lunedì 30 maggio 2005

L'Italia l'è malata, tanto.

Riporto integralmente l'articolo di Michele Serra, pubblicato stamattina in prima pagina da "la Repubblica". E' lungo, ma vale la pena leggerlo fino in fondo, anche perché scorre molto bene. Ai commenti, sul precedente post, risponderò con maggiore calma.


La lunga odissea in autostrada per percorrere 200 chilometri

alla media di 50 all'ora e senza il segnale di Isoradio

Milano-Bologna in 4 ore

la trappola del cantiere A1


di MICHELE SERRA







QUATTRO ore tonde per percorrere, di sera, i duecento chilometri tra Milano e Bologna, alla media (di anteguerra) di cinquanta all'ora, smanettando sull'autoradio alla ricerca impervia delle notizie sul traffico, schiacciati tra mandrie impressionanti di camion, sfilando a passo d'uomo lungo cantieri interminabili e quasi sempre deserti, rimuginando (con l'iracondia che fa velo all'affetto) su questo Paese sdrucito, ansante, rassegnato.



Come i vecchi quando invecchiano male.



Mi è accaduto l'altra sera ma è tutt'altro che un'eccezione, mi è accaduto infinite altre volte, a tutte le ore del giorno, in tutte le stagioni dell'anno, su questa tratta rettilinea, apparentemente "facile", senza gallerie e curve, che infila per lungo una delle lande più ricche del mondo, e che è diventata, negli anni, una spietata parodia di autostrada. La domanda più ovvia diventa anche la più ardua: perché?



Perché da cinque anni (cinque!!), tra Modena Nord e Bologna, i lavori per la quarta corsia riducono l'Autosole a un pazzesco budello (due corsie, una corsia, tappo con quattro-cinque chilometri di coda anche di notte)? Perché i lavori dell'alta velocità ferroviaria, attigui all'autostrada, più altre misteriose opere in corso, hanno trasformato il rettilineo tra Reggio Emilia e Milano in una sequenza di perfide e improvvise chicanes, con righe gialle e righe bianche che si sovrappongono con criteri arcani, creando specie di notte un effetto-traveggole micidiale, tra filari di cappelli da mago spesso sfrittellati dai camion, muraglioni sghembi di spartitraffico in cemento, continui cambi di corsie? Come è possibile che un lungo nastro rettilineo assuma l'aspetto tipico delle autostrade di valico, o di un parco di divertimenti per amanti dell'autoscontro (manca solo un toboga, il resto c'è tutto)? Come mai nei cantieri, tre volte su quattro, non vedi mai nessuno che lavora, e macchine asfaltatrici ferme, e gru pencolanti nel buio, con una sensazione da day-after, o da day-before, che sembra alludere a un abbandono forzato del posto di lavoro da parte di maestranze terrorizzate dall'arrivo di Godzilla, o da un virus alieno, o dalla guerra nucleare?







A cosa serve un servizio pubblico come Isoradio, dal segnale agonizzante per lunghi tratti (come tutte le stazioni di Radiorai, per altro, lasciate allo sbando nella folle giungla delle frequenze), e spesso del tutto assente nelle arterie che portano alle autostrade, cioè proprio laddove servirebbe sapere in anticipo le condizioni del traffico? Ci sono pezzi di Italia (per esempio la provincia di Livorno) dove Isoradio è totalmente sopraffatta da una radiolina locale urlante, e così accade in molti altri luoghi: ma le frequenze di un servizio pubblico non dovrebbero essere protette? Oppure è normale che uno cerchi di sapere in che condizioni è la strada davanti a lui, e invece sia costretto a sentire che Gigio dedica a Monica (dio li strafulmini entrambi) un brano dei Subsonica?



Perché, dopo trent'anni (due generazioni) che si indica l'esorbitante numero dei camion come uno dei problemi infrastrutturali più gravi del paese, i camion sono aumentati a dismisura, e non si riesce a far viaggiare su rotaia le merci, e ad ogni ribaltamento di Tir si blocca mezzo paese per mezza giornata? (L'altra sera era un camion di mangimi: ci si rallegrava, tra gli ingorgati, che per una volta non fosse roba chimica, e veniva voglia di sfamarsi con le granaglie sparse sull'asfalto, per ingannare il tempo). E' così inaudito, così impossibile programmare davvero, dopo decenni di chiacchiere e lamenti, una riforma del traffico-merci?



E perché i giornali italiani dedicano più spazio alle polemiche (freschissime!) sul patto Molotov-Ribbentrop, e se siano stati più cattivi i fascisti o i comunisti, e così poco spazio a questo assurdo ristagno della politica vera, quella che decide, che indirizza, che cambia?



Tutte queste domande, in quattro ore di tempo, hanno lo spazio mentale per sedimentarsi, e diventare un quasi doloroso grumo di impotenza. Perché le risposte, probabilmente, sono troppo difficili, o sono molte più di una, o sono impronunciabili perché indicherebbero responsabilità troppo gravi, o conflitti di competenza troppo delicati.



Magari in Italia ci vogliono cinque anni, per fare una quarta corsia in un tratto di pianura, perché qualcuno non vuole farsi espropriare il suo orto di patate e ha fatto ricorso al Tar. Magari non si lavora di notte, in cantieri fatti apposta (in tutto il mondo) per lavorare di notte, a causa di qualche complicata grana sindacale, o perché costa troppo, o perché nessuno si incarica di far rispettare tempi di consegna che dovranno pure esistere, in calce a qualche contratto. E magari le radioline private soffocano Isoradio perché in ogni contrada c'è un onorevole protettore della radio di suo cugino, o peggio perché non gliene frega niente a nessuno, di Isoradio, tanto è un servizio pubblico. E magari nella faccenda dei camion nessuno mette seriamente le mani perché prima c'era la Fiat che tirava forte, e doveva vendere tanti Iveco, e oggi c'è la Fiat che non tira per niente, e deve vendere tanti Iveco.



Non so, non giudico, nemmeno mi aspetto risposte precise e convincenti. Semplicemente prendo atto. Pago il pedaggio, ascolto la radio che riesco ad ascoltare, metto a profitto le soste forzate per telefonare, leggere i giornali, mi sono abituato a riconsiderare l'autostrada un po' come un traghetto, tempi lunghi, braccia conserte, niente fretta e guardare il mare - nel mio caso, facendo di necessità virtù, guardare il profilo degli Appennini, i campi, i frutteti, i casolari, il poco che rimane della pianura padana che è così bella quando è bella, cioè molto di rado.



E non bisogna neanche lamentarsi troppo, in fondo. Peggio che a me, pochi giorni fa, è andata a quattro preti in gita, che per colpa di uno degli infiniti cantieri-imbuto (Piacenza Sud) hanno fatto a sportellate con un'altra macchina e sono finiti a muso in giù dentro un fossato, poveri quattro preti, a rendere l'anima al creatore. Al quale avranno chiesto, magari, perché si deve crepare così, stupidamente, magari per qualche settimana di ritardo nella rappezzatura di una corsia, o per qualche cappello da mago dimenticato qualche ora di troppo, come il misterioso segnaposto di un lavoro virtuale, in un paese sempre più virtualmente ricco e moderno, sempre più quotidianamente sfasciato, stracco, indifferente.






Il linguaggio dei gesti

Iniziare la settimana con B., tessera P2 1816, non è molto beneaugurante, ma dovremo farcene una ragione (purtroppo) fino a quando non saranno le urne (speriamo presto) a stabilire diversamente. A proposito di urne: il 12 giugno si voti pure secondo coscienza, ma si voti. Sarà interessante vedere se questa volta, opportunamente, arriverà un sms come promemoria. Si accettano scommesse, ma il cellulare sono certo che resterà muto.

Dunque B., ha trascorso la domenica a Bolzano, dove almeno ha potuto celebrare una vittoria assodata,  dopo tante sconfitte non solo politiche e nell'euforia ha lanciato, per non perdere l'abitudine,  critiche al sistema dei media che sovente, secondo lui, non riportano esattamente quel che dice. "Il sistema dei media spesso ribalta la verità - ha spiegato parlando dal palco di Bolzano - nonostante noi si finisca di lavorare ogni notte alle due e mezzo, quando arrivano le prime edizioni dei giornali e si leggono i titoli delle prime pagine spesso cadono le braccia". B., poco prima, aveva raccontato un aneddoto alla folla, dicendo che, una volta, stava parlando con la sua anziana madre e che un giovane gli si era fatto incontro come per salutarlo, poi all'ultimo momento gli aveva mostrato il dito medio alzato. "Non è una cosa cattiva - ha raccontato, dicendo di essersi rivolto a sua madre - non ti preoccupare mamma, significa che io sono il primo". Proprio riferendosi alla stampa, B. ha detto di essersi pentito per aver raccontato questo aneddoto, perché domani la stampa lo dipingerà sicuramente come un uomo volgare. Magari volgare no, ma arrogante, presuntuoso, piccolo (non di statura), dilettante (come lo ha definito Enzo Biagi) e chi più ne ha più ne metta, lo è di certo.

La storiella è simpatica se riferita a quel giovane (braccato dalle guardie del corpo? Denunciato? Processato? Un eroe, comunque) che gli ha lanciato un messaggio preciso e inequivocabile, facendosi interprete di un auspicio molto condiviso tra la parte sana della popolazione. Divertente, poi, la spiegazione che B. ha fornito alla madre. Insomma un buontempone. Ci mancheranno le sue battute, quando se ne andrà. Già, ma quando?

giovedì 26 maggio 2005

Musica è

Il potere evocativo delle canzoni è enorme. Non ci credevo fino a poco tempo fa, poi talune esperienze (amare) maturate me lo hanno confermato. Ne avrei fatto sicuramente a meno di riscontrarlo in circostanze negative, ma così va talvolta la vita.

Non sono un musicofilo, come un illustre blogger enciclopedico nello specifico, non sarei in grado di riconoscere una canzone da una frase, mi troverei in difficoltà a stilare un elenco di brani preferiti. E, per scrivere, di norma preferisco  il silenzio, rotto adesso dalle vivaci grida dei bambini che inseguono un pallone sul piazzale dell’oratorio. Tuttavia, anche per merito del simpatico giochino di un blogger già molto stimato, mi sono trovato a passare in rassegna i motivi più rappresentativi che, magicamente, hanno riempito una precisa casella nelle fasi della mia vita. Solo ed esclusivamente quella, certo legata al primo ascolto, alle suggestioni del momento, all’età.

Dire Lucio Battisti è fin troppo ovvio, scegliere tra la sua immensa produzione è imbarazzante, perché si ha la certezza di dimenticare sempre qualcosa, perciò mi limito ad estremizzare e indicare “La luce dell’est”, una canzone capace di creare un’atmosfera straordinaria, come se fossero pennellate continue su un quadro in rapida evoluzione. Da ascoltare facendosi trasportare da quell’immagine che, fin dalla prima volta, mi colpì, qualche anno-luce fa, “quel seno bianco e morbido tra noi” che, per un ragazzino, costituiva una delle massime aspirazioni, soprattutto pensando alla fidanzatina e chiedendosi se anche il suo conservava quelle prerogative. Poi lo accertai.

Parlare de I Pooh può sembrare un po’ retrò, molto commerciale e languido. Eppure “Alessandra” (1972), una canzone di insolita lunghezza (6’51”), mi aveva quasi ipnotizzato al primo ascolto. Anni ricchi di sogni e molta immaginazione. Ignoravo, ovviamente, che sarebbe stata la colonna sonora, una sera, mentre facevo l’amore con “lei” (giusto quattro anni fa la incontrai per la prima volta). Semplicemente incantevole. Tutto.

Uno dei miti è Adriano Celentano e la sua “L’emozione non ha voce” si assapora rapiti e tutta di un fiato, ritrovando sul serio le emozioni vissute, quelle che hanno fatto mancare il respiro. Quando ancora la loro rievocazione produce riverberi di consapevole malinconia. E speranza, ovvio, di nuove suggestioni.

Ma forse a Mina, di classe adamantina e valore assoluto, potrei assegnare l’ipotetico primo posto di una classifica, necessariamente ridotta, per quella canzone di imperiosa e struggente bellezza che è “Se telefonando”. Due minuti e 53 secondi di estasi totale, con il rammarico che sia troppo breve. Ma anche una durata doppia sarebbe apparsa incongrua per fronteggiare l’ondata di emozioni, ricordi e rimpianti che genera.

Si tratta di motivi che più si ascoltano e sempre più piacciono, un’alchimia di magiche combinazioni che rende certi brani immortali. Non sono solo canzonette.

lunedì 23 maggio 2005

Libertà di parola

C’è chi ne ha fatto un dvd (taroccato) e lo vende illegalmente (ovvio). Un collaboratore della trasmissione, come rivela il conduttore divertito, sta dannandosi l’anima per duplicarne copie per parenti ed amici. Insomma la puntata di “Ballarò” del  5 aprile, quella “storica” per l’apparizione a sorpresa di B. tessera P2 1816, lui che non ama il contraddittorio, è ormai diventata un vero e proprio cult.


A divertire sono anche le parole dette, accompagnate da una gestualità da attori consumati. Avanspettacolo direi, ma tant’è questa è la compagnia di giro. Teatranti, più che uomini politici. Un cabarettista capobanda.


La sovrapposizione dei dialoghi concitati, delle voci, l’impossibilità, talvolta, di capire il senso di taluni ragionamenti. Lo scambio di battute e qualche colpo proibito. Siparietti gustosi come quello allestito, di recente, da Fassino e Prestigiacomo, lui pacato nel tentativo di offrire considerazioni, lei bella e provocatrice. Non in “quel” senso, ma per la petulanza e l’insofferenza ad ascoltare altri se non se stessa. Poi, il duetto ha assunto i toni di una schermaglia tra due fidanzatini che si scambiano accuse reciproche, piccole e non di sostanza: il quadernetto di lei, il mondo più grande delle loro teste.


Ma le frasi da ricordare non si esauriscono di certo, perché Rutelli ci ha appena deliziato, si fa per dire, per la veemenza con cui ha rivendicato il suo tirare la carretta, mangiando pane e cicoria (ma dai!). B. per la proposta surreale e sbalorditiva, di cui non si dev’essere reso conto, di candidare al suo posto “uno pulito”. Tutto offerto con un sorriso smagliante, per restare nel clima da paese dei balocchi che aveva promesso, da ciarlatano avvezzo a vendere fumo, che se poi accade in televisione riceve pure la santificazione del camerlengo Vespa. Anzi, accade in televisione, il moderno tempio dove si officiano cerimonie così grottesche eppure tremendamente serie.


Parole in libertà, affermazioni appena fatte e già smentite per fraintendimenti, per ostilità pregiudiziale della stampa, ma intanto: “parlate, parlate, qualcosa resterà”.


Ho ritrovato un ritaglio che raccoglie molte di queste perle, seppure riferite al 2004 (Marco Travaglio le ha collezionate). A dimostrazione che al peggio non c’è mai fine. C’è da sorridere, ma anche irritarsi, però per iniziare una nuova settimana può andar bene,


“Vorrei qui ricordare l’attacco del comunismo alle Due Torri” (B. a Washington il 21.5).  “Siamo in Iraq per combattere le Brigate rosse” (Carlo Giovanardi, Porta a Porta, 14.12).  “Io, su uno come me, non avrei scommesso una lira” (Roberto Calderoli, Corsera, 12.10).  “La sorella di Tremonti  mi ha raccontato che il fratello s’è comprato una macchinetta metti-supposte” (Elisabetta Gardini, quand’era portavoce di Forza Italia, 19.9).  “Non è nostra abitudine invitare indagati a Porta a Porta” (Bruno Vespa, 9.11).  “Prenderemo il 25%, anche di più. Siamo già nella Storia e continueremo a starci da protagonisti” (B., 29.05).  “Ombretta Colli ha fatto bene e farà ancora meglio nei prossimi cinque anni, perché l’è una bela tusa e sa cantare” (B., 24.5. Forza Italia scende sotto il 20%, perde 4 milioni di voti e la Colli perde la Provincia di Milano).  “B. è un dono di Dio epocale, Non solo per il mio ospedale e per il Milan. Ma anche per questo Paese. Grazie a te Silvio, che porti la croce in questi tempi, nel nostro caro Paese” (don Luigi Verzè, 15.5).  “Nel ‘94 B. scese in campo su ispirazione dello Spirito Santo” (don Gianni Baget Bozzo, 27.1).  “Se le due Simone fossero state mie figlie, le avrei prese a schiaffi” (Vittorio Feltri, Libero, 15.9).  “Mi sono stufato di stare sempre dalla parte della ragione e di avere sempre ragione” (Giuliano Ferrara, il Foglio, 5.12).  

 


mercoledì 18 maggio 2005

Timbro finale

Da tempo non parlo più di “lei” e neppure faccio riferimenti. Sembrerebbe scomparsa dalla mente e dalla vita pratica. Assente sul blog che, in fondo, traeva spunto proprio da “lei”, dal suo congedo.

In realtà, cade il condizionale, perché è scomparsa dalla vita quotidiana. Lo sarà tra breve anche dalla mente, sicuramente non restandoci più in quella maniera ossessiva, dolorosa e fastidiosa nello stesso tempo, come doversi grattare la schiena e non poterlo fare.

Nelle settimane successive al suo abbandono, mi trovai a sprofondare sempre più nella depressione. Fisicamente verificavo che, in meno di due mesi e con le feste di fine anno da poco superate, avevo perso già tre chili. Dal fondo del crepaccio lanciai un grido, figlio della disperazione, sotto forma di una lettera, scritta di getto, senza mediazioni o limature. La inviai ad una rubrica di posta del cuore di un settimanale. Si trattava di una serie di interrogativi, quelli che avevo filtrato durante quel tormento. Domande esasperate ed espressamente rivolte all’universo femminile per poter, almeno, decifrare il suo inspiegabile, tutto sommato, voltafaccia, orchestrato con un cinismo di cui mai l’avrei creduta capace.

Dopo circa un mese e mezzo la lettera venne pubblicata. Avevo aggiunto un mio indirizzo e-mail e perciò, nel giro di pochi giorni, venni sommerso da una ventina di risposte, per la stragrande maggioranza di donne. Con alcune delle quali, peraltro, il contatto si è infittito prima, stabilendosi in seguito un’amicizia. In un caso tenera.

Sono così diventato depositario abbastanza fidato, devo presumere dal tono delle confidenze, di esperienze dolorose e drammatiche, che hanno segnato profondamente la vita di queste donne, protagoniste loro malgrado. Storie che, ascoltate in tv o lette sui giornali, fanno un certo effetto (sempre col beneficio del dubbio), mentre raccontate da persone verso le quali, ormai, il rapporto si è consolidato, portano a concludere che la realtà dei sentimenti è assai variegata e investe ogni strato sociale.

Superfluo aggiungere, ma lo faccio ugualmente, che questo confronto continuo, talvolta esasperato, che ho avuto e sto avendo con loro mi ha giovato. Dapprima impegnandomi nelle risposte e, dunque, distraendomi dal pensiero fisso che congelava le giornate. Perché, pur restando quello l’argomento principe, già il fatto di sfogarsi scrivendo pagine su pagine elettroniche, in qualche modo sedava. Nella fase successiva, invece, quando la tempesta stava esaurendo il suo vortice, ritemprandomi con prospettive, agevolando il formarsi di una nuova consapevolezza o, meglio ancora, coscienza. Disperdendo gli ultimi residui liquefacendoli nell’indifferenza.

Una di loro mi ha lasciato alcune considerazioni molto efficaci, tali da porre la parola “fine” anche dal punto di vista mentale. “Si sente dalle tue parole – mi ha scritto - che “è stata” e che non sarà più! Si nota ancora quel velo di tristezza che traspare quando parli della vostra storia...  ma è giusto un velo... e questo mi rende felice! Mi rende felice, perché significa che Frank (ovviamente non ha adoperato questo nick che non conosce, tra l’altro) ha fatto un cammino lungo e doloroso, si è guardato dentro il cuore e dentro l’anima ed ha capito che “è finita”! E, soprattutto, lo ha capito la sua testa! Anche, perché, sai meglio di me che, se anche tu oggi la dovessi incontrare, avresti sicuramente un tuffo al cuore li per lì, ma... in un secondo momento?” Già.

A queste efficaci e intelligenti valutazioni, si sono aggiunte quelle constatazioni che, proprio oggi, leggevo nel diario di una cara blogger storica, sull’oblio di date, ricorrenze e numeri. E mi sono accorto che si è verificata pure per me questa perdita di memoria di numeri, un tempo digitati al buio, mentre pur rammentando ancora certe date, queste hanno cessato di produrre emozioni. Dietro c’è il vuoto.

C’è poi un’altra corrispondente, tra le più attente ad analizzare, passo dopo passo, ciò che era accaduto e stava ancora avvenendo a livello di speranze e possibilità, particolarmente apprezzata per la capacità di parlare con schiettezza e senza indulgere nel compatimento. Serve anche essere scossi, in talune circostanze. Ebbene, nei suoi confronti sono particolarmente lieto per un successo - come dire? – d’immagine, avendole fatto cambiare opinione su di me, attraverso comportamenti coerenti. Ecco, infatti, come aveva esordito, rispondendo a quella lettera pubblicata, il 5 aprile 2004: “Tu sei un gran paraculo. Adesso ti spiego”. Mentre, poco più di un anno dopo, il 28 aprile, annota: “Dolce! Sei un amico dolcissimo. Ti voglio bene”. E tanto basta. Se lo sapesse “lei” si morderebbe i gomiti e tutto ciò che è irraggiungibile.

 

sabato 14 maggio 2005

Laboratorio d'amore

Mi sono imbattuto casualmente in una curiosa trasmissione su un' emittente Mediaset (capita) : “Diario. Esperimento d’amore”. Un ragazzo e una ragazza che non si sono mai conosciuti, vengono fatti incontrare in luoghi suggestivi, quali le località lungo le coste siciliane, dalle pagine di un quaderno rosso, un diario, che rivela di giorno in giorno, quali prove o itinerari dovranno affrontare per fraternizzare e verificare, così, se potrà esistere la possibilità di iniziare una storia d’amore. Rimarranno assieme una settimana, poi si divideranno e saranno loro stessi, riempiendo l’ultima pagina del diario, a decidere se continuare quell’avventura, nata per caso, oppure non rivedersi mai più.

I protagonisti, tutti giovani e belli, con professioni dinamiche, sembrano stare bene al gioco, non mostrano nessun imbarazzo e accettano volentieri di sottoporsi a questo tentativo di creare, come in laboratorio, tutte le opportunità per fare scattare la fatale scintilla. Quindi, esauritasi la vacanza, il ritorno in studio e l’attesa di vedere come andrà a finire.

Nella puntata che ho seguito a fare da sfondo c’erano paesaggi incantevoli della costa orientale della Sicilia. Il “lui” era alto, piacente (non sono un esperto, ho chiesto una perizia), romano e faceva il rappresentante di commercio per una cartolibreria. Lei biondina, gradevole, di Busto Arsizio, praticante in uno studio legale a Milano.

La storia che il diario ha delineato per loro è accattivante, i rispettivi gusti si incrociano bene (lei adora Roma) e dimostrano di avere acquisito subito una naturale spigliatezza, come se si conoscessero da sempre. Perciò, quando arriva il fatale momento della forzata separazione, il rammarico che manifestano è reale.

Li ritroviamo in studio, da dove hanno seguito il filmato della loro avventura, rigorosamente separati, senza potersi vedere e parlare. Ma il particolare è irrilevante, perché pare proprio che le cose tra loro due siano messe bene e l’ultima pagina del diario sarà liberatoria: davvero potranno vivere, nella realtà, quello che era nato come gioco.

L’attesa sembra dunque priva di suspence, se non fosse per la scritta che scorre sul video e che la ragazza non può leggere: lui fa lo spogliarellista. Ed ecco partire un filmato che mostra il giovane romano su un palco, di fronte a lui c’è una donna in atteggiamento inequivocabile, Il primo piano sulla biondina è impietoso e il suo aperto sorriso si trasforma in una smorfia prima e in un volto corrucciato e quasi schifato poi. L’euforia cede il passo alla delusione,  

Lui fa sapere che vorrebbe iniziare una storia d’amore, precisando che per  regolamento aveva dovuto nascondere quel particolare. Ma la ragazza rimpiange il sogno vissuto sull’isola e quel ragazzo conosciuto così gentile e premuroso, perché dopo quello che ha visto, no, non se la sente proprio di proseguire e abbandona la trasmissione.

L’esperimento d’amore è fallito, ma resta un retrogusto amarognolo, perché mi sembra eccessivo giocare con i sentimenti, se tali nascono e si manifestano. Magari quella ragazza ci credeva veramente in quel sogno e la sua delusione è stata palese e non artificiale. Lui continuerà a fare le serate tra i gridolini estasiati delle sue ammiratrici, ma lei riuscirà a convincersi che è stato tutto un gioco?

 

 

giovedì 12 maggio 2005

Il passato che ritorna

Nei notiziari televisivi, con le abituali immagini a colori, s’intrecciano in questo periodo tremolanti e, talvolta sbiaditi, filmati in bianco e nero che scaraventano in casa un passato che ritorna con i suoi misteri irrisolti, i dilemmi laceranti e drammatici.

Angelo Izzo. E il pensiero corre subito là, al massacro del Circeo, che per l'atrocità delle sevizie inferte a Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, la quale morì,  resta una delle pagine criminali più allucinanti del dopoguerra.

Il delitto avvenne il primo ottobre del 1975. Dopo 36 ore di torture morali, fisiche e sessuali, tre giovani: Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, tutti gravitanti negli ambienti neofascisti della capitale, uccidono Rosaria Lopez, 17 anni, che assieme alla sua coetanea, Donatella Colasanti, li aveva seguiti nella villa al Circeo di Ghira, convinte di andare ad una festa.

Dopo una notte di bestiale e vigliacca violenza, all'alba, i tre - pensando che le due ragazze siano morte - le avvolgono in sacchi di plastica, caricandole nel bagagliaio della 127 di Guido e fanno ritorno a Roma. Prima di sbarazzarsi dei corpi delle due ragazze, parcheggiano tranquillamente l'auto sotto l'abitazione dello stesso Guido e si allontanano. Ma Donatella Colasanti, tramortita e ferita, è ancora viva e, accortasi che l'auto è stata abbandonata, comincia a gemere, richiamando così l'attenzione di un vigile notturno che apre il bagagliaio dell'auto e la salva. Quella foto è sconvolgente e resterà per sempre impressa nella retina.

Gianni Guido viene subito arrestato, in apparente stato di confusione mentale. Angelo Izzo poco dopo, Andrea Ghira riesce invece a fuggire. Non sarà mai catturato, in virtù delle protezioni di cui ha sempre goduto. Pariolino. Fascista, caricando questo termine con tutto il disprezzo possibile.

Pier Paolo Pasolini, credo il maggior intellettuale italiano del secolo, caduto in un agguato che per molto tempo ha fatto comodo, perché più rassicurante, accreditare come “a sfondo sessuale” ad opera di un ragazzo di vita, quel Pino Pelosi che ha ora fornito un'altra versione dell’omicidio, probabilmente più verosimile e, nello stesso tempo, inquietante. Lo scrittore e regista venne assassinato la notte del 2 novembre 1975. Accadde di tutto in quell’anno. Il sonno della ragione aveva generato mostri. Trent’anni fa. Ricorrenze e fatalità si rincorrono.

Manca una voce come quella di Pasolini con le sue denunce lucide e non omologate. Fosse mai venuto in mente a qualcuno, nella circostanza, di riproporre stralci di interviste che, voglio pensare, siano custodite nelle Teche Rai. Ancora oggi Pasolini è scomodo.

Poi c’è quel buco nero, non solo letterale, nella nostra coscienza, devastante come la bomba deflagrata nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura. 12 dicembre 1969. E finalmente qui qualcuno che pagherà, vale a dire i parenti delle vittime. Se poi davvero interverrà lo Stato è secondario, perché l’infamia resta. E i colpevoli impuniti. 

I magnifici anni ’60 stanno ormai volgendo al termine e come nella fase di passaggio, per ogni persona, si lascia l’età rassicurante dell’adolescenza per fare l’ingresso nell’età adulta, ecco profilarsi la strategia della tensione, incombere il periodo delle stragi di Stato e dunque, fasciste, preludio agli anni di piombo.

E’ la storia recente vissuta, non sui libri, ma in diretta, che torna a tormentarci con interrogativi sempre più pressanti. A confondersi con il presente per tornare ad imporre i protagonisti di allora, mentre  la passione ideale che pure possedeva tanti animi sembra latitare, evaporata tra i lustrini, i nani e le ballerine della cattiva maestra televisione.

 

“Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). 

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. 

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. 

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. 

Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). 

Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. 

Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). 

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli. 

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. 

Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”.

Pier Paolo Pasolini.  “Corriere della sera” 14 novembre 1974. Il romanzo delle stragi.  Facente parte della raccolta di saggi “Scritti corsari”. 

 

 

domenica 8 maggio 2005

Risvegli

Ho trovato i commenti relativi al post precedente di livello eccellente e desidero ringraziarvi per una partecipazione così qualitativamente elevata, deterrente all'ondata di banalità e stupidità che, come lo tsunami, rischia di travolgere e sradicare il buon senso e opacizzare l'intelligenza. Grazie.





La storia di Donald Herbert, raccontata nei giorni scorsi da repubblica.it, lascia stupefatti. La riporto quasi integralmente.


L’uomo, un pompiere di New York che nel 1995 aveva 34 anni, riportò gravi danni cerebrali durante il crollo di un tetto, in un'abitazione in preda alle fiamme. Sepolto dalle macerie, il pompiere restò per alcuni minuti senz'aria, rimanendo in coma per due mesi e mezzo. In seguito riaprì gli occhi, ma i referti clinici lo descrivevano come cieco, muto e incosciente dell'ambiente circostante.


Ma improvvisamente, dopo nove anni e mezzo, si è svegliato, ha cercato la moglie e chiesto notizie su figli, amici e parenti, continuando ininterrottamente a parlare per 14 ore. Poi si è addormentato e ha riposato per oltre un giorno. Uno zio racconta che Herbert ha chiesto per quanto tempo era rimasto incosciente e, una volta saputa la verità, ha esclamato: "Pensavo non fossero più di tre mesi". "Quando l'ho visto ero sbalordito - racconta uno dei medici che hanno avuto in cura Herbert - non solo d'improvviso si è messo a parlare, ma lo ha fatto in modo ragionevole, facendo battute spiritose e ricordando il suo passato, capace di riconoscere tutti. L'unica cosa è che non riesce a capacitarsi di essere stato in una condizione diversa per dieci anni".


Ora Donald Herbert viene sottoposto a esami clinici e cure, i dottori stanno cercando di capire che cosa è successo d'improvviso nel suo cervello e parlano di un miracolo. Per tutto questo tempo, infatti, l’uomo era rimasto seduto su una carrozzella, in stato vegetativo, incapace di comunicare con l'esterno. Ora ci si aspettano nuovi progressi da lui, che dopo l'exploit del risveglio ha alternato momenti di vivacità ad altri di stanchezza. I medici ritengono che comincerà a camminare, nutrirsi da solo e parlare sempre di più.”


Al suo risveglio il pompiere ha trovato un mondo molto diverso. C’è stato l’11 settembre, per esempio e il suo paese si è infognato in una stupida guerra, come tutte le guerre del resto. Di certo, per Donald, è stato più importante poter provare di nuovo il calore familiare.


Mi sono così trovato a pensare ad un antico sogno dell’uomo, quello cioè di essere ibernato per poi venire riportato ad uno stato di coscienza in un futuro prossimo venturo, certo in modo meno traumatico di un coma. Chiedendomi, però,  come potrei trovarmi in un mondo che certo, in dieci anni, avrebbe mutato la propria fisionomia, mentre a me verrebbero meno gli strumenti per interpretarlo e capirlo, avendo peraltro dieci anni in più. E poi si tratterebbe di anni perduti oppure riacquistati?


La tentazione di indugiare su questa fantasia è molto forte, altrettanto quella della curiosità di sapere cosa sarebbe accaduto durante l’ibernazione. Ma poi le riflessioni vanno oltre e dal ritorno al futuro si spostano vorticosamente al ritorno al passato. A come si potrebbe intervenire in situazioni di cui abbiamo “conosciuto” la conclusione, al tipo di mentalità avanzata rispetto, per esempio, agli anni ’60 o ’70. Alle mode, alle tendenze, a come l’uomo del terzo millennio, catapultato all’indietro, sarebbe in grado di comportarsi. Un viaggio, con la fantasia, nel tempo e nello spazio, per rifiatare prima di riprendere il quotidiano contatto con la realtà ineludibile.

mercoledì 4 maggio 2005

L'ascolto necessario

Una giovane donna, di chiare ascendenze asiatiche, sale sull’autobus e, in un italiano approssimativo ma comprensibile, chiede informazioni all’autista circa il percorso. L’uomo le risponde affermativamente e la ragazza, rassicurata e di nuovo sorridente, si accomoda accanto a me. Considero che il mescolamento, anche di lingue, pure questo richieda, cioè l’ascolto proprio in senso letterale, quello della mente.

La capacità banale di produrre un piccolo sforzo supplementare per rispondere ad un interrogativo sulla via, sulla piazza da raggiungere, sul mezzo pubblico da utilizzare, su informazioni in generale che una persona che conosce poco la nostra lingua, di cui maneggia scarsi rudimenti, ci sottopone. Un modestissimo passo in avanti sulla strada dell’integrazione che, ci piaccia o meno, rappresenta la rivoluzione globale, peraltro già in atto e che occuperà ogni angolo del nostro quotidiano, non certo come invasione barbarica, ma alla stregua di un passaggio storico cruciale, come nel passato è già accaduto, con traumi, lacerazioni e instabilità, ma ineluttabile.

Esiste poi l’altro ascolto, quello più estensivo, del cuore, che porta a cercare di capire le esigenze di un amico, di un conoscente, anche di una persona incontrata occasionalmente, pur nelle diverse e logiche sfumature che l’interlocutore interpreta.

Una caratteristica di non facile presa, requisito che non è prerogativa di tutti, investendo le sensibilità più attente e, in definitiva, migliori. Un’affezionata blogger sottolineava, tempo fa, come l’incapacità di imparare ad ascoltare che esiste oggi favorisca la fioritura di blog dove si urlano il malessere e le miserie quotidiane, proprio perché manca l’ascolto e, dunque, in un circolo vizioso, urlano tutti. Magari qualcuno ascolterà.

Amplificando il concetto si può sostenere che, venendo meno la possibilità di trovare quella disponibilità del cuore ad ascoltare, ci si volge al virtuale dove il mezzo stesso favorisce conversazioni tra persone che mai si sarebbero potute incontrare, le quali non distratte da suggestioni sensoriali, intese come esaltazione di sensi quali la vista e l’udito, si predispongono a leggere ciò che altri scrivono, magari riscontrando una convergenza di vissuto comune, di analogie che facilitano l’apertura e la confidenza, abbattendo steccati e pregiudizi.

domenica 1 maggio 2005

L'Espresso 1626

Sul treno Napoli-Milano salgono ogni domenica sera gli operai che lavorano al Nord e che, appena 48 ore prima, sono ritornati preso le loro famiglie compiendo il percorso inverso. Il reportage de “La7” racconta il viaggio nella notte di questi uomini. Microfono aperto e via con le confessioni raccolte nei vari scompartimenti dell’ Espresso 1626, preso d’assalto alla partenza per conquistare un posto a sedere che permetterà anche di poter riposare. Per i più sfortunati pure stendersi sul portabagagli sarà opzione privilegiata.


Clima cameratesco, di solidarietà anche discutibile che si manifesta quando arriva il controllore. Il prezzo del biglietto rappresenta un salasso per la loro paga da operai e perciò si ricorre agli artifici più disparati, con i più anziani che istruiscono i giovani, per non pagare. Il controllore che, se potesse eviterebbe quel percorso, colleziona verbali di contravvenzione, rari tagliandi esibiti, oppure il rifiuto categorico dei gruppi più organizzati a mettersi in regola. Così, alla stazione successiva scende, sale a bordo la Polizia e alcune persone rimangono a terra. Mentre il treno continua a bucare l’oscurità.


I commenti s’intrecciano, montano difese più o meno improbabili sul comportamento. Un tipo, con occhiali da sole mantenuti anche all’interno dello scompartimento, chiosa che lì ci sono solo brave persone, che tengono famiglia, bambini da sfamare, altrimenti non si affronterebbe ogni settimana un viaggio del genere.


Superati i controlli, arriva anche il momento di dormire, perché il mattino dopo si dovrà essere puntuali al lavoro. Inizia allora la preparazione per prendere sonno in condizioni facilmente immaginabili, da carro bestiame.


Non ci sono effetti speciali, mancano storie lacrimose, i lustrini e le veline sono banditi, il Palazzo sistemato su un’altra galassia. Spiccano la concretezza, l’orgoglio per le radici partenopee, una malinconica rassegnazione. Mi chiedo quale possa essere il senso dell’esistenza per questi lavoratori, quali i progetti, le ambizioni e le curiosità. Che rapporti familiari con la propria compagna, i figli, si possano stabilmente costruire. Se i tradimenti, che pure non mancheranno, siano essi stessi componenti di queste vite, accettati con fatalismo, vissuti come inevitabili.


Una tristezza infinita accompagna la visione del viaggio e penso, tutto sommato, di essere un privilegiato se, in questo momento, posso ritrovarmi a scrivere sul blog, mentre l’Espresso 1626 è pronto, sui binari, ad accogliere il vociante carico di umanità. Per un’altra notte in cui si ripeteranno i consueti rituali per sfuggire al controllore e, non pagare il biglietto, rappresenterà un auspicio favorevole, chissà, per iniziare la nuova settimana.