delle Ferrovie dello Stato. "Mi sono salvato per miracolo, la morte mi ha

sfiorato. Ero in servizio, sono andato con un collega dall'altra parte del

binario a prendere un caffè. E' stato un attimo. Dopo l'esplosione ho sentito

l'odore della polvere da sparo. E' stato un attentato, sono sicuro. Ho fatto il

carrista, non sono uno sprovveduto. La caldaia non c'entra, è intatta".

Stefano Ragazzi è un operatore della rete televisiva bolognese Ntv. E' il primo

cameramen che arriva in stazione. Le sue sono immagini grezze. Senza montaggio

rendono l'idea di ciò che é avvenuto. "Appena sono giunto in stazione lo

scenario era apocalittico, sembrava la guerra. C'erano travi, sassi, macerie

dappertutto. Presi la telecamera e iniziai a girare. Dopo qualche minuto non ce

l'ho fatta. Quello che vedevo nell'occhio elettronico era troppo forte. Così ho

prestato i primi soccorsi con i volontari che intanto affollavano la piazza".

Immagini grezze, di chi coglie ogni sguardo, ogni emozione, ogni dolore. E' come

se gli occhi di Stefano, che allora era un ragazzo al suo primo impiego, fossero

una cosa sola con la telecamera. Immagini girate con l'anima più che per dovere

professionale. Il risultato è un documento importante, che fa parte della storia

del giornalismo televisivo. Immagini che hanno fatto il giro del mondo. Qualcuno

corre mentre i passeggeri che escono dalla stazione guardano i corpi straziati

rimasti a terra. I volontari improvvisano barelle con quello che trovano: assi

di legno, plexiglass, coperte, lenzuola bianche. Un taxista mostra a Stefano

dove sono caduti Betti e Venturi. sono là, senza vita, schiacciati dai massi

della sala d'aspetto, accanto alle loro auto gialle, schizzati a pochi metri uno

dall'altro. Un signore con la camicia inzuppata di sangue è lì che piange e

mormora frasi incomprensibili. Un'infermiera di un'ambulanza si mette le mani

tra i capelli. Si intravede la sagoma di una donna bionda: un medico le tasta il

polso, é morta. Una signora chiede aiuto mentre rimane seduta, come in stato di

shock, sopra un carrello porta bagagli. Un vigile del fuoco sorregge il capo di

un ragazzo in fin di vita. E ancora rumori di ambulanze e grida. Si spostano i

taxi a mano: sono schiacciati dalle travi. Enormi blocchi di cemento nascondono

due cadaveri irriconoscibili. Tra i soccorritori c'è chi indossa una maglietta,

chi sta in camicia e cravatta, chi in canottiera. Ognuno ripreso nello sforzo di

offrire un conforto, un aiuto.

Il Resto del Carlino esce con un edizione straordinaria. Ci sono già le

fotografie della strage. "Gli orologi della stazione sono fermi alle 10,25. I

morti accertati sono più di trenta; i feriti più di cento. Ma dal cumulo di

macerie impastate di carne e di sangue continuano ad emergere cadaveri

maciullati di uomini, donne, ragazzi, bambini, vecchi che stavano partendo per

le vacanze o attendevano la coincidenza nelle sale d'aspetto attigue al

ristorante......Nella voragine aperta dall'esplosione é crollata un'ala intera

della stazione ferroviaria....Solo una bomba d'aereo o un quintale di tritolo

avrebbe potuto seminare tanta rovina e spargere tanto sangue. Urla, invocazioni

lamenti si sono subito levati come dopo un bombardamento....".

Da fuori puoi scorgere quello che rimane della stazione. E sul piazzale c'è

padre Mario, un domenicano che recita il rosario con la veste bianca, macchiata

di sangue. Quando dalle macerie giunge una barella lui fa il segno della croce.

Don Mario era solo nel convento: gli altri sono tutti in ferie. Appena appresa

la notizia, si é precipitato in stazione e da mezzogiorno benedice i morti. Don

Mario si chiede: "Chissà se erano pronti a morire ?". I corpi martoriati vengono

allineati sopra un autobus. E' il 4030 della linea 37. Di solito è diretto verso

la Chiesa di San Francesco, dall'altra parte di Bologna. Ora il suo percorso è

diverso. Procede lento, verso l'obitorio e le vittime vengono deposte l'una

accanto all'altra. Quelle che si possono riconoscere. Perchè una bomba messa in

una valigia in una sala d'aspetto, in una stazione d'agosto, lacera i corpi,

distrugge il cemento, provoca un vuoto d'aria per centinaia di metri, porta i

corpi e quel che resta delle persone via, lontano. Perchè le bombe non sono

intelligenti, non pensano, non hanno parole. Sono congegni perfetti, costruiti

da uomini per uccidere altri uomini, per intimorire, creare paura, terrore. Le

bombe non parlano.

Hans Jurt, 60 anni, sindaco di Aesch, un cantone di Basilea, è rimasto ferito.

"Ringrazio i medici, gli infermieri. Dopo dieci minuti dallo scoppio erano già

lì. Sul treno colpito dalle schegge c'erano anche mia moglie e mia figlia,

tornavamo dalle ferie. Siamo salvi per miracolo. Ho visto una donna cadere a

terra, uccisa da un cornicione che si è staccato dalla pensilina come se fosse

cartapesta". La porta dell'ufficio del capostazione é sempre aperta. Sembra uno

di quegli uffici postali il giorno del pagamento della pensione. "C'è un elenco

dei morti, dei feriti?"I funzionari lavorano in un mare di carta, non hanno il

tempo di prestare ascolto a nessuno. Quell'ufficio diventa la prima centrale

operativa, dopo la strage. Tra una telefonata e l'altra i ferrovieri invitano a

recarsi negli ospedali. I feriti sono quasi duecento, ricoverati in tutti gli

ospedali della città: le ambulanze vanno al Maggiore, Sant'Orsola, il Bellaria,

Rizzoli,il centro traumatologico e i posti di soccorso di Imola, Modena e

Bentivoglio. Al Maggiore ci sono le liste generali, di tutti i ricoverati.

All'ufficio informazioni la coda è lunga, i feriti sono 44, una decina in gravi

condizioni. Il vice direttore sanitario Lino Nardossi si toglie il camice.

Almeno per un minuto. "I medici stanno facendo tutto il possibile ma non è vero

che non c'è personale". Al secondo piano hanno ricoverato i feriti meno gravi.

Silvia Moltusti era in stazione. Doveva portare il marito, dimesso dall'ospedale

a Faenza. "Siamo entrati in un chiosco per prendere una bibita, quando abbiamo

sentito un boato. Per alcuni minuti non abbiamo visto più nulla. Polvere e odore

di bruciato, quello caratteristico dei petardi. Sono trascorsi attimi

interminabili, quando siamo usciti, i miei occhi hanno visto scene che non

credevo vere. Gente che gridava, invocava aiuto. Altri che imbrattati di sangue,

non avevano la forza di rialzarsi". Al terzo piano c'è Francesco Pellissola di

Modena. Il suo è il racconto di chi ha sfiorato la morte. "Dovevo tornare a casa

dopo il lavoro, perciò ero alla stazione. All'improvviso mi sono sentito

travolto da una trave, sono caduto, ma ho fatto a tempo a rialzarmi ed a

fuggire. E' stata una bomba, ho infatti sentito un forte odore di zolfo, come se

avessero acceso improvvisamente migliaia di fiammiferi. Mentre correvo, la gente

gridava: un attentato, un attentato".

Lì vicino Domenico Tina ha un trauma cranico, è in stato di choc. Lui vive ad

Ansola, un paesone alle porte di Bologna. "Ero proprio sul primo binario quando

sono stato scaraventato a terra. Si è alzato un gran polverone e, prima di

perdere i sensi, ho sentito un bimbo implorare: Mamma, dove sei?".Giorgio Gallon

ha perso tutto alla stazione di Bologna. Non sa che la moglie Natalia e la

piccola Manuela sono in fin di vita. Dovevano accompagnare la bimba in colonia.

"La roba volava da tutte le parti. C'era un gran fumo e non si vedeva niente.

Sentivo solo i colpi che mi arrivavano sulla schiena, quasi al buio. Avevo mia

moglie da una parte e dall'altra la ragazzina che doveva andare al mare. Quando

mi sono svegliato ero in questo letto, da solo". Giorgio piange forte e continua

a ripetere la stessa frase. "Dov'è Natalia? Dov'è la mia piccola Manuela?". Al

piano terra i parenti si ammassano davanti l'ufficio informazioni. Chiedono e

urlano. E dietro al banco si muove una ragazza, un'infermiera minuta, mentre i

telefoni squillano in continuazione.

Una donna si mette in coda. Passano i minuti ed è arrivato il suo turno. Cerca

suo figlio in quell'elenco. Spera che non ci sia, ne è convinta. Invece la

ragazza la invita ad aspettare. Arrivano altre persone e dietro a loro altre

ancora. "Se c'è una brutta notizia è meglio darla subito". La ragazza la guarda,

tenta di dire qualcosa ma un signore la distrae per un attimo. Sono pochi minuti

e in quella frazione di tempo rivede il volto di quel ragazzo, che lei ha

voluto. Del suo unico figlio. Si mette da parte ma ormai ha capito. Una mano le

prende la spalla mentre sta seduta e fissa il vuoto. "E' una parente?".Alza lo

sguardo e scorge un medico in camice verde. E' un chirurgo. "Non ce l'ha fatta.

Lo hanno raccolto dentro la sala d'aspetto di seconda classe che era ancora

vivo. Poi la corsa con l'ambulanza al Maggiore ma aveva troppe complicazioni. E'

morto mentre stava iniziando l'operazione". Lo sta ad ascoltare, non perde una

sillaba. Poi si mette le mani nel volto e piange, in silenzio. Rimane lì qualche

minuto, mentre la ressa all'ufficio informazioni del Maggiore diventa enorme.

Fugge via, prende un taxi verso la stazione e se ne va che é già sera.

 


 

 

 

 

giovedì 4 agosto 2005

Fermata d'autobus

 




La mattina di Sabato 2 agosto 1980 qualcuno lasciò una valigetta stipata di esplosivo nella sala d’attesa di seconda classe della stazione di Bologna. Di quella strage che ha causato 85 morti e 200 feriti sono rimasti soprattutto due simboli. L’orologio fermo alle 10.25, momento dell’esplosione, e l’autobus numero 37, quello che si occupò del trasporto dei cadaveri alle camere mortuarie. Per sedici ore alla guida di quell’improvvisato carro funebre vi fu Agide Melloni, classe 1949, autista Atc.


«Per anni non ho parlato di quell’episodio – racconta Melloni – avevo visto cose terribili e non amo il protagonismo. Solo di recente ho accettato di raccontare quella giornata, l’ho fatto perché mi sono accorto che stava scomparendo la memoria di quello che era accaduto quel terribile 2 agosto. D’altra parte chi oggi ha vent’anni non era ancora nato il giorno della strage. Ora è necessario che, chi è stato testimone di quei fatti, li trasmetta alle nuove generazioni».


La mattina del 2 agosto 1980 Agide Melloni si trovava a qualche centinaio di metri dal luogo della strage ed era in procinto di entrare in servizio.


«Stavo incamminandomi con un collega verso la stazione, perché lì avrei iniziato il mio turno, quando sentimmo un botto violentissimo. Pochi minuti dopo fermammo un autobus per chiedere cosa era successo e ci venne detto che era saltata per aria la stazione. Accelerammo il passo e, una volta giunti in stazione, ci si parò davanti il terribile scenario che potete immaginare. Come tutti quelli che si trovavano nel piazzale cercammo subito di aiutare i feriti e di prestare i primi soccorsi. Un collega, Guglielmo Bonfiglioli, decise di fare un primo viaggio con un autobus, per l’appunto il 37, caricando alcuni feriti per portarli all’ospedale Maggiore».


Mentre il 37 andava e tornava dall’ospedale, la drammaticità della situazione emerse in tutta la sua proporzione: i feriti erano centinaia e le vittime alcune decine. Era una caldissima giornata d’agosto e bisognava trasportare le salme il prima possibile verso le camere mortuarie.


«Una volta tornato Bonfiglioli, decidemmo quindi di utilizzare l’autobus per trasportare i cadaveri per lasciare tutte le ambulanze disponibili per i feriti. Togliemmo i mancorrenti (le sbarre a cui ci si aggrappa per salire) dalle porte per permettere ai corpi di passare ed io mi misi alla guida. Erano circa le undici di mattina, fino al pomeriggio trasportai le salme alla camera mortuaria di via Irnerio poi, quando non ci fu più posto, ci dirigemmo verso gli obitori degli ospedali. Restai alla guida fino alle tre di notte, con me a bordo salirono a turno, vigili o poliziotti, mentre l’autobus viaggiava scortato davanti e dietro da polizia e carabinieri».


Mentre Melloni proseguiva il suo viaggio tutt’intorno un’intera città dava una mano per i soccorsi, i volontari aiutavano i militari a scavare tra le macerie, negli ospedali si formavano code per donare sangue, si formavano servizi d’ordine per dirigere il traffico, si organizzava la distribuzione dell’acqua in qualche modo tutti cercarono di essere d’aiuto.


«Fu una cosa straordinaria – ricorda Melloni con la voce rotta dall’emozione – si sono innescati meccanismi di solidarietà impensabili. Tutti sembravano sapere come comportarsi, i bolognesi in quell’occasione diedero una lezione di vita importantissima».


Proprio di quella straordinaria generosità è simbolo il 37, quell’autobus rosso e giallo con le lenzuola fissate ai finestrini.


«Continuai a lavorare fino alle tre di notte – conclude Melloni - nonostante la stanchezza e nonostante avessi saputo che nella strage era morto Mario Sica, il responsabile del servizio personale dell’Atc, un «avversario», per me che ero un sindacalista. Una persona con cui avevo costruito un ottimo rapporto nonostante la divergenza di opinioni e che fui onorato di guidare in quel suo ultimo viaggio sul 37»


da "Sabato sera" del 3 agosto 2002


www.stragi.it


La foto è tratta dall'archivio dello stesso sito


 


http://www.cedost.it/news/2ago/scheda.htm